23 settembre 2011: 80 migranti di nazionalità egiziana sbarcano a Rutta e Ciauli, nel siracusano. Ventidue di loro verranno ritrovati dalla Polizia di Stato otto giorni dopo nella tonnara di Santa Panagia, territorio controllato dall’omonimo gruppo mafioso e dagli Attanasio, “non inseriti organicamente in cosa nostra” come si legge nella relazione del primo semestre 2012 della Direzione Distrettuale Antimafia. È la prima volta che la Polizia scopre un “carcere della mafia”.
Quei 22 migranti sono infatti sequestrati da un sodalizio italo-egiziano in attesa di saldare il loro debito di viaggio (“debt-bondage”, in gergo). Funziona così: una prima parte del viaggio si paga prima di partire, il resto una volta giunti a destinazione, saldando il tutto attraverso il sistema delle rimesse, sfruttando per esempio società apposite come la Western Union. Se i migranti non possono pagare vengono utilizzati come manovalanza nei settori dell’agricoltura o dell’edilizia o sfruttati in quello della prostituzione, mentre il debito rimanente viene traslato alla famiglia.
Se neanche i familiari riescono a coprire la somma, scatta la detenzione sotto la custodia di carcerieri fidati, come la coppia vicina ai clan di Cassibile e Avola scoperta lo scorso febbraio a fare la guardia ad un garage dove erano sequestrate 25 persone, tutte di nazionalità egiziana.
Alla tonnara la Polizia ci arriva per circostanze casuali: l’arresto di uno dei carcerieri a seguito di uno scippo e la fuga di due migranti carcerati, trovati a frugare nei cassonetti in cerca di cibo.
Il ritrovamento del “carcere” ha permesso inoltre la conferma di quanto gli investigatori avevano scoperto tra il 19 ed il 20 marzo 2011, quando la Guardia di Finanza aveva intercettato al largo della costa di Fondachello il trasbordo di 132 migranti egiziani da una nave-madre – modalità nota fin dagli anni Novanta, quando veniva utilizzata dagli scafisti provenienti dalla ex-Jugoslavia – alla “Fenice”, di proprietà di Massimo e Giuseppe Greco, affiliati alla cosca Brunetto di Fiumefreddo di Sicilia, alleati storici del clan catanese dei Santapaola.
Questo episodio permette di aprire una pista nuova nei rapporti tra mafie italiane e straniere: l’esistenza di un sodalizio italo-egiziano interno al traffico di esseri umani, in cui agli italiani spetta il compito di sostegno logistico ed assistenza a terra.
Sull’altra sponda del Mediterraneo, emissari delle organizzazioni criminali – secondo gli investigatori non è possibile definire quella egiziana una vera e propria “mafia” strutturata – si recano nei villaggi egiziani prospettando la possibilità di arrivare in Italia e, da lì, nel resto d’Europa, sulla falsariga di quanto avviene con il sistema delle “madame” nigeriane. Definiti i dettagli del viaggio, i migranti vengono privati di soldi e documenti ed inviati – nei modi che spesso le immagini televisive hanno mostrato – in Europa. Una volta sbarcati vengono poi portati nelle regioni del Nord Italia e, dopo una telefonata di conferma, la seconda parte del debito passa dalle famiglie dei migranti ai trafficanti.
Tra questi, noti sono il clan Amro – e il gruppo legato al multimiliardario egiziano Abu Yussef scoperto nell’ambito dell’”Operazione Raìs” del 2010, scattata in seguito al ritrovamento di 81 migranti stipati nel cassone di un tir intercettato lungo l’autostrada Messina-Catania.
Se è dunque comprovata la collaborazione tra mafie italiane e straniere, la stessa cosa non può dirsi sul piano investigativo. A lanciare l’allarme è il sostituto procuratore della Direzione distrettuale di Napoli Giovanni Conzo, che nei mesi scorsi evidenziava come il primo problema per penetrare le mafie straniere venga dall’impossibilità di tradurre le intercettazioni per mancanza di fondi.
Gli fa in parte eco l’avvocatessa nigeriana Joy Ngozi Ezeilo, inviata speciale dell’Onu sul problema della tratta, che in una relazione della sua visita nel nostro Paese ha evidenziato come “il fenomeno e la portata del traffico di persone in Italia resta enorme ed il problema evidentemente è molto più grande di quanto non ufficialmente documentato.”
Nonostante una legiferazione anti-tratta all’avanguardia, evidenzia Ezeilo, le autorità tendono a chiedere solo informazioni di base ai migranti, rendendo impossibile la loro identificazione e – non fornendo informazioni su diritti e modalità per richiedere protezione – impedendo l’identificazione dei trafficanti. “Metodo che, stando ai risultati, non ha scalfito per nulla le organizzazioni criminali ed ha portato alla incriminazione di immigrati che con il traffico non avevano nulla da fare“, scriveva in un articolo dello scorso 1 ottobre il professor Fulvio Vassallo Paleologo.
Quei migranti non identificati diventano poi le “proteste” nei Centri di Identificazione ed Espulsione o quelli che, riusciti ad arrivare negli Stati del Nord Europa, devono tornare indietro per colpa del Dublino II. Mentre gli scafisti usano il sistema dei rimpatri per poter tornare nei loro Paesi, pronti a comandare un’altra “carretta”.
[foto: statoquotidiano.it]