F2i, i nomi di 37 gestori dell'attività strategica italiana non sono noti. Perché?

foto: f2isgr.it

Roma - Necessità di trasparenza. Si chiede di rendere pubblici gli stipendi dei ministri, dei rettori delle università, dei manager delle società partecipate ma non si dice nulla su 37 nomi occulti che gestiscono e finanziano l'attività strategica del nostro Paese.

17 luglio 2013: al Quirinale, per un incontro con il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, arriva Vito Gamberale, 66 anni, amministratore di F2i, Fondi italiani per le infrastrutture con un passato in Telecom (direttore generale), Sip (amministratore delegato), gruppo Benetton ed Eni.
Il fondo, una società di gestione del risparmio (sgr), con una disponibilità di circa 2 miliardi di euro, detiene partecipazioni – e dunque influenza – in aziende attive in molti dei principali settori strategici italiani, tra cui rete idrica, gas, aeroporti, istituti bancari e telecomunicazioni. Settori, questi, che mentre si svolgeva l'incontro al Quirinale erano al centro del dibattito alla Camera dei Deputati, racchiusi nel c.d. “Decreto del fare” del quale, evidentemente, il Fondo era spettatore più che interessato.

In ambito bancario, quote di partecipazioni di F2i si trovano in Intesa-Sanpaolo; Unicredit, Monte dei Paschi di Siena. Tra le società commerciali si trovano quote del fondo in Enel Rete Gas, Infracris, Mediterranea delle Acque, Metroweb, acquistata a maggio 2011 per 436 milioni di euro, che gestisce la maggiore rete di fibra ottica d'Europa in consorzio con Intesa Sanpaolo – controllata e socia – amministrata fino a novembre 2011 da quel Corrado Passera che è stato ministro proprio alle infrastrutture. Il presidente di Metroweb è Franco Bassanini, più volte ministro della Repubblica, che è anche presidente di Cassa depositi e prestiti (Cdp) di cui F2i è, dal 2007, una delle diramazioni. L'azionista di maggioranza della Cassa con il 70% è direttamente il ministero del Tesoro.

Forti, per F2i, sono anche gli investimenti nel settore autostrade. Tra le partecipate, attraverso la holding Infracis, partecipata al 26%, l'Autostrada del Brennero (A22) e la Brescia-Verona-Vicenza-Padova (qui l'elenco completo). La Cdp nel 2011 ha concesso 765 milioni di euro alla BreBeMi per la costruzione dell'autostrada tra Brescia, Treviglio e Milano.
Un interesse, quello autostradale, che ha una duplice valenza: se da un lato si persegue l'interesse pubblico, dall'altro fondo e Cdp perseguono un interesse più che privato. Nel consiglio di indirizzo di quest'ultimo, infatti, siede Carlo Colaiacovo, amministratore delegato di Colacem S.p.A., terzo produttore italiano di cemento e capofila del gruppo Financo, holding finanziaria di famiglia.

Gli interrogativi irrisolti dell'omicidio di Iendi Iannelli e Stefano Siringo

foto: strada Maidan Shar-Bamyan;
fonte: www.coopitafghanistan.org

Kabul (Afghanistan) - Ricapitoliamo: Iendi Iannelli e Stefano Siringo sono due ragazzi romani, rispettivamente di 26 e 32 anni, che nel 2006 arrivano in Afghanistan per lavorare all'interno del “Programma Giustizia”, il progetto portato avanti dalla cooperazione italiana per costruire il sistema giudiziario del paese “liberato”. Stefano arriva a Kabul come impiegato del ministero degli Esteri, contratto di quattro mesi, rinnovabile, ed un più che probabile spostamento definitivo in America Latina – sempre grazie alla Farnesina – dove lo aspetta Giulia, la sua fidanzata cubana che non vuole spostarsi dal suo paese. Iendi Iannelli, ex pilone del Torvaianica Rugby cresciuto in Sudafrica, arriva a Kabul come amministratore della International Development Law Organization (Idlo), l'organizzazione che gestisce gran parte dei fondi italiani destinati alla cooperazione, dove si occupa per lo più delle spese locali in quanto i cordoni della borsa rimangono alla sede centrale dell'organizzazione, a Roma.

Vengono rinvenuti privi di vita sul letto della camera di Iannelli presso la Guest House Idlo a Kabul il 16 febbraio 2006. Le prime ipotesi parlano di avvelenamento da monossido di carbonio (versione dell'ambasciatore Sequi) proveniente da una stufa a gas che in realtà è elettrica, dopodiché la causa della morte passa all'overdose o, come riferiscono le autopsie «intossicazione acuta da eroina». Nel corpo di entrambi i ragazzi vengono infatti ritrovate tracce di eroina pura all'89%. Un grado di purezza troppo alto per essere assunto anche dai tossicodipendenti, cosa che i due ragazzi non sono, come raccontano l'assenza di tracce fisiche – come i fori di siringa – e tutti i loro conoscenti. Tutti tranne uno. Ivano, il fratello di Iendi, è infatti l'unico a parlare apertamente di un fratello tossicodipendente.

Perché questa insistenza? Si scopre – in realtà non è un mistero – che Ivano lavora all'United Nation Office for Project Service (Unops), una delle due organizzazioni su cui Iendi stava indagando. Analizzando i conti della Idlo, infatti, si era reso conto di un giro di false fatturazioni tra le due organizzazioni per il valore di 1,5 milioni di dollari, come confermato anche dal suo successore, Rustam Ergashev, da Edgardo Buscaglia che dirige il lavoro di Iendi e, tra gli altri, da Antonella Deledda, ex vice coordinatrice dell'ufficio di giustizia a Kabul, che a Roma trova le prove dell'esistenza di due “protocolli” tra Idlo e Unops – rispettivamente di 900.000, 400-500.000 dollari – che accreditano l'ipotesi investigativa di Iendi, così come confermerà anche la giudice per le indagini preliminari, Rosalba Liso, che si è occupata del caso per la Procura della Repubblica di Roma.

Caso Iannelli-Siringo: che fine hanno fatto i soldi della cooperazione italo-afghana?

foto: afghanistan.cooperazione.esteri.it

Kabul (Afghanistan) - Che fine hanno fatto i soldi della cooperazione occidentale in Afghanistan? Una parte di quei 290 miliardi – lo ha denunciato l'ex capogruppo in commissione Difesa Augusto Di Stanislao (qui l'intervista che ci ha rilasciato) – va a finire nelle tasche dei signori della guerra dell'una e dell'altra parte del fronte (come i soldi utilizzati dal governo italiano per “comprarsi” la pace con i talebani del distretto di Sarobi), un'altra parte – tra il 6 ed il 20 per cento della somma disponibile, secondo una stima dell'istituto di ricerca “CorpWatch” – si perde nei passaggi interni alle organizzazioni non governative coinvolte nei progetti di ricostruzione.

Iendi Iannelli e Stefano Siringo lavoravano proprio per uno di questi progetti, il più importante della cooperazione italiana in Afghanistan: il cosiddetto “Programma Giustizia” al quale – tra il 2002 ed il 2010 - il nostro Paese ha destinato 81 milioni di dollari destinati alla riorganizzazione del sistema giudiziario afghano.
Tra queste organizzazioni c'è la International Development Law Organization (Idlo), agenzia intergovernativa riferibile alle Nazioni Unite, sede centrale in viale Vaticano 106 a Roma e uffici in Afghanistan, Kenya, Kirghizistan, Sud Sudan, Somalia e Tajikistan. La sua attività principale è aiutare i Paesi nella ricostruzione del sistema giuridico-giudiziario attraverso la fornitura di competenze legali, strumenti e professionisti, come i magistrati messicani Samuel Gonzalez Ruiz ed Edgardo Buscaglia, incaricati dall'organizzazione di formare i pubblici ministeri del nuovo Afghanistan. È dalle casse della Idlo che passa la maggior parte dei fondi della nostra cooperazione nel progetto. Con una parte del denaro ricevuto, la Idlo pagava i servizi – acquisti, sicurezza e logistica – dei quali non poteva occuparsi direttamente e che erano invece appaltati allo United Nation Office for Project Service (Unops), organizzazione che supporta le Nazioni Unite negli aspetti logistici di operazione umanitarie, di pace e di sviluppo anche attraverso la costruzione di strutture sanitarie o la collaborazione alla riforma dei sistemi giudiziari e di sicurezza.
Le decisioni, però, rimangono appannaggio degli uffici di Roma, tanto che – è lo stesso Buscaglia a raccontarlo nella sua deposizione del 28 maggio 2012 - negli uffici di Kabul non sanno neanche quanti soldi hanno realmente.

È proprio per la possibilità di accedere ai conti della Idlo che Iendi Iannelli scopre quello che poi sarà il movente dell'omicidio: un giro di false fatturazioni tra le due organizzazioni, uno dei sistemi più noti per creare fondi in “nero”

Distrazione di fondi dalla cooperazione italo-afghana: Iannelli e Siringo uccisi per averlo scoperto

"Io pretendo che la storia giudiziaria nel mio Paese abbia i "punto" e gli "a capo". E non gli "omissis""
[Marco Paolini]

Stefano Siringo (a sinistra) e Iendi Iannelli (a destra);
foto: neversleep.it

Kabul (Afghanistan) - Milioni della cooperazione italiana scomparsi, due morti ed una verità che non arriva dopo anni di carte e procedimenti giudiziari. No, non è la Somalia del 1994, della “vacanza” di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin ma l'Afghanistan degli 81 milioni di euro spesi tra il 2002 ed il 2010 per il “Programma Giustizia”, di Iendi Iannelli e Stefano Siringo che proprio in quel programma – volto alla ricostruzione del sistema giudiziario afghano – erano stati chiamati a lavorare finché non sono stati ritrovati morti, a Kabul, il 16 febbraio 2006.
In entrambi i casi ad uccidere è stata una domanda: che fine hanno fatto i soldi della cooperazione italiana?

Il giudice per le indagini preliminari che si è occupata del caso – Rosalba Liso, la stessa del caso di Stefano Cucchi – ha racchiuso in un “purtroppo” l'impossibilità di arrivare ad una verità giudiziaria sulla morte, scrivendo nel suo decreto di archiviazione di quell'«omicidio volontario del quale, purtroppo, è rimasto ignoto l'autore o gli autori». «Quel che rimane certo», si legge nel documento, «è che la morte dei due giovani merita chiarezza anche in virtù della necessità che la di loro memoria possa rimanere cristallina».

La scena del crimine per la droga sbagliata. Nei corpi di Iendi e Stefano vengono trovate tracce di eroina, talmente pura – all'89% - da far desistere persino un tossicodipendente in forte crisi di astinenza, a maggior ragione due ragazzi che nemmeno ne facevano uso.
I loro fisici, inoltre, portano una ulteriore conferma al fatto che i due siano stati «intossicati» con la droga da una mano esterna: Stefano, 32 anni, era infatti alto 168 centimetri per 66 chilogrammi; Iendi – ex pilone del Torvaianica Rugby – era invece alto 185 centimetri e pesava più del doppio di Stefano. La reazione fisica all'iniezione sarebbe stata diversa, e nessuno dei due avrebbe avuto il tempo materiale per sistemarsi sul letto, come invece sono stati ritrovati nella camera della Guest House dove Iannelli alloggiava.

Fin da quando i due vengono ritrovati, la mattina del 16 febbraio, si capisce che qualcosa non va. La scena del crimine, in qualche modo, si scontra con la personalità dei due ragazzi. Chi li ha conosciuti, come si legge nelle deposizioni rilasciate al pubblico ministero Luca Palamara, ha confermato con forza che nessuno dei due facesse uso di sostanze stupefacenti, nonostante queste siano state ritrovate in quantità notevole in tutta la stanza. “Piste” di eroina vengono infatti ritrovate sul televisore, su uno stipite, su un pacchetto di carta stagnola su un comodino e su un altro pacchetto posto dall'altro lato della stanza.

"Voglio la verità sull'omicidio di Iendi Iannelli e Stefano". Intervista a Barbara Siringo

foto: profilo personale di Barbara Siringo; fonte: facebook

Roma - Nelle scorse settimane abbiamo iniziato a parlare del ruolo italiano in Afghanistan, svelando sia un'attività militare – come risulta dai cables di Wikileaks – ben più ampia di quanto ci è sempre stato raccontato che il nostro ruolo all'interno della cooperazione internazionale.
In quest'ultimo ambito, in un tragitto che collega idealmente l'Afghanistan con la Somalia della metà degli anni Novanta, dei rifiuti tossici e degli omicidi di Ilaria Alpi, Miran Hrovatin e Vincenzo Li Causi, la domanda da porsi è la stessa che portò la giornalista del Tg3 a Mogadiscio: che fine hanno fatto i soldi della cooperazione italiana?

A questa domanda hanno tentato di rispondere due ragazzi romani, Iendi Iannelli e Stefano Siringo, arrivati in Afghanistan nell'ambito del “Progetto Giustizia” - il piano di ricostruzione del sistema giudiziario afghano - e trovati morti nella loro camera alla Guest House di Kabul il 16 febbraio 2006.
Ne abbiamo parlato con Barbara (nella foto), sorella di Stefano che da quel giorno si batte affinché la verità sull'omicidio – di cui parleremo approfonditamente nei prossimi giorni – venga chiarita.

Partirei innanzitutto parlando di Stefano: chi era e perché era andato in Afghanistan?
Stefano era la persona più vitale che io abbia mai conosciuto! Era pieno di interessi e sempre circondato da amici, sempre allegro e pronto allo scherzo, abituato a non abbattersi mai anche di fronte alle grandi prove che nella sua pur breve vita si è trovato ad affrontare. Nel 2004 l’allora ministro degli Esteri Gianfranco Fini (si conoscevano perché abitavano nello stesso condominio), informandosi sui suoi studi (gli mancavano pochi esami alla laurea in legge) e sui suoi progetti, gli propose un colloquio al Dipartimento della Cooperazione Internazionale per un’eventuale collaborazione all’estero.
Stefano adorava viaggiare, non come semplice turista ma spinto dalla curiosità di conoscere altri popoli, le loro condizioni di vita, le loro usanze ed abitudini; accettò con entusiasmo la proposta, ne era lusingato. Fu così che – nel marzo 2005 - gli venne assegnata una prima missione a Kabul come logista per il Progetto Giustizia, che si occupava di sostenere la creazione di un impianto giudiziario indipendente in Afghanistan. La missione durava 4 mesi ma, poiché il suo lavoro venne molto apprezzato, l’ambasciatrice Brunetti (titolare del progetto) ne richiese per ben due volte il rinnovo che venne concesso dal Dipartimento. Quando morì era alla sua terza missione a Kabul, sarebbe stata l’ultima ed il suo rientro era previsto per maggio: dal Ministero gli avevano prospettato la possibilità di lavorare in America Latina, paese che Stefano adorava e dove aveva deciso di andare a vivere.