foto: dirittodicritica.com |
Misilmeri (Palermo), 13 maggio 2012 – A dicembre il corpo di Nike Favour Adekunle, 21enne nigeriana, lo ritrovarono carbonizzato in mezzo ai rifiuti nelle campagne di Misilmeri, in una stradina di campagna utilizzata ormai come discarica e difficile da raggiungere in auto.
Due giorni fa l'arresto di Giuseppe Pizzo, 58enne operaio di Belmonte Mezzagno, incensurato. Interrogato nei mesi scorsi, Pizzo ha sempre negato tutto. Ma le prove fornite dalla scientifica – primo fra tutti il sangue della giovane ritrovato sul suo pick-up nero – danno una versione decisamente diversa.
Nike era arrivata in Italia agli inizi del 2011 con la promessa di un lavoro sicuro. Promessa che, come spesso capita, si era trasformata presto nell'incubo del marciapiede e del giogo del racket nigeriano, una tra le organizzazioni criminali più potenti dopo quelle italiane e che – come raccontava la giornalista Jenny Kleeman dalle pagine del quotidiano britannico The Independent nell'aprile dello scorso anno[1] – fanno leva su un rito, definito magico nella loro credenza culturale, chiamato “juju”.
Quando vengono acquistate dalle loro famiglie – tutte di Benin City, diventato ormai uno dei centri nevralgici del traffico internazionale di esseri umani a fini di prostituzione – le ragazze contraggono un debito, compreso tra sessanta e centomila euro, verso chi le inganna promettendogli un futuro che non arriverà se non quando decideranno di sporgere denuncia verso i loro protettori e le “maman”, spesso ex prostitute che una volta estinto il debito decidono di passare da sfruttate a sfruttatrici alla quale le ragazze vengono affidate una volta arrivate in Italia. Sarà alle “maman” che le ragazze dovranno restituire il debito ed alle quali pagheranno l'affitto del marciapiede.
Chi non guadagna abbastanza subisce violenze e minacce, le quali riguardano spesso l'eventualità di ritorsioni verso i loro familiari.
Per questo ribellarsi diventa estremamente difficile.
Nike, però, aveva deciso di farlo. Per questo – come raccontava Claudia Brunetto su Repubblica a febbraio[2] – pochi giorni prima di morire aveva comprato un biglietto per Roma, dove avrebbe chiesto il nulla osta alla sua ambasciata per potersi sposare con il suo fidanzato palermitano, chiudendo con quella vita.
In quei giorni, inoltre, le ragazze nigeriane vittime di tratta erano scese per le strade di Palermo a protestare. «Chiediamo maggiore sicurezza. Maggiori controlli e vigilanza. Non siamo carne da macello ma esseri umani in difficoltà. Questa città ci ha accolte con tante promesse, ma adesso siamo confuse. Quello che è accaduto a Loveth [Loveth Eward, uccisa agli inizi di febbraio il cui corpo fu rinvenuto vicino ad un cassonetto della spazzatura in via Filippo Juvara, vicino al Palazzo di Giustizia, ndr]».
«Fino ad oggi più di 250 ragazze sono uscite dal giro» - raccontavano i responsabili dell'associazione “Pellegrino della terra”, attiva dal 1995 la cui sede si trova in uno stabile confiscato alla mafia a Repubblica - «Sono percorsi lunghi e delicati. Le ragazze chiedono un lavoro alternativo, spesso hanno anche dei figli al seguito che devono mantenere. Per questo nella sede della nostra associazione proponiamo corsi di taglio e cucito e di economia domestica. Un'alternativa alla strada per un futuro dignitoso». L'associazione era entrata in contatto anche con Nike «una ragazza solare e sorridente con una grande voglia di vivere. L'ultima volta è stata vista alla Favorita, come sempre, prima di sparire per tre giorni e morire brutalmente».
Di una storia simile avevamo già parlato a novembre, quando per la giornata internazionale contro la violenza sulle donne avevamo raccontato la storia di Lilian Solomon[3], 23enne nigeriana costretta a prostituirsi dai suoi connazionali prima di ammalarsi e morire per un linfoma Non Hodgkin dopo una dura battaglia legale dovuta al suo status di irregolarità. In quell'occasione avevamo concluso domandandoci se quella ventata di femminismo che si riconosceva dietro la campagna “Se non ora, quando?” non celasse in realtà una mera forma di anti-berlusconismo dato che dimenticava spesso le ragazze vittime di tratta.
Oggi, con il femminicidio di Vanessa Scialfa ancora negli occhi[4], torno a rifare quello stesso interrogativo, anche alla luce di quel “codice etico per la stampa in caso di femminicidio[5]”, affinché il movimento femminista che sembra stia rinascendo in Italia assomiglio più al movimento degli anni Settanta che non a quella mistura di parlamentari di destra e sinistra che salgono sui pulpiti mediatici per poi votare l'esatto contrario di quanto dicono (su questo discorso vi rimando al post di Femminismo a Sud[6])
«È attitudine buona e giusta denunciare la sopraffazione machista» - scrive Roberto Puglisi su livesicilia.it[7] - «Ma scorrendo le liste della rabbia e gli appelli della pietà, cadiamo in vistose buche. C'è un rosario di vite spezzate o manomesse con troppe assenze. La sacrosanta indignazione per una ragazza “normale” straziata dal mostro che aveva accanto è un riflesso necessario, accompagnato da un coro di maggioranza. In morte di una prostituta, il controcanto dolente è un flebile fiato di pochi illuminati, il lutto di una cerchia ristretta. Chi dirà una preghiera per Nike, uccisa e bruciata a Misilmeri? Ci concentriamo sull'identità del suo presunto assassino, senza pensare a lei. E il resto è un cielo cupo e morboso. Chi protesta per le anime spezzate della Favorita, lo scandalo sotto gli occhi della brava gente? Chi denuncia la tratta delle “nigeriane”, come se il termine fosse normale sinonimo di compravendita, tanto che “nigeriana”, nell'immaginario comune, si associa al mestiere antico dell'offerta di sé? Chi piange quando muore una puttana?»
Due giorni fa l'arresto di Giuseppe Pizzo, 58enne operaio di Belmonte Mezzagno, incensurato. Interrogato nei mesi scorsi, Pizzo ha sempre negato tutto. Ma le prove fornite dalla scientifica – primo fra tutti il sangue della giovane ritrovato sul suo pick-up nero – danno una versione decisamente diversa.
Nike era arrivata in Italia agli inizi del 2011 con la promessa di un lavoro sicuro. Promessa che, come spesso capita, si era trasformata presto nell'incubo del marciapiede e del giogo del racket nigeriano, una tra le organizzazioni criminali più potenti dopo quelle italiane e che – come raccontava la giornalista Jenny Kleeman dalle pagine del quotidiano britannico The Independent nell'aprile dello scorso anno[1] – fanno leva su un rito, definito magico nella loro credenza culturale, chiamato “juju”.
Quando vengono acquistate dalle loro famiglie – tutte di Benin City, diventato ormai uno dei centri nevralgici del traffico internazionale di esseri umani a fini di prostituzione – le ragazze contraggono un debito, compreso tra sessanta e centomila euro, verso chi le inganna promettendogli un futuro che non arriverà se non quando decideranno di sporgere denuncia verso i loro protettori e le “maman”, spesso ex prostitute che una volta estinto il debito decidono di passare da sfruttate a sfruttatrici alla quale le ragazze vengono affidate una volta arrivate in Italia. Sarà alle “maman” che le ragazze dovranno restituire il debito ed alle quali pagheranno l'affitto del marciapiede.
Chi non guadagna abbastanza subisce violenze e minacce, le quali riguardano spesso l'eventualità di ritorsioni verso i loro familiari.
Per questo ribellarsi diventa estremamente difficile.
Nike, però, aveva deciso di farlo. Per questo – come raccontava Claudia Brunetto su Repubblica a febbraio[2] – pochi giorni prima di morire aveva comprato un biglietto per Roma, dove avrebbe chiesto il nulla osta alla sua ambasciata per potersi sposare con il suo fidanzato palermitano, chiudendo con quella vita.
In quei giorni, inoltre, le ragazze nigeriane vittime di tratta erano scese per le strade di Palermo a protestare. «Chiediamo maggiore sicurezza. Maggiori controlli e vigilanza. Non siamo carne da macello ma esseri umani in difficoltà. Questa città ci ha accolte con tante promesse, ma adesso siamo confuse. Quello che è accaduto a Loveth [Loveth Eward, uccisa agli inizi di febbraio il cui corpo fu rinvenuto vicino ad un cassonetto della spazzatura in via Filippo Juvara, vicino al Palazzo di Giustizia, ndr]».
«Fino ad oggi più di 250 ragazze sono uscite dal giro» - raccontavano i responsabili dell'associazione “Pellegrino della terra”, attiva dal 1995 la cui sede si trova in uno stabile confiscato alla mafia a Repubblica - «Sono percorsi lunghi e delicati. Le ragazze chiedono un lavoro alternativo, spesso hanno anche dei figli al seguito che devono mantenere. Per questo nella sede della nostra associazione proponiamo corsi di taglio e cucito e di economia domestica. Un'alternativa alla strada per un futuro dignitoso». L'associazione era entrata in contatto anche con Nike «una ragazza solare e sorridente con una grande voglia di vivere. L'ultima volta è stata vista alla Favorita, come sempre, prima di sparire per tre giorni e morire brutalmente».
Di una storia simile avevamo già parlato a novembre, quando per la giornata internazionale contro la violenza sulle donne avevamo raccontato la storia di Lilian Solomon[3], 23enne nigeriana costretta a prostituirsi dai suoi connazionali prima di ammalarsi e morire per un linfoma Non Hodgkin dopo una dura battaglia legale dovuta al suo status di irregolarità. In quell'occasione avevamo concluso domandandoci se quella ventata di femminismo che si riconosceva dietro la campagna “Se non ora, quando?” non celasse in realtà una mera forma di anti-berlusconismo dato che dimenticava spesso le ragazze vittime di tratta.
Oggi, con il femminicidio di Vanessa Scialfa ancora negli occhi[4], torno a rifare quello stesso interrogativo, anche alla luce di quel “codice etico per la stampa in caso di femminicidio[5]”, affinché il movimento femminista che sembra stia rinascendo in Italia assomiglio più al movimento degli anni Settanta che non a quella mistura di parlamentari di destra e sinistra che salgono sui pulpiti mediatici per poi votare l'esatto contrario di quanto dicono (su questo discorso vi rimando al post di Femminismo a Sud[6])
«È attitudine buona e giusta denunciare la sopraffazione machista» - scrive Roberto Puglisi su livesicilia.it[7] - «Ma scorrendo le liste della rabbia e gli appelli della pietà, cadiamo in vistose buche. C'è un rosario di vite spezzate o manomesse con troppe assenze. La sacrosanta indignazione per una ragazza “normale” straziata dal mostro che aveva accanto è un riflesso necessario, accompagnato da un coro di maggioranza. In morte di una prostituta, il controcanto dolente è un flebile fiato di pochi illuminati, il lutto di una cerchia ristretta. Chi dirà una preghiera per Nike, uccisa e bruciata a Misilmeri? Ci concentriamo sull'identità del suo presunto assassino, senza pensare a lei. E il resto è un cielo cupo e morboso. Chi protesta per le anime spezzate della Favorita, lo scandalo sotto gli occhi della brava gente? Chi denuncia la tratta delle “nigeriane”, come se il termine fosse normale sinonimo di compravendita, tanto che “nigeriana”, nell'immaginario comune, si associa al mestiere antico dell'offerta di sé? Chi piange quando muore una puttana?»
Note |
[2] La storia di Nike, bruciata a vent'anni per essersi ribellata al clan dei nigeriani di Claudia Brunetto, inchieste.repubblica.it, 16 febbraio 2012;
[3] http://senorbabylon.blogspot.it/2011/11/25-novembre-giornata-contro-la-violenza.html;
[4] http://www.infooggi.it/articolo/vanessa-20-anni-morta-di-femminicidio/27128/;
[5] Codice etico per la stampa in caso di femminicidio, zeroviolenzadonne.it, 5 maggio 2012;
[6] Siena, le donne e la puzza del rosa, femminismo-a-sud.noblogs.org, 11 luglio 2011;
[7] Chi piange per una puttana? di Roberto Puglisi, livesicilia.it, 13 maggio 2012