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[Parte 1: Democrazia, partiti e utilità del lobbismo. Intervista a Maria Cristina Antonucci (1/4)
foto: paginatre.it |
Roma - Seconda parte dell'intervista realizzata con la dottoressa Maria Cristina Antonucci - ricercatore in Scienze sociali presso il Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR), sul fenomeno – tanto chiacchierato quanto sconosciuto – delle lobby. Dopo aver fatto un quadro genderale, cerchiamo di capire come si muovano i gruppi di pressione, analizzando in questa parte dell'intervista il piano europeo.
Parlando di lobbying” abbiamo detto che i lobbisti si muovono sui tre piani: sovranazionale, nazionale e regionale. Partendo dal primo, nello specifico il piano europeo, quali sono state le tappe più importanti del rapporto tra lobbisti e decisori europei?
L’Unione Europea è un sistema politico derivato di secondo livello, che, nel corso degli anni, è arrivato ad assumere un livello di decisioni politiche in grado di generare il contenuto, come è stato stimato, di circa il 70% delle legislazioni nazionali. Tra gli anni 80 e gli anni 90, dentro al sistema europeo è esplosa la Comitatologia, ovvero la possibilità che la Commissione assumesse le proprie decisioni sulla base di una assistenza fornita da Comitati composti da rappresentanti degli Stati membri espressione delle amministrazioni nazionali in grado di rappresentare le posizioni, per distinte materie di competenza, dei governi nazionali in materia di implementazione delle politiche europee. L’assenza di una regolamentazione di ruolo e funzione dei Comitati, almeno fino alla formulazione della decisione Comitatologia 468/1999 (che ha posto dei requisiti di trasparenza e che ha individuato margini di verifica per il Parlamento europeo), ha aperto ampi spazi di manovra per i rappresentanti degli interessi presso la Commissione.
Cosa accade, invece, a partire dagli anni Novanta?
Occorre notare che i percorsi di relazione tra lobbisti e istituzioni europee si differenziano sin dalla seconda metà degli anni 90, nel momento in cui il Parlamento regola con le decisioni del 1996 e del 1997 l’accesso dei lobbisti e il relativo codice di condotta, secondo procedure più stringenti, mentre la Commissione - dopo il Libro bianco sulla governance del 2001 , che per la prima volta ammette i gruppi di pressione alla costruzione della governance europea - con i Principi generali e i requisiti minimi per la consultazione delle parti interessate del 2002, pone un approccio regolamentare basato più sulla partecipazione e la governance, che sulla trasparenza.
Qualcosa cambia nell’approccio della Commissione con il Libro verde Iniziativa europea per la trasparenza del 2006, che apre una consultazione pubblica circa i principi da applicare nei confronti del sistema degli interessi organizzati. Frutto della consultazione è il Quadro di riferimento per le relazioni della Commissione con i rappresentanti di interessi del 2008, che introduce un registro pubblico dei rappresentanti degli interessi ad iscrizione volontaria e basato su associazioni (e non singoli professionisti) in cambio di incentivi selettivi. Viene stabilito un codice di condotta per i lobbisti ad adesione volontaria, improntato ai principi di trasparenza, chiarezza degli interessi rappresentati e partecipazione. La recente procedura per la costituzione di un Registro della trasparenza comune per Parlamento e Commissione (2011) sembra indicare un nuovo percorso integrato interistituzionale della UE nel considerare il rapporto con il sempre più complesso e articolato lobbying europeo, in grado di superare ampiamente le procedure comitologiche.
La Commissione Europea tende ad una maggiore “responsabilizzazione etico-morale” dei lobbisti, ad esempio attraverso il registro volontario dell'aprile 2008, mentre il Parlamento propende verso regole più stringenti. Cosa cambia nei due assetti nell'ottica di un maggiore equilibrio tra potere dei gruppi di pressione degli interessi economici (ad esempio quelli delle multinazionali) e lobbying sociale?
Certamente il metodo di regolazione del Parlamento europeo, uguale per tutte le tipologie dei rappresentanti di interesse e dotato di poteri di verifica e controllo, appare più democratico nel garantire il medesimo accesso tanto a rappresentanti delle lobby economico finanziarie quanto ad esponenti del lobbismo sociale. In questo senso, il Parlamento, organismo eletto direttamente dai popoli degli Stati della UE conferma il proprio approccio di legittimazione democratica anche nella policy dedicata alle relazioni con i rappresentanti degli interessi.
La Commissione, invece, prevedendo un sistema di regolazione su base volontaria, tende ad avvantaggiare gli insiders, ovvero quei gruppi di pressione maggiormente noti e attivi a Bruxelles, che già hanno svolto, in passato, attività di lobbying. La circostanza di fornire informazioni e forme di consultazione per tutti i gruppi iscritti volontariamente costituisce, a mio avviso, un incentivo debole per la registrazione di entrambe le tipologie di lobbismo. Essa rappresenta solo una procedura formale per le lobby economiche più forti, in grado di attivarsi sul piano sostanziale ottenendo molte più informazioni e opportunità di far sentire la propria voce grazie a consolidate prassi di consultazione; al tempo stesso le informazioni fornite in cambio della registrazione rappresentano un incentivo davvero poco significativo per la rappresentanza di interessi sociali, i quali si registrano solo in quanto sono alla ricerca di una reale opportunità di legittimazione nella rappresentanza europea.
Sarà importante verificare quanto dei due sistemi di regolazione sarà inserito dentro al nuovo modello del registro comune della trasparenza, che per ora prevede solo l’esigenza di una iscrizione al Registro per i gruppi e i rappresentanti di interesse che intendano richiedere per un anno l’accreditamento presso il Parlamento europeo, istituzione divenuta sempre più significativa dall’ampliamento dell’utilizzo delle procedure di co-decisione stabilito dal Trattato di Lisbona.
A proposito di lobbying sociale, questo può essere uno strumento per avvicinare il cittadino comune alle istituzioni europee, un rapporto considerato ancora oggi troppo freddo?
Il Registro comune della trasparenza prevede apposite sezioni dedicate alle organizzazione non governative, ai soggetti della ricerca e della formazione universitaria, alle confessioni religiose. A parte quest’ultima categoria di soggetti - che presenta un numero di registrazioni molto contenuto anche a causa del complesso dibattito a livello europeo sulla aconfessionalità delle istituzioni UE - è il caso di notare che le organizzazioni non governative hanno riportato un tasso di registrazione molto elevato, collocandosi al secondo posto subito dopo lobbisti interni e associazioni di categoria, storicamente molto numerosi presso la Commissione. L’entusiasmo con cui le organizzazioni del Terzo Settore hanno risposto alla policy di registrazione di Commissione e Parlamento è testimonianza di una certa vivacità e di volontà di partecipazione ai processi decisionali europei. Si tratta, a mio avviso, di un primo canale di accreditamento per questa tipologia di organizzazioni, molto spesso marginalizzata nei processi di policy making a livello statuale e alla ricerca di una legittimazione nel contesto europeo, più orientato al modello multistakeholder.
La sanzione prevista per quei lobbisti che trasgrediscono le regole – la revoca del lasciapassare personale – è uno strumento adeguato, al di là dei casi di rilevanza penale, per la deterrenza di modus operandi non leciti nei rapporti tra lobbisti e parlamentari europei?
Dobbiamo calarci nel sistema delle istituzioni europee per comprendere quanto la misura da lei citata si riveli un adeguato deterrente a pratiche professionali non corrette. Fare il lobbista a Bruxelles è un percorso professionale altamente “reputazionale”: carriere e successi sono costruiti sulla scorta non solo dell’efficacia delle campagne condotte, ma soprattutto sulla fama professionale acquisita presso una platea abbastanza stabile di eurocrati. Un ritiro del lasciapassare svela una sostanziale incapacità del lobbista di saper giocare secondo le regole del gioco, che dimostra, nella sostanza, una scarsità di doti professionali. Pertanto, in un contesto del genere al ritiro del lasciapassare corrisponde uno stallo molto consistente, quando non la fine, di una carriera. Faccio fatica a pensare ad un analogo sistema di sanzione dentro al sistema politico italiano, in cui all’approccio reputazionale si sostituisce spesso quello relazionale alla carriera di lobbista: si tratta di un modello meno sistematico e più personalistico di svolgere l’attività di relazioni istituzionali. Anche in questo caso, tuttavia, devo notare che è il sistema politico improntato alla elevata personalizzazione dei partiti politici a condizionare questo esercizio dell’attività di lobbying.
Quanto e come può agire la società civile organizzata europea per migliorare l'operato delle lobby in termini di tutela dei propri interessi, trasparenza, etc?
Molto. Una maggiore conoscenza dell’architettura del sistema politico e un’attenzione all’informazione sulla vita istituzionale possono rendere la società civile europea più consapevole del ruolo degli interessi particolari nel processo decisionale. La difficoltà più grande che vedo lungo questo percorso è la grande frammentazione, ancora a livello nazionale, della società civile UE, che crea barriere ad una più attiva partecipazione alla vita istituzionale comunitaria. E tuttavia alcuni segnali di attivazione della società civile europea cominciano ad emergere. A questo proposito vorrei ricordare l’importante circostanza in cui, sulla base delle pressioni apportate in maniera organizzata e sistematica da alcuni gruppi della società civile europea a difesa della libertà di Internet, il Parlamento ha respinto la ratifica del Trattato ACTA (Anti-counterfeiting Trade Agreement, il Trattato commerciale contro la contraffazione e la pirateria). Si tratta di un accordo alla cui redazione hanno preso parte anche importanti multinazionali nel settore discografico, cinematografico, dei servizi internet, con lo scopo di porre sotto controllo il traffico internet dei soggetti privati degli Stati contraenti per verificare eventuali violazioni dei diritti di proprietà intellettuale su prodotti multimediali scambiati sul web. ACTA è stato negoziato, tra gli altri soggetti dalla Commissione europea; la procedura di ratifica richiedeva tuttavia l’approvazione da parte del Parlamento europeo per l’entrata in vigore. Organizzazioni e associazioni quali A2K (Access to Knowledge) e altre non solo hanno informato e sensibilizzato i cittadini europei sul rischio di questa forma di controllo preventiva sul traffico web degli utenti, ma hanno previsto forme più articolate di intervento come raccolte di firme in rete (quasi tre milioni di firme), campagne sui media tradizionali e sui social media; inoltre hanno posto in essere una vera e propria attività di pressione sui Parlamentari europei a colpi di dossier, position paper e richieste di assunzione diretta di precise responsabilità politiche nel caso in cui avessero votato a favore dell’entrata in vigore del Trattato. Nonostante fossero coinvolti molti interessi economicamente forti anche dentro l’U.E., l’azione di lobbying di queste organizzazioni non governative e dei relativi gruppi sociali di supporto ha conseguito un successo davvero notevole, dal momento che il Parlamento Europeo nella seduta del 4 luglio 2012 ha ricusato il processo di ratifica con una maggioranza molto significativa. Questo fatto ci segnala come molto possa essere ottenuto da una società civile europea attenta ed organizzata in cause comuni, soprattutto nel settore del consumerismo.
Qualcosa cambia nell’approccio della Commissione con il Libro verde Iniziativa europea per la trasparenza del 2006, che apre una consultazione pubblica circa i principi da applicare nei confronti del sistema degli interessi organizzati. Frutto della consultazione è il Quadro di riferimento per le relazioni della Commissione con i rappresentanti di interessi del 2008, che introduce un registro pubblico dei rappresentanti degli interessi ad iscrizione volontaria e basato su associazioni (e non singoli professionisti) in cambio di incentivi selettivi. Viene stabilito un codice di condotta per i lobbisti ad adesione volontaria, improntato ai principi di trasparenza, chiarezza degli interessi rappresentati e partecipazione. La recente procedura per la costituzione di un Registro della trasparenza comune per Parlamento e Commissione (2011) sembra indicare un nuovo percorso integrato interistituzionale della UE nel considerare il rapporto con il sempre più complesso e articolato lobbying europeo, in grado di superare ampiamente le procedure comitologiche.
La Commissione Europea tende ad una maggiore “responsabilizzazione etico-morale” dei lobbisti, ad esempio attraverso il registro volontario dell'aprile 2008, mentre il Parlamento propende verso regole più stringenti. Cosa cambia nei due assetti nell'ottica di un maggiore equilibrio tra potere dei gruppi di pressione degli interessi economici (ad esempio quelli delle multinazionali) e lobbying sociale?
Certamente il metodo di regolazione del Parlamento europeo, uguale per tutte le tipologie dei rappresentanti di interesse e dotato di poteri di verifica e controllo, appare più democratico nel garantire il medesimo accesso tanto a rappresentanti delle lobby economico finanziarie quanto ad esponenti del lobbismo sociale. In questo senso, il Parlamento, organismo eletto direttamente dai popoli degli Stati della UE conferma il proprio approccio di legittimazione democratica anche nella policy dedicata alle relazioni con i rappresentanti degli interessi.
La Commissione, invece, prevedendo un sistema di regolazione su base volontaria, tende ad avvantaggiare gli insiders, ovvero quei gruppi di pressione maggiormente noti e attivi a Bruxelles, che già hanno svolto, in passato, attività di lobbying. La circostanza di fornire informazioni e forme di consultazione per tutti i gruppi iscritti volontariamente costituisce, a mio avviso, un incentivo debole per la registrazione di entrambe le tipologie di lobbismo. Essa rappresenta solo una procedura formale per le lobby economiche più forti, in grado di attivarsi sul piano sostanziale ottenendo molte più informazioni e opportunità di far sentire la propria voce grazie a consolidate prassi di consultazione; al tempo stesso le informazioni fornite in cambio della registrazione rappresentano un incentivo davvero poco significativo per la rappresentanza di interessi sociali, i quali si registrano solo in quanto sono alla ricerca di una reale opportunità di legittimazione nella rappresentanza europea.
Sarà importante verificare quanto dei due sistemi di regolazione sarà inserito dentro al nuovo modello del registro comune della trasparenza, che per ora prevede solo l’esigenza di una iscrizione al Registro per i gruppi e i rappresentanti di interesse che intendano richiedere per un anno l’accreditamento presso il Parlamento europeo, istituzione divenuta sempre più significativa dall’ampliamento dell’utilizzo delle procedure di co-decisione stabilito dal Trattato di Lisbona.
A proposito di lobbying sociale, questo può essere uno strumento per avvicinare il cittadino comune alle istituzioni europee, un rapporto considerato ancora oggi troppo freddo?
Il Registro comune della trasparenza prevede apposite sezioni dedicate alle organizzazione non governative, ai soggetti della ricerca e della formazione universitaria, alle confessioni religiose. A parte quest’ultima categoria di soggetti - che presenta un numero di registrazioni molto contenuto anche a causa del complesso dibattito a livello europeo sulla aconfessionalità delle istituzioni UE - è il caso di notare che le organizzazioni non governative hanno riportato un tasso di registrazione molto elevato, collocandosi al secondo posto subito dopo lobbisti interni e associazioni di categoria, storicamente molto numerosi presso la Commissione. L’entusiasmo con cui le organizzazioni del Terzo Settore hanno risposto alla policy di registrazione di Commissione e Parlamento è testimonianza di una certa vivacità e di volontà di partecipazione ai processi decisionali europei. Si tratta, a mio avviso, di un primo canale di accreditamento per questa tipologia di organizzazioni, molto spesso marginalizzata nei processi di policy making a livello statuale e alla ricerca di una legittimazione nel contesto europeo, più orientato al modello multistakeholder.
La sanzione prevista per quei lobbisti che trasgrediscono le regole – la revoca del lasciapassare personale – è uno strumento adeguato, al di là dei casi di rilevanza penale, per la deterrenza di modus operandi non leciti nei rapporti tra lobbisti e parlamentari europei?
Dobbiamo calarci nel sistema delle istituzioni europee per comprendere quanto la misura da lei citata si riveli un adeguato deterrente a pratiche professionali non corrette. Fare il lobbista a Bruxelles è un percorso professionale altamente “reputazionale”: carriere e successi sono costruiti sulla scorta non solo dell’efficacia delle campagne condotte, ma soprattutto sulla fama professionale acquisita presso una platea abbastanza stabile di eurocrati. Un ritiro del lasciapassare svela una sostanziale incapacità del lobbista di saper giocare secondo le regole del gioco, che dimostra, nella sostanza, una scarsità di doti professionali. Pertanto, in un contesto del genere al ritiro del lasciapassare corrisponde uno stallo molto consistente, quando non la fine, di una carriera. Faccio fatica a pensare ad un analogo sistema di sanzione dentro al sistema politico italiano, in cui all’approccio reputazionale si sostituisce spesso quello relazionale alla carriera di lobbista: si tratta di un modello meno sistematico e più personalistico di svolgere l’attività di relazioni istituzionali. Anche in questo caso, tuttavia, devo notare che è il sistema politico improntato alla elevata personalizzazione dei partiti politici a condizionare questo esercizio dell’attività di lobbying.
Quanto e come può agire la società civile organizzata europea per migliorare l'operato delle lobby in termini di tutela dei propri interessi, trasparenza, etc?
Molto. Una maggiore conoscenza dell’architettura del sistema politico e un’attenzione all’informazione sulla vita istituzionale possono rendere la società civile europea più consapevole del ruolo degli interessi particolari nel processo decisionale. La difficoltà più grande che vedo lungo questo percorso è la grande frammentazione, ancora a livello nazionale, della società civile UE, che crea barriere ad una più attiva partecipazione alla vita istituzionale comunitaria. E tuttavia alcuni segnali di attivazione della società civile europea cominciano ad emergere. A questo proposito vorrei ricordare l’importante circostanza in cui, sulla base delle pressioni apportate in maniera organizzata e sistematica da alcuni gruppi della società civile europea a difesa della libertà di Internet, il Parlamento ha respinto la ratifica del Trattato ACTA (Anti-counterfeiting Trade Agreement, il Trattato commerciale contro la contraffazione e la pirateria). Si tratta di un accordo alla cui redazione hanno preso parte anche importanti multinazionali nel settore discografico, cinematografico, dei servizi internet, con lo scopo di porre sotto controllo il traffico internet dei soggetti privati degli Stati contraenti per verificare eventuali violazioni dei diritti di proprietà intellettuale su prodotti multimediali scambiati sul web. ACTA è stato negoziato, tra gli altri soggetti dalla Commissione europea; la procedura di ratifica richiedeva tuttavia l’approvazione da parte del Parlamento europeo per l’entrata in vigore. Organizzazioni e associazioni quali A2K (Access to Knowledge) e altre non solo hanno informato e sensibilizzato i cittadini europei sul rischio di questa forma di controllo preventiva sul traffico web degli utenti, ma hanno previsto forme più articolate di intervento come raccolte di firme in rete (quasi tre milioni di firme), campagne sui media tradizionali e sui social media; inoltre hanno posto in essere una vera e propria attività di pressione sui Parlamentari europei a colpi di dossier, position paper e richieste di assunzione diretta di precise responsabilità politiche nel caso in cui avessero votato a favore dell’entrata in vigore del Trattato. Nonostante fossero coinvolti molti interessi economicamente forti anche dentro l’U.E., l’azione di lobbying di queste organizzazioni non governative e dei relativi gruppi sociali di supporto ha conseguito un successo davvero notevole, dal momento che il Parlamento Europeo nella seduta del 4 luglio 2012 ha ricusato il processo di ratifica con una maggioranza molto significativa. Questo fatto ci segnala come molto possa essere ottenuto da una società civile europea attenta ed organizzata in cause comuni, soprattutto nel settore del consumerismo.
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