Perché l'impressione che se ne ha – quanto meno l'impressione che ho avuto io guardando le immagini per la prima volta – è stata quella di trovarmi di fronte a scenari ben diversi. A scenari di paesi in guerra. O scenari di paesi colpiti da qualche disastro naturale.
Ma non c'erano donne e uomini afghane/i su quelle barelle, non c'erano bambine e bambini haitiane/i o giapponesi, tanto per rimanere alla cronaca più stringente.
No. Su quelle barelle ci sono cittadini del mio stesso paese, di quel paese di cui ieri qualcuno ha voluto festeggiare il compleanno, ammantandosi di quel senso di “onor patrio” che di solito si rispolvera ad ogni competizione internazionale della nazionale di calcio ma del quale, francamente, poco c'è da essere orgogliosi.
Ci siamo appena rituffati in un'esperienza bellica che – comunque andrà a finire – ci vedrà sconfitti e tra le tante storture italiane di cui non parlano i giornali ci sono fin troppe cose che un paese che si definisce civile non dovrebbe permettersi.
Come può un paese che si definisce civile permettersi il “lusso” di una situazione come quella denunciata qualche giorno fa dall'edizione romana de “La Repubblica”, dove
(...)nell'area del Dipartimento Emergenza e Accettazione, il DEA, le permanenze ristagnano per tempi lunghissimi, a volte anche più di tre giorni passati su una barella o, se sono tutte occupate, su una poltrona o una sedia. Una media di 14 ore. I pazienti in Codice Rosso, nella cosiddetta Piazzetta, restano in attesa di un ricovero in rianimazione in media 14 ore con punte fino a 3-5 giorni
o ancora, come scriveva il Corriere della Sera
(...)il personale, spesso precario, è costretto senza rispetto per la dignità e la privacy dei pazienti, ad ammassare uomini, donne, anziani e giovani, su barelle e poltrone, come in un grande calderone, tra flebo e mascherine d'ossigeno(...)Il record di attesa, in questa triste classifica, spetta a una filippina colpita da ictus: è in fin di vita e aspetta da 20 giorni un letto in rianimazione.
In tutto questo, naturalmente, c'è da tenere in conto anche che le ambulanze sono costrette a rimanere ferme davanti ai Pronto Soccorso in attesa che vengano loro restituite le barelle, mentre cittadini che di quelle ambulanze avrebbero bisogno, sono costretti a recarsi in ospedale senza poterne usufruire, con tutto ciò che questo comporta, non ultimi quei 15 milioni di euro all'anno che la Regione Lazio paga per autisti, barellieri e mezzi costretti a passare i loro turni in sosta per mancanza di barelle.
A differenza di quello che abbiamo potuto vedere nelle scorse “puntate” di questa inchiesta, quando abbiamo analizzato le ingerenze politico-criminali nella sanità calabrese e poi in quella pugliese, per quanto riguarda il comparto sanitario nella Regione Lazio più che un problema di ingerenze (dell'una e dell'altra parte politica; ben altro discorso sono – come vedremo a breve – le ingerenze vaticane) la questione fondamentale riguarda la mancanza di denaro da investire. O meglio: riguarda la “malaorganización” con cui il denaro viene utilizzato. Problema che, comunque, è evidentemente inscritto nel DNA italiano.
Prima di procedere, comunque, bisogna dire che parlando della sanità laziale non si può prescindere dall'aprire un discorso legato alla cosiddetta “legge Tarzia” con la quale si vogliono trasformare i consultori in luoghi di esercizio di terrorismo psicologico da parte di quei “talebani all'amatriciana” del “Movimento pro-life” (per approfondire: http://senorbabylon.blogspot.com/2010/09/talebanismi-allamatriciana-giu-le-mani.html). Nonostante l'imprescindibilità di un discorso simile, comunque, in questo post volutamente non affronterò questo problema, in quanto credo sia necessario trattare in maniera specifica – e dunque con post specifici – questo soggetto lobbistico che sempre più sta prendendo piede nel nostro paese.
Ma procediamo per gradi...
La Regione con la tessera (sindacale)
«Cominciamo dagli sprechi e non dalla chiusura di ospedali e dal taglio di posti letto». Queste le parole di Renata Polverini poco tempo dopo essere diventata la nuova Governatrice della Regione Lazio. 24 ospedali ridimensionati – pari a 2.865 posti letto in meno – ed una quantità abnorme di consulenze esterne i fatti.
17 mila euro è l'indennità lorda media che guadagna ognuno dei 15 assessori “esterni” che compongono la squadra di governo, di cui molti cooptati direttamente dalla dirigenza dell'Unione Generale del Lavoro, di cui la Polverini è stata segretario generale e che le ha permesso di crearsi – anche grazie all'operato di alcuni media – quella notorietà sul piano nazionale necessaria per poi “spendersi” sul piano politico propriamente detto.
La giunta Polverini è senza ombra di dubbio la più costosa d'Italia, basti pensare che la sola nomina degli assessori è costata 5,1 milioni in più rispetto alla giunta Marrazzo. Denaro che, sembra quasi offensivo sottolinearlo, se impiegato in maniera diversa potrebbe essere utilizzato a parziale copertura di quel buco da 10 miliardi di euro che si trova alla voce “sanità regionale”.
Denaro che, naturalmente, sarebbe meglio investito se i nostri amministratori – dell'uno o dell'altro schieramento ideologico fa poca differenza – cominciassero a considerare la politica per quel che è per definizione, cioè l'(arte di)amministrare la polis e non l'arte di amministrare desideri e volontà di parenti e amici (che si traducono poi in voti per se stessi). Ma questa è un'altra storia...
Dicevamo: 24 gli ospedali che verranno trasformati in ambulatori, per un taglio di circa tremila posti letto e chiusura di ben 11 Pronto soccorso, di cui la maggior parte in provincia. È questa la base di partenza del modello sanità pensato dalla giunta Polverini. Monterotondo, Palombara Sabina, Subiaco, Zagarolo, Anagni, Ceccano, Pontecorvo, Ceprano, Ferentino, Arpino, Isola Liri, Atina, Rocca Priora, Ariccia, Anzio, Sezze, Gaeta, Minturno, Bracciano, Acquapendente, Montefiascone, Ronciglione, Magliano Sabina, Amatrice: sono questi i comuni colpiti dai tagli. Facciamo due calcoli: si va dai 2.731 abitanti di Amatrice, nel reatino, ai 54.455 di Anzio, per un totale di circa 400.000 persone che si ritroveranno senza un presidio ospedaliero nelle vicinanze più prossime.
Prendiamo il caso di Subiaco:
Quello che saranno costretti a fare gli abitanti di Subiaco è un vero e proprio viaggio della speranza. In particolare la speranza di non trovare traffico (e di non trovare animali lungo la strada di montagna, come possiamo vedere nel video).
Perché la chiusura – pardon, la riconversione – degli ospedali creerà dinamiche di “turismo sanitario” verso la capitale che certo – come abbiamo visto in apertura – non può permettersi di aggravare ancora di più una situazione vicina al punto di saturazione.
Quella della c.d. “mobilità sanitaria”, peraltro, è una delle tante voci che incidono sull'incremento del deficit. A differenza di quanto avviene per regioni come la Lombardia, che ha incassato lo scorso anno oltre 444 milioni o l'Emilia Romagna (+ 358 milioni), la Regione Lazio nel 2010 ha pagato circa 75 milioni di euro per permettere ai propri cittadini-contribuenti di farsi curare in altre regioni. I cittadini laziali, peraltro, versano tra le addizionali più alte d'Italia. Addizionali che servono – anche – a finanziare la spesa sanitaria regionale.
Per tutta risposta la Polverini ha avuto due brillanti idee: camper ed elicotteri.
Per evitare il problema del traffico, infatti, l'ex segretario generale dell'Ugl ha pensato di realizzare una rete di cinque eliporti – posti naturalmente in posizioni strategicamente rilevanti – ed una flotta di elicotteri forniti delle migliori attrezzature sanitarie. Ci sono, però, almeno un paio di “piccoli quanto irrilevanti” problemi di natura tecnica: dei cinque eliporti ne è stato costruito per adesso solo uno nel viterbese, anche perché per far decollare gli elisoccorsi bisognerebbe eliminare i tralicci dell'Enel, senza parlare del fatto che un elicottero ha bisogno di determinati spazi per muoversi in fase di atterraggio e decollo.
Dall'altro lato, abbiamo detto, ci sono i camper, detti in gergo tecnico “punti prevenzionali mobili”, utilizzati nel reatino al posto degli ospedali. Utilizzati nei mercati rionali, consentiranno di effettuare controlli gratuiti tra cui visite cardiologiche, urologiche e ginecologiche. Per quanto possa essere condivisibile tale iniziativa, sarebbe interessante capire perché non si possa aggiungerla ad una rete ospedaliera e di Pronto soccorso degna di tal nome.
Nella politica dei tagli, comunque, qualcuno che ci guadagna c'è. Naturalmente. Come evidenziato da Marco Scipioni del Partito Democratico «in un panorama di tagli generalizzati, il Policlinico Gemelli si vede assegnare a vario titolo fondi per un totale di oltre 35 milioni di euro». Ora, essendo una struttura privata è logico – almeno nella logica della classe politica italiana – che venga trattato “con i guanti bianchi”, ma il Policlinico – così come il Bambin Gesù ad esempio – non è una struttura privata (convenzionata) come le altre. Il Gemelli è infatti un ospedale religioso, cioè viene finanziato con soldi pubblici (sono stati destinati poche settimane fa ben 10 milioni di euro a tre strutture di questo tipo per ristrutturazioni varie...) ma gestito esattamente come le altre strutture private.
Ma il Policlinico non è l'unico a guadagnarci.
In primis il Campus Biomedico di Trigoria, fiore all'occhiello dell'Opus Dei, che potrà aumentare di 22 i posti letto ma soprattutto è stato autorizzato ad aprire il Pronto Soccorso. Un bel regalo anche al Policlinico Casilino che vedrà aumentare le degenze di 80 posti. La struttura è davvero atipica: la proprietà è privata ma il personale è pubblico, quindi pagato direttamente dalla Regione. Proprietario è l'intramontabile Giuseppe Ciarrapico, manager, giornalista e senatore del Pdl. È andata bene anche al rettore della Sapienza Luigi Frati: la Regione Lazio sborserà 24 milioni di euro per il personale medico e paramedico del Policlinico universitario.scriveva “Il Fatto Quotidiano” lo scorso 1 ottobre.
In totale, il finanziamento a tali strutture costa ben 400 milioni di euro all'anno, cioè un terzo del disavanzo annuale della sanità laziale. Ma non tutto il privato è trattato con le stesse accortezze.
I santi fuori dal paradiso: Santa Lucia e San Giacomo
Il privato accreditato costa alla Regione Lazio un terzo del budget annuo. Il problema però – lo abbiamo visto più volte – non è che “costa troppo”. Il problema è che nella scala gerarchica di chi dovrebbe amministrare la Res Publica prima e di chi viene cooptato (in base a ben determinati disegni politici) ad amministrare in delega alla classe dirigente – il caso della nomina dei Direttori Generali è illuminante in tal senso – non è in grado di farlo. O meglio: non è in grado di scindere l'interesse pubblico dall'interesse personale-partitico-elettorale. Ed i casi, la Fondazione Santa Lucia come molti altri, si sprecano.
Perché se chi “comanda” avesse quel senso di responsabilità pubblico che si richiederebbe ad un ruolo di amministrazione come quello necessario a far parte della classe dirigente (locale e/o nazionale non fa alcuna differenza...), non si andrebbe a tagliare anche dove non si deve, come nel caso della Fondazione Santa Lucia appunto, Irccs che – se fosse in un altro paese – sarebbe motivo d'orgoglio per chiunque. Ma, d'altronde, siamo sempre nel paese in cui si definisce “eroe” un mafioso, quindi anche la scelta politica – e, io credo, criminale – di ridimensionare e di fatto chiudere un centro come quello va inserita nell'ottica di quale sia il paese di cui stiamo parlando.
“Totò Truffa” è vivo e lotta insieme a noi
Vendere un ospedale – che non si può vendere – per ben due volte. Oppure far pagare ad un ente pubblico circa 150.000 euro per costi come luce (4.500 euro al mese), acqua (3.000 euro mensili) o – addirittura – 43.0000 euro (sempre mensili) per costi di sicurezza per una struttura chiusa da anni. In Italia succede anche questo.
Più di 45.000 accessi al Pronto Soccorso, 160.000 prestazioni all'anno; 2.000 pazienti oncologici.
Numeri che non sono comunque serviti per tenere aperto un altro dei poli d'eccellenza – in questo caso per la dialisi peritoneale – della Regione Lazio.
Trentatremila metri quadrati su cui erano stati disposti 230 posti letto – diventati 170 dopo una prima “potatura selvaggia” - a due passi da Piazza del Popolo, centro della Capitale.
Si chiude a metà del 2008 – dunque giunta Marrazzo – la plurisecolare esperienza dell'Ospedale San Giacomo, donato alla città dal cardinale Antonio Maria Salviati, addirittura nel '500.
Il San Giacomo, quanto meno per quanto compete la sua chiusura, è un esempio lampante di quanto la nostra classe politica non sia in grado di amministrare il paese.
Come se non bastasse i danari buttati in costi di gestione quando l'ospedale era già chiuso, che difficilmente corrispondono all'utilizzo reale dell'immobile, ad un paio di mesi dalla chiusura la Regione ha buttato via ben 20 milioni di euro per una gigantesca opera di ristrutturazione che non ha poi portato beneficio alcuno alla collettività, dato che l'immobile è stato prima sgombrato – con tanto di carabinieri in assetto anti-sommossa – e poi chiuso.
Dall'una e dall'altra parte (politica) è stato raccontato ai cittadini che bisognava chiudere, ridimensionare e tagliare i posti letto perché bisognava rientrare dal deficit.
È dunque interessante evidenziare gli “effetti speciali” con cui si è posta la parola fine sulla bagarre, dal momento che sono stati tagliati posti letto pubblici – quelli del San Giacomo – riapparsi poi “magicamente” come posti letto – privati-convenzionati – della fornitura del Campus Biomedico di Trigoria che, come abbiamo visto prima, appartiene all'Opus Dei.
Ma gli interessi sull'ospedale non riguardano solo l'aspetto prettamente sanitario: tra il 2004 ed il 2007 infatti, sono stati cartolarizzati i 950 immobili facenti parte del parco immobiliare delle Asl laziali e – dunque – della Regione stessa.
Al momento della cartolarizzazione, però, ben il 60% era soggetto a vincolo da parte delle Belle Arti e dunque non potevano essere venduti. Ed è sotto tale aspetto che la storia dell'ospedale San Giacomo diventa la storia dell'invendibile ospedale venduto due volte, operazione che nulla avrebbe da invidiare alla famosa scena della vendita della Fontana di Trevi da parte di Totò nel celebre “Totò truffa 62”. Sull'ospedale peraltro – tanto perché “le sciagure viaggiano in coppia” - gravava anche un'altra imposizione, proveniente direttamente dal cardinal Salviati, che all'atto della cessione aveva imposto che l'immobile rimanesse un luogo di cura.
Le buone intenzioni c'erano tutte, dato che il progetto di riconversione prevedeva che dagli ambienti dell'ospedale si ricavassero 2-3 moduli di unità residenziali per anziani non autosufficienti, un centro Alzheimer, un centro di riabilitazione intensiva extraospedaliera, un centro poli-ambulatoriale attrezzato per la chirurgia e la dialisi ed altre unità. Ma di tutto questo, fino ad ora, c'è solo una (bella) idea.
Naturalmente a guadagnarci dai tanti “San Giacomo” che si trovano in lungo ed in largo sulla nostra penisola, non sono certo i cittadini.
Guadagnano invece – e non poco – quei grandi imprenditori del mattone che più o meno ciclicamente ritroviamo coinvolti in questo o quello scandalo e che – di solito – sono anche i “grandi elettori” dei partiti che si spartiscono Camera e Senato.
Ma a questo punto la domanda è ancora in cerca di risposta: dove prendere i soldi per ripianare il deficit?
Se a cardiologia manca il cardiologo...
Per rispondere a questa domanda, in realtà, dobbiamo farne un'altra, che è poi la domanda principale di qualsiasi questione si voglia porre in ambito sanitario: come scegliere tra pubblico, privato e privato accreditato? Ed in quest'ultimo caso, come capire se il privato accreditato è accreditato per meriti acquisiti “sul campo” o per “meriti” di altra natura? In base a quali parametri, ad esempio, vengono redistribuiti gli accrediti?
È possibile, ad esempio, accreditare una struttura che non ha i requisiti “minimi”, ad esempio una cardiologia senza cardiologo od una radiologia senza radiologo? Quanti di quegli accrediti sono reali e quanti un mero spreco di denaro pubblico?
Non sempre, però, lo spreco deriva da usi “distorti” del portafogli pubblico.
Una peculiarità del sistema sanitario laziale, ad esempio, è quella dei ricoveri inappropriati. Quanto incidono questi sulla creazione del deficit? E quanto incideranno dal momento in cui verranno chiusi molti dei presidi della provincia?
Su un totale di 40.000 casi analizzati nel 2007 – ad esempio – è stato riscontrato un 17,8% di ricoveri ordinari inappropriati ed un 24,8% nell'ambito dei day hospital. Nel 2008 è stato riscontrato come ben un terzo delle prestazioni erogabili in day service fosse ancora eseguito in regime di ricovero ordinario.
È forse in quest'ottica che si può spiegare quel miliardo e trecento milioni di euro che fanno del Lazio la seconda regione (prima è la Lombardia) per quanto concerne la spesa farmaceutica.
Quanto incide – su quei famosi 10 miliardi di deficit – l'abuso di prescrizione nel Lazio, però, non è dato sapere. La ditta che se ne dovrebbe occupare non dispone del software necessario a fare tale controllo.
Nonostante tale abuso, comunque, c'è ancora chi “ristagnando” in Pronto soccorso, i medicinali se li deve portare da casa...
(3 – Continua)