foto: livesicilia.it |
Trapani, 3 giugno 2012 – L'aula Falcone del Tribunale si è aperta, per l'udienza numero trenta del processo Rostagno. A parlare, il giornalista Andrea Marcenaro, Michele Monreale, operatore di Rete Tele Cine (nella quale lavorava anche Rostagno) e l'ex deputato regionale per il Partito Comunista Ino Vizzini.
«Ho conosciuto Mauro Rostagno perché militavamo nel movimento studentesco prima e nella stessa organizzazione, Lotta Continua, dopo. Io ero a Catania, Mauro a Palermo» - racconta Marcenaro, primo ad essere ascoltato - «quando tornò dall'India ci vedemmo a Saman nell'agosto del 1988». «La questione antimafiosa era il centro del suo impegno», ha detto il giornalista entrando nel merito dell'attività giornalistica di Mauro Rostagno. «Mi accennò a una serie di rapporti che manteneva con fonti istituzionali che gli garantivano flussi di notizie importanti ma non scendemmo nel dettaglio, mi parlò dello scandalo del quale si stava interessando dell'Ente Fiera del Mediterraneo di Marsala». Un lavoro, quello giornalistico, che Rostagno svolgeva con impegno ed entusiasmo ma che, ha evidenziato Marcenaro, era «accompagnato da una tensione seria, rifletteva seriamente sulla possibilità che questo lavoro potesse sfociare in situazioni pericolose».
In merito ai rapporti tra Rostagno e l'altro fondatore della comunità Saman Francesco Cardella, Marcenaro a precisa domanda del pubblico ministero Francesco Del Bene ha raccontato che, per quanto fosse molto amico del giornalista ucciso, questi «non parlò mai di preoccupazioni legate ad ambienti di Saman».
In merito alla situazione di Marsala, Marcenaro ha ricordato di aver scritto un articolo sul senatore Pietro Pizzo e sull'Ente Fiera del Mediterraneo, ma ha smentito categoricamente di essersi mai interessato ad un presunto traffico di cocaina che si svolgeva nella locale sede della comunità, di cui Marcenaro – ha concluso congedandosi – neanche conosceva l'esistenza.
Dopo Marcenaro, chiamato a deporre è stato Vizzini, che ha lavorato a Trapani per un lunghissimo periodo, incaricato direttamente da Pio La Torre per il quale, ha sottolineato, «non avevo bisogno che l'ammazzassero per dire che era una persona di valore».
Vizzini ha poi detto che i rapporti intrattenuti con Rostagno erano di tipo politico, evidenziando come il giornalista avesse un rapporto nuovo, di dialogo e confronto con il Partito Comunista. «Non c'era l'obiettivo di portare Rostagno nel Pci», ha specificato, «ma di creare un'area progressista e di cambiamento» contro quel «potere visibile» occultato solo a chi non aveva la capacità di vederlo e che «dominava tutto e alla luce del sole».
«Se dovevo parlare di mafia nessuno mi ospitava, se volevo parlare di Roma erano a disposizione. Rostagno invece ti cercava per discutere anche in contraddittorio, in polemica, era un giornalista di quelli che fanno le domande, non come quelli di oggi che non le fanno». Era, di fatto, il tipo di giornalismo che serviva a quell'epoca a Trapani (e che servirebbe, allora come oggi, non solo alla Sicilia).
Vizzini ricorda un'intervista fatta due giorni prima dell'omicidio, avvenuto il 26 settembre del 1988, nella quale si parlò dei 25 miliardi di lire del bilancio parallelo del Comune di Trapani, venuti fuori «perché una legge nazionale obbligava a denunciare debiti fuori bilancio, e qui cominciò un balletto impressionante sulle cifre di questo bilancio parallelo». La notizia, come è normale, scosse molto l'opinione pubblica, secondo quanto riferisce l'ex deputato regionale. «All'epoca c'era Canino deputato Dc [Francesco Canino, ex assessore agli Enti Locali accusato nel 1988 di appartenere al centro Scontrino della loggia Massonica Iside 2 sulla quale proprio Rostagno stava indagando ndr] che scappò dall'Ars per non parlare e sono passati anni perché si discutesse di questo argomento in Parlamento».
La deposizione, poi, si è concentrata proprio sulla loggia massonica e dei suoi intrecci con la mafia e la classe politica trapanese dell'epoca. Per quanto riguarda il capitolo cosa nostra, Vizzini ha sottolineato come questa, negli anni Ottanta, sia stata «legalizzata», anche alla luce del diniego che il sindaco dell'epoca faceva sulla sua esistenza. «C'era chi diceva che parlare di mafia diffamava la Sicilia, ma l'esistenza non veniva messa in discussione. A Trapani invece non si muoveva foglia se non c'era di mezzo la mafia, dagli appalti alle assunzioni. C'è in questa città una grande cappa di oblio, anche adesso». E per uno di quegli strani casi della vita, come si suol dire, in quegli stessi momenti il neo sindaco Vito Damiano del Popolo della Libertà, generale dei carabinieri in pensione con un passato anche nei servizi segreti, ci ha tenuto a dettare la sua linea antimafia: «è giusto parlare di legalità» - ha detto ai giornalisti - «ma di legalità concreta, ecco che allora un laboratorio e uno studio finale dedicato all'alimentazione, che faccia crescere in ogni caso la dote culturale di ognuno, lo preferisco ad un laboratorio sulla mafia»[1], facendo così tornare la città proprio agli anni Ottanta, quelli in cui si sosteneva che la mafia era un'invenzione dei “professionisti dell'antimafia” e che chi la denunciava facendo i nomi e i cognomi – come Giovanni Falcone – arrecava danno all'economia dell'isola.
Tornando al processo e lasciando a chi legge ogni commento sulla dichiarazione testé riportata, prima di terminare l'audizione, il pubblico ministero Gaetano Paci ha posto domande sulla struttura “Gladio”, che proprio a Trapani aveva l'unica base operativa di tutto il Sud Italia. «Come Partito Comunista avevamo la sensazione di essere osservati da qualche organizzazione e in modo illegale. In particolare che qui a Trapani ci fosse una attività che attenzionava noi lo avevamo capito perché c'erano stati segnali specifici sulla presenza di un aereo che portava armi [all'aeroporto in disuso di Kinisia, usato come base d'appoggio proprio dalla struttura atlantica]». «Non sapevo che si chiamasse Gladio», ha detto Vizzini, «ma parlavo di attenzioni che erano su di noi a Trapani e a Palermo su La Torre».
«Dobbiamo essere grati a Rostagno, ha svolto un lavoro utile per noi. Poteva fare il giornalista come gli altri, cosa gliene veniva? Io escludo che la mafia uccida qualcuno senza dargli avvertimenti. Rostagno ha resistito anche a questi avvertimenti e gliene sono grato, ha fatto qualcosa di utile anche per me», ha concluso poi l'ex deputato regionale, cedendo il posto sul banco dei testimoni a Michele Monreale, che ha raccontato de relato delle minacce di Mariano Agate a Rostagno pur non ricordando se dopo l'omicidio la porta dell'ufficio del giornalista – dal quale venne trafugata una videocassetta il cui contenuto rimane ancora oggi misterioso – fosse aperta o chiusa.
«Ho conosciuto Mauro Rostagno perché militavamo nel movimento studentesco prima e nella stessa organizzazione, Lotta Continua, dopo. Io ero a Catania, Mauro a Palermo» - racconta Marcenaro, primo ad essere ascoltato - «quando tornò dall'India ci vedemmo a Saman nell'agosto del 1988». «La questione antimafiosa era il centro del suo impegno», ha detto il giornalista entrando nel merito dell'attività giornalistica di Mauro Rostagno. «Mi accennò a una serie di rapporti che manteneva con fonti istituzionali che gli garantivano flussi di notizie importanti ma non scendemmo nel dettaglio, mi parlò dello scandalo del quale si stava interessando dell'Ente Fiera del Mediterraneo di Marsala». Un lavoro, quello giornalistico, che Rostagno svolgeva con impegno ed entusiasmo ma che, ha evidenziato Marcenaro, era «accompagnato da una tensione seria, rifletteva seriamente sulla possibilità che questo lavoro potesse sfociare in situazioni pericolose».
In merito ai rapporti tra Rostagno e l'altro fondatore della comunità Saman Francesco Cardella, Marcenaro a precisa domanda del pubblico ministero Francesco Del Bene ha raccontato che, per quanto fosse molto amico del giornalista ucciso, questi «non parlò mai di preoccupazioni legate ad ambienti di Saman».
In merito alla situazione di Marsala, Marcenaro ha ricordato di aver scritto un articolo sul senatore Pietro Pizzo e sull'Ente Fiera del Mediterraneo, ma ha smentito categoricamente di essersi mai interessato ad un presunto traffico di cocaina che si svolgeva nella locale sede della comunità, di cui Marcenaro – ha concluso congedandosi – neanche conosceva l'esistenza.
Dopo Marcenaro, chiamato a deporre è stato Vizzini, che ha lavorato a Trapani per un lunghissimo periodo, incaricato direttamente da Pio La Torre per il quale, ha sottolineato, «non avevo bisogno che l'ammazzassero per dire che era una persona di valore».
Vizzini ha poi detto che i rapporti intrattenuti con Rostagno erano di tipo politico, evidenziando come il giornalista avesse un rapporto nuovo, di dialogo e confronto con il Partito Comunista. «Non c'era l'obiettivo di portare Rostagno nel Pci», ha specificato, «ma di creare un'area progressista e di cambiamento» contro quel «potere visibile» occultato solo a chi non aveva la capacità di vederlo e che «dominava tutto e alla luce del sole».
«Se dovevo parlare di mafia nessuno mi ospitava, se volevo parlare di Roma erano a disposizione. Rostagno invece ti cercava per discutere anche in contraddittorio, in polemica, era un giornalista di quelli che fanno le domande, non come quelli di oggi che non le fanno». Era, di fatto, il tipo di giornalismo che serviva a quell'epoca a Trapani (e che servirebbe, allora come oggi, non solo alla Sicilia).
Vizzini ricorda un'intervista fatta due giorni prima dell'omicidio, avvenuto il 26 settembre del 1988, nella quale si parlò dei 25 miliardi di lire del bilancio parallelo del Comune di Trapani, venuti fuori «perché una legge nazionale obbligava a denunciare debiti fuori bilancio, e qui cominciò un balletto impressionante sulle cifre di questo bilancio parallelo». La notizia, come è normale, scosse molto l'opinione pubblica, secondo quanto riferisce l'ex deputato regionale. «All'epoca c'era Canino deputato Dc [Francesco Canino, ex assessore agli Enti Locali accusato nel 1988 di appartenere al centro Scontrino della loggia Massonica Iside 2 sulla quale proprio Rostagno stava indagando ndr] che scappò dall'Ars per non parlare e sono passati anni perché si discutesse di questo argomento in Parlamento».
La deposizione, poi, si è concentrata proprio sulla loggia massonica e dei suoi intrecci con la mafia e la classe politica trapanese dell'epoca. Per quanto riguarda il capitolo cosa nostra, Vizzini ha sottolineato come questa, negli anni Ottanta, sia stata «legalizzata», anche alla luce del diniego che il sindaco dell'epoca faceva sulla sua esistenza. «C'era chi diceva che parlare di mafia diffamava la Sicilia, ma l'esistenza non veniva messa in discussione. A Trapani invece non si muoveva foglia se non c'era di mezzo la mafia, dagli appalti alle assunzioni. C'è in questa città una grande cappa di oblio, anche adesso». E per uno di quegli strani casi della vita, come si suol dire, in quegli stessi momenti il neo sindaco Vito Damiano del Popolo della Libertà, generale dei carabinieri in pensione con un passato anche nei servizi segreti, ci ha tenuto a dettare la sua linea antimafia: «è giusto parlare di legalità» - ha detto ai giornalisti - «ma di legalità concreta, ecco che allora un laboratorio e uno studio finale dedicato all'alimentazione, che faccia crescere in ogni caso la dote culturale di ognuno, lo preferisco ad un laboratorio sulla mafia»[1], facendo così tornare la città proprio agli anni Ottanta, quelli in cui si sosteneva che la mafia era un'invenzione dei “professionisti dell'antimafia” e che chi la denunciava facendo i nomi e i cognomi – come Giovanni Falcone – arrecava danno all'economia dell'isola.
Tornando al processo e lasciando a chi legge ogni commento sulla dichiarazione testé riportata, prima di terminare l'audizione, il pubblico ministero Gaetano Paci ha posto domande sulla struttura “Gladio”, che proprio a Trapani aveva l'unica base operativa di tutto il Sud Italia. «Come Partito Comunista avevamo la sensazione di essere osservati da qualche organizzazione e in modo illegale. In particolare che qui a Trapani ci fosse una attività che attenzionava noi lo avevamo capito perché c'erano stati segnali specifici sulla presenza di un aereo che portava armi [all'aeroporto in disuso di Kinisia, usato come base d'appoggio proprio dalla struttura atlantica]». «Non sapevo che si chiamasse Gladio», ha detto Vizzini, «ma parlavo di attenzioni che erano su di noi a Trapani e a Palermo su La Torre».
«Dobbiamo essere grati a Rostagno, ha svolto un lavoro utile per noi. Poteva fare il giornalista come gli altri, cosa gliene veniva? Io escludo che la mafia uccida qualcuno senza dargli avvertimenti. Rostagno ha resistito anche a questi avvertimenti e gliene sono grato, ha fatto qualcosa di utile anche per me», ha concluso poi l'ex deputato regionale, cedendo il posto sul banco dei testimoni a Michele Monreale, che ha raccontato de relato delle minacce di Mariano Agate a Rostagno pur non ricordando se dopo l'omicidio la porta dell'ufficio del giornalista – dal quale venne trafugata una videocassetta il cui contenuto rimane ancora oggi misterioso – fosse aperta o chiusa.
Note |