Cecenia, don't clean up the truth

foto: Russian Justice Initiative
Groznyj (Cecenia) - Per far capire agli americani dove fossero i Balcani che si apprestava a bombardare, Bill Clinton si presentò in televisione con una mappa geografica. Qualche anno prima la stessa operazione era stata fatta da Richard Nixon, anch'egli munito di cartina per presentare ai telespettatori americani dove fosse il Vietnam.
Si è dovuto invece limitare ad un semplice comunicato Petr Gandalovič, ambasciatore della Repubblica Ceca, costretto ad evidenziare come il suo paese non abbia niente a che fare con la Cecenia (qui la cartina realizzata da Foreign Policy).

Non solo gli americani, però, peccano di ignoranza verso la Cecenia, divenuta un vero e proprio buco nero mediatico iniziato con il “patto antiterrore” tra George W. Bush e Vladimir Putin del 2002. Un aiuto nella guerra al terrore del presidente americano in cambio dell'oblio su quanto accade in Cecenia o nei paesi vicini, vittime della “cecenizzazione” dell'area caucasica. Un patto che ora, grazie alla “declinazione cecena” dell'attentato di Boston (di cui abbiamo parlato nella prima parte di questo approfondimento), potrebbe permettere all'ex KGB di chiudere definitivamente la questione ammantandola dietro ad un nuovo capitolo della “guerra al terrore”. Mentre sullo sfondo si staglia il profilo delle Olimpiadi invernali del 2014 che si terranno a Soci, poco lontano dal nord del Caucaso. Debellare la malapianta cecena è, dunque, un obiettivo più che concreto per Putin, che con le cancellerie occidentali dalla sua, deve ora convincere solo l'opinione pubblica internazionale.


Cecenia: lo scenario del conflitto
Un'operazione che non può avvenire se non con argomentazioni più che convincenti – come la possibilità di un terrorismo ceceno libero di mettere bombe in Occidente potrebbe essere – data la necessità di dover coprire le innumerevoli violazioni dei diritti umani perpetrate contro la popolazione civile. Nonostante la Cecenia non viva più in un conflitto aperto pur essendo, secondo vari commentatori, un vero e proprio genocidio dimenticato (approfondimento in allegato), come quello armeno, il regime di Ramzan Kadyrov – uomo di Putin arrivato a governare la piccola Repubblica caucasica dopo la “normalizzazione” voluta da Mosca – continua ad avere la principale opposizione nelle madri dei civili torturati, scomparsi (più di 10.000 persone) o uccisi (tra i quali 35.000 bambini, numero più alto dei desaparecidos argentini) nei campi “di filtraggio” o per mano delle “unità di pulizia dei boschi”, nome utile a coprire veri e propri squadroni della morte come i “Kadyrovity”, direttamente riconducibili all'attuale presidenze Ramzan Kadyrov. «Il terrorismo islamico è sicuramente un problema in Cecenia, ma è sbagliato ricondurre tutta la crisi a questa minaccia. Non si devono confondere cause e conseguenze: la causa del conflitto ha radici profonde e lontane, mentre il terrorismo è un sottoprodotto della guerra», denunciava in un'intervista del 2006 a SwissInfo Andreas Gross, all'epoca relatore speciale per la Cecenia al Consiglio d'Europa.

L'unica possibilità concreta, per le Madres cecene e delle altre zone del Caucaso, è appellarsi alla Corte europea dei diritti dell'uomo che ha la possibilità di giudicare la Russia fin dal 1998, quando la Duma – il parlamento russo – ha ratificato la Convenzione europea per i diritti dell'uomo. Anche se denunciare, in una situazione come questa, è spesso pericoloso.
Mentre ieri le violazioni colpivano indistintamente anche la popolazione civile, oggi sono per lo più giornalisti ed attivisti ad essere vittime della repressione del governo russo. In più la burocrazia europea non è affatto celere. Per arrivare ad una sentenza, infatti, ci vogliono in media tra i quattro ed i sette anni, con tutto ciò che l'attesa comporta per l'incolumità di chi decide di rompere la spirale del silenzio, parenti inclusi. Nonostante questo, tra il 2005 – quando c'è stata la prima sentenza di condanna – ed oggi la Corte ha emanato più di 120 sentenze, alle quali va aggiunto un centinaio di procedimenti ancora aperti. Pochi giorni fa, il sito Caucasian Knot ne parlava lo scorso 25 aprile, la Corte ha incolpato per la prima volta le forze di polizia di Kadyrov per il rapimento di Abdul-Yazit Askhabov, avvenuto nel 2009, dunque a guerra ufficialmente finita. Elemento a favore di chi sostiene che oggi in Cecenia la guerra non sia affatto finita ma si sia trasformata in un conflitto a bassa intensità.

Sparizione in diretta tv. Fatima Bazorkina suo figlio lo vede sparire quasi in diretta televisiva. Durante un servizio della NTV, infatti, vede il generale Alexander Baranov ordinare ad un prigioniero dell'esercito russo di sparare. Quel prigioniero, Yandiev il nome, è il figlio di Fatima. La donna non aveva più avuto notizie di lui fino a quel momento (qui il servizio della CNN che ritrae il generale con Yandiev). Fatima, tra il 2000 ed il 2006, ha girato la Russia alla ricerca di notizie o del corpo di suo figlio, senza successo e senza ricevere risposta alcuna alle tante lettere scritte alle autorità. Il generale Baranov, invece, è stato promosso a coordinare tutte le forze armate del Caucaso settentrionale. Cecenia inclusa, naturalmente. Sparito nel nulla dal 1999 – da quando cioè aveva abbandonato gli studi in sociologia all'Università di Mosca per andare a Groznji in cerca del padre – Yandiev non risulta né ucciso, né mai arrestato con la propria o con altra identità, finché nel 2004 viene accusato di essere entrato a far parte di un gruppo armato illegale. Secondo i russi vive in clandestinità. Neanche la Corte europea è riuscita ad andare più in là della sparizione, chiudendo il caso il 27 luglio 2006 come “morte presunta”. (Qui e qui la documentazione la sentenza della Corte europea: “Caso Bazorkina vs Russia”). Violazione del diritto alla vita, tortura, detenzione illegale sono solo alcune delle accuse più comuni mosse contro la Russia davanti alla Corte.

D'altronde il rapporto tra l'attuale presidente russo e la piccola repubblica caucasica è un rapporti consolidato: «Tra Putin e la seconda guerra bisogna porre un segno di eguaglianza. Lui è stato eletto sull'onda di una propaganda fortemente militare e su quest'onda ha continuato a governare», raccontava la giornalista russa Anna Politkovskaja nel documentario “Coca – la colomba della Cecenia” (di seguito), film-documentario di Eric Bergkraut che ha per protagonista Zainap Gashaeva, fondatrice della ong Echo Vojny (“Eco della guerra”) che si occupa di orfani di guerra, pace e diritti umani.


Coca – la colomba della Cecenia


Missing lives: disappearances & impunity in North Caucasus

La seconda guerra cecena, dunque, come «forma perversa di “campagna elettorale”, progettata freddamente a tavolino e costruita sulla pelle di migliaia di civili, per creare attorno a Vladimir Putin, uomo di fiducia di Eltsin, il consenso di cui aveva bisogno per conquistare la presidenza della Federazione», come scriveva Carlo Gubitosa nel suo “Viaggio in Cecenia” del 2004. Una campagna che era stata finanziata, cinque anni prima, anche attraverso la cancellazione dei 4,5 miliardi di dollari di debito russo da parte dei paesi del G8. Il petrolio di Groznyj (circa 4 mila tonnellate al giorno) non è un interesse solo russo, evidentemente.
Putin – all'epoca un semisconosciuto colonnello messo alla guida dell'Fsb, il Kgb post-sovietico - diventa, grazie alla sua mediatizzazione nel racconto della seconda guerra cecena, l'”uomo forte” di cui la Russia ha bisogno per far dimenticare la stretta relazione tra Eltsin e l'alcol. Una necessità nella quale il “nemico ceceno” - dipinto «come una popolazione composta unicamente da criminali e terroristi spietati», scrive ancora Gubitosa - torna ad avere una funzione vitale e nella quale importante è il ruolo della propaganda mediatica, che ha permesso di nascondere 25.000 civili uccisi (14.000 i ribelli), 200.000 profughi – ai quali viene difficilmente concesso asilo politico nell'Unione - e 5.000 scomparsi nelle fosse comuni o nelle carceri illegali tra il 1999 ed il 2009, anche grazie all'adesione di Mosca alla guerra al terrorismo internazionale post-9/11. Propaganda che è riuscita a nascondere anche i 186 bambini uccisi dai ceceni nel 2004 nella scuola elementare di Beslan


Beslan, la strage (s)coperta dai media russi

Aiza, la prima "vedova nera". 29 novembre 2001. Una giovane ragazza di 18 anni, Aiza Gazueva, si è avvicinata al generale Gadzhiev, comandante militare della regione di Urus-Martan, accusato di essere uno dei boia della Cecenia ed uno degli organizzatori degli squadroni della morte. Il fratello ed il marito di Aiza sono scomparsi per mano dei federali.
Arrivata abbastanza vicina al generale, Aiza ha fatto detonare la bomba che aveva addosso e che aveva preparato, da sola, in casa. Diventa così una “vedova nera” come sarebbero state conosciute quelle come lei, «metà vedove e metà spose la cui unica colpa è quella di aver vissuto durante la seconda guerra». A lei si ispireranno, nell'ottobre dell'anno successivo, le donne del Teatro Dubrovka di Mosca, uccise insieme agli uomini del commando e 130 degli inizial 916 ostaggi, grazie all'utilizzo di un gas nervino paralizzante mai identificato, «I terroristi sono stati sterminati, senza lasciare testimoni che potessero spiegare come avevano fatto ad arrivare fino al centro della capitale».
L'epilogo del teatro Dubrovka non è che uno dei non pochi casi in cui il governo russo è stato accusato di utilizzare agenti chimici contro i ceceni, come avvenuto nell'insediamento di Stariye Atagi – campagna di Groznyj - nell'agosto 2000, quando delle magliette per uomo abbandonate causarono paralisi del sistema respiratorio in chi le aveva indossate o semplicemente toccate, o come l'avvelenamento di 80 donne del distretto di Shelkovsky, vicende raccontate a Peacelink nel 2008 da Eliza Mussaeva, che dal 2000 al 2004 ha diretto la sezione cecena dell'ong Memorial, la più importante fondazione russa per i diritti umani (qui il sito dell'associazione russa; qui il sito dell'associazione italiana).

Eziologia sconosciuta. Nel 2000, a Stariye Atagi, successe un'altra cosa: il 26 luglio si sentirono due deboli esplosioni con una colonna di fumo a forma di tulipano che si alzava per 150 metri e dal colore viola-argento. Il giorno dopo la popolazione fu colpita da spasmi tonici, perdita di conoscenza, agitazione aggressiva ed altri sintomi che, sei anni dopo, furono riscontrati in decine di bambini delle scuole di alcuni villaggi nella periferia della capitale cecena, tra cui Shelkozavodsk e Shelkovsky. Molti dei bambini e degli adulti colpiti sono stati accusati di essere dei simulanti. L'unica malattia a cui erano davvero soggetti era la psicosi di massa, per la cui diffusione anche la televisione ha fatto il suo dovere. Per questo l'allora presidente ceceno Alu Alhanov decise che il miglior modo per curare quella strana e sconosciuta malattia fosse, semplicemente, quello di internarne i pazienti in strutture come il sanatorio infantile Salyut di Zheleznovodks o, ancor meglio, farli dimenticare, non parlarne più. Il dubbio che fosse il test per qualche arma chimica – di proprietà russa o cecena rimane ignoto – provata sulla popolazione civile rimane, anche alla luce di strane circostanze come la falsificazione delle cartelle cliniche (dove parametri e desinenze dei verbi erano sempre uguali per femmine e maschi) o le telefonate all'ospedale di Mosca, nelle quali gli interlocutori si dicevano interessati a sapere se vi fossero riscontri di avvelenamento nell'unica bambina ricoverata lì.

«Tutti dovranno andare davanti ad un tribunale. Quelli che [la guerra, ndr] l'hanno iniziata e quelli che l'hanno continuata. I russi come i ceceni colpevoli» dice la Gashaeva nel documentario. Secondo la Politkovskaja (nel 2004) «sarebbe necessaria un'inchiesta internazionale». Ma chi avrebbe davvero il coraggio di far sedere Vladimir Putin sul banco degli imputati di un Tribunale Internazionale, come Slobodan Milošević o Bosco “Terminator” Ntaganda? Chi avrà il coraggio di portarvi le storie degli oltre 300 giornalisti uccisi o quelle che confermino, ad esempio, che l'omicidio della giornalista della Novaja Gazeta sarebbe stato il regalo di compleanno di Putin? O che Antonio Russo, giornalista di Radio Radicale sarebbe stato ucciso in quanto in possesso di prove in grado di documentare l'uso di armi non convenzionali (come bombe Vacum o i proiettili all'uranio impoverito) contro la popolazione cecena, tanto da venire esplicitamente minacciato durante una conferenza? Fu proprio Putin, all'epoca, ad accusare alle Nazioni Unite il Partito Radicale di traffico di droga, pedofilia e terrorismo. Chi avrà il coraggio di schierarsi contro uno (forse due, dati gli accordi con Obama) dei membri permamenti del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite

Di certo non l'Italia, che con Berlusconi e le sue conferenze stampa, l'Eni  e l'ex presidente ed ex ministro Lamberto Dini (che nel 2000 “salvò” la Russia dalla sospensione dal Consiglio d'Europa)
– e, secondo l'ex agente del Kgb Alexander Litvinenko, morto per avvelenamento da polonio 210, anche Romano Prodi – ha ampiamente definito quale delle due parti in causa assistere.

Memorial, l'ultima voce libera (fino a quando?). Oggi, a guerra ufficialmente finita, giornalisti e difensori dei diritti umani rimangono i principali nemici del governo russo. Con l'entrata in vigore, a novembre, della legge che obbliga le organizzazioni non governative che ricevono finanziamenti da altri paesi – condizione obbligata per chi non vuole dipendere dai soldi e dalla politica russi - a registrarsi come “agenti stranieri” la repressione si è fatta ancora più stringente. Tra queste c'è anche l'ong Memorial, nata nel 1987 dall'idea di difensori dei diritti umani – tra i quali Andrej Sacharov, che ne diviene primo presidente – ex prigionieri politici e di guerra per denunciare i crimini staliniani (il più importante progetto dell'associazione è infatti quello sui lager sovietici), con le due guerre cecene diventa una delle principali organizzazioni volte a denunciare i crimini di guerra contro la popolazione civile. «Se si ricorda che la notte in cui entrò in vigore la famosa legge sull'edificio che ospita l'associazione sono comparse scritte “qui stanno gli agenti stranieri” e che la denuncia di Memorial non ha avuto alcun seguito, il quadro è completo», denunciava in un appello poche settimane fa l'associazione italiana, evidenziando anche il ruolo della Ntv, la televisione di proprietà di Gazprom diventata la nuova voce propagandista del governo. L'Alto rappresentante per la politica estera dell'Unione, Catherine Ashton, si è detta «preoccupata» per i blitz nelle sedi delle organizzazioni (tra i quali, oltre quelli di Memorial, sono state perquisite anche le sedi di Amnesty International, Human Rights Watch e Transparency International). 

Perché se da un lato del mondo la guerra al terrore si fa pilotando droni a centinaia di chilometri di distanza, dall'altro chi dissente continua ad essere perseguito, con una legalità a geometria variabile. Come con Antonio, come Anna, Natalia, Stanislav e Anastasia.

«I problemi della Cecenia sono problemi dell'Europa e questa potrà dirsi compiutamente democratica solo quando potrà annoverare all'interno non solo la Cecenia, ma l'intero Caucaso del nord. Non è un problema di confini geografici, ma quello di una comune appartenenza e di un comune anelito verso un mondo migliore».
[Adlan Mukhamedov, presidente Ong “Salviamo la generazione”]

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