Raccontare la guerra tra velocità e competenza. Intervista a Cristiano Tinazzi

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Milano - Internet e giornalismo: un rapporto tanto osannato quanto criticato, come quando - il mese scorso - la necessità di essere veloci sembrava poter complicare la posizione dei quattro giornalisti fermati dai ribelli siriani, per i quali le prime notizie parlavano senza giri di parole di "rapimento" vero e proprio. Ne è nata dunque un'intervista a Cristiano Tinazzi, che con Amedeo Ricucci, Stefano Varanelli ed Elio Colavolpe era entrato in Siria a dicembre. Con lui abbiamo parlato proprio del reporter di guerra, una figura tanto "romantica" nell'idea del lettore medio quanto ignorata dai direttori dei mezzi di informazione. 

Il caso di Amedeo Ricucci, Elio Colavolpe, Andrea Vignali e Susan Dabbous, risoltosi per il meglio, sembra molto diverso dal caso Quirico-Piccinin. In base alla tua esperienza di reporter di guerra, cosa ne pensi?

Il caso di Quirico e Piccinin segue quelli di Tice e Fowley, giornalisti americani spariti da mesi in Siria. Quirico è entrato dal Libano per dirigersi verso Homs ma nessun giornalista da mesi usa più quel passaggio di confine, visto che in diversi sono stati uccisi, rapinati o sequestrati. Nella zona operano bande di predoni, contrabbandieri, uomini di Hezbollah, governativi, milizie filo-Assad Senza contare gruppi slegati e non dall'Els [l'Esercito Siriano Libero, ndr]. I combattimenti in quella striscia di terra che separa il confine da Homs sono molto cruenti. Una zona off limits per tutti. Due mesi fa un inviato della Bbc, Paul Wood, era stato rapito. E nella stessa zona è scomparso quasi un anno fa il giornalista americano Austin Tice.

Torniamo al fermo dei quattro giornalisti (Amedeo Ricucci, Elio Colavolpe, Andrea Vignali, Susan Dabbous). Perché all'inizio si parlava di "rapimento" quando poi si è saputo essere un "fermo"? Quanto ha influito sulla terminologia la necessità della rete di condividere immediatamente questa notizia? In più, puoi spiegarci la differenza tra le due situazioni?

Un fermo non è una notizia. I media hanno bisogno di titoli da strillare e spesso chi lancia questi titoli non ha nessun interesse a verificare i fatti quanto invece a fare del vero e proprio sensazionalismo. C'è stata una vera e propria corsa a chi per primo dava la notizia quando non si è riusciti a frenare la fuga di informazioni. Cavalli che scalpitavano ai box e decine di telefonate... Poi c'è una certa stampa, come quella del Giornale o di Libero, che ha già una impostazione islamofoba e idee preconcette quando si parla di Medio Oriente e Islam, per cui un fermo diventa rapimento e i rapitori diventano automaticamente dei 'terroristi'. La differenza è sostanziale tra il termine 'fermo' e 'rapimento'. Un rapimento prevede solitamente una richiesta di riscatto o una rivendicazione, cosa che in questo caso non è avvenuta. Fin dall'inizio della vicenda io e altri colleghi eravamo in contatto con siriani che interloquivano direttamente con coloro che li avevano fermati. Sapevamo più o meno dove erano, le loro condizioni, il motivo del loro fermo. In quel caso la loro liberazione era solo una questione di tempo. Inoltre restava difficile da parte della stampa italiana comprendere il fatto che il 'fermo' superasse i due giorni, ma anche qui è una deformazione dettata da una visione dello stato di diritto occidentale, come se fosse possibile applicarlo in tutte le parti del mondo. Era evidente che una milizia non potesse comportarsi come una qualsiasi polizia di un qualsiasi paese europeo,ma anche qui ha prevalso il sensazionalismo e una certa superficialità.

Detta fuori dai denti: fare l'inviato di guerra, oggi e soprattutto per i lettori italiani, vale davvero la pena?

No, ma soprattutto non vale per le testate che rappresenti. Non c'è nessuna soddisfazione, nessuna gratificazione, nessuna remunerazione che possa contraccambiare lo sforzo, il rischio e la dedizione che si hanno a seguire le notizie nelle aree più calde del pianeta. Qualche anno fa avere un giornalista sul posto per la testata era un vanto. Oggi la maggior parte dei direttori è indifferente. Un giorno sei citato con tutti gli onori, quello dopo ti buttano via senza tanti complimenti. E anche per gli interni la situazione non è migliore. E' capitato spesso che inviati si trovassero a non avere spazio per mandare i loro servizi.

Tu sei stato in Siria, secondo te sono attendibili le denunce del possesso di armi chimiche in mano ad al-Assad o si sta assistendo ad un tentativo come quello di Colin Powell del 2003, quando presentò al mondo una provetta con le prove di armi chimiche mai realmente trovate? E cosa ne pensi, dall'altro lato, della dichiarazione di Carla Del Ponte secondo cui queste armi – il gas sarin in special modo – siano invece in mano ai ribelli

Che Damasco abbia armi chimiche non è un segreto. Lo stesso governo siriano, lo scorso 23 luglio, ha ammesso di possedere una scorta di armi chimiche ma solo per difendersi da una aggressione esterna. Sulla seconda questione non conosco le fonti della Del Ponte e non posso giudicare in merito.

Secondo l'ultimo rapporto di Save the Children, in Siria i bambini vengono usati come scudi umani o come staffette, ed oltre 2.000 scuole sono state distrutte. Tu cosa hai potuto vedere in merito? Quanto questa situazione è diversa dagli altri scenari in cui sei stato?

La loro situazione in Siria non è diversa da molti altri teatri di guerra. Come tutti i civili anche i bambini vengono presi in mezzo dalle forze combattenti che spesso e volentieri hanno poca discrezione e sensibilità nel trattare argomenti come quelli dei diritti dell'infanzia o il rispetto dei diritti umani. Non ho visto bambini impiegati in ruoli diversi da quelli che ha ogni bambino in società dove è normale lavorare fin dalla tenera età. Ho visto però minorenni imbracciare le armi. Anche in Libia. Mi rimarrà sempre impressa la figura di un sedicenne di Misurata: era senza una mano, persa in combattimento, e nonostante tutto era rimasto in prima linea fino alla presa di Tripoli. Le scuole in Siria sono state bombardate come qualsiasi altro obbiettivo civile e ho visto diversi bambini feriti o traumatizzati negli ospedali e nei campi profughi.

Puoi spiegarci com'è il lavoro di un giornalista che decide di andare a coprire una guerra? Quali sono le competenze, le abilità, le questioni che deve risolvere sul campo?

Credo che la prima cosa basilare sia la conoscenza del luogo dove si andrà a lavorare. Non credo nella poliedricità del giornalista, che molto spesso è sinonimo di pressapochismo e superficialità. Per parlare di un paese lo si deve conoscere, non si può scrivere basandosi su impressioni 'a pelle' o generalismi. E non si può saltare dall'Afghanistan alla Tunisia, dalla Colombia al Giappone come se niente fosse. Ne va della credibilità stessa di chi scrive. Terzani si occupava di Asia, così come Kapuscinski di Africa. La conoscenza viene dalla frequentazione dei luoghi e dallo studio fatto sui libri. Dalla formazione universitaria, anche. Sul piano più pratico la prima cosa che io faccio (non ci sono regole fisse) è quella di procurarmi una cartografia quanto più dettagliata del paese. Poi incomincio a pianificare a grandi linee il viaggio che ho in mente. Che tipo di lavoro fare, le tematiche, i contatti etc. La logistica e la pianificazione hanno una grande importanza così come l'attrezzatura, non solo quella per lavorare, che comunque ti deve garantire piena autonomia (multiple batterie, caricatori etc) ma anche la sopravvivenza. Quello che posso utilizzare in un trekking duro in montagna me lo porto dietro. Un freelance, a differenza di un inviato (che ha una struttura alle spalle) può contare solo su sé stesso. E chiaramente le protezioni (elmetto e giubbotto). Poi però spesso accade che il lavoro che hai fatto a monte per necessità di cose deve cambiare e adattarsi alle situazioni che mano a mano ti si prospettano. Credo che la questione da risolvere più importante sul terreno sia legata ai mezzi di comunicazione, alla risoluzione di problemi legati ad essi e ai tempi di trasmissione del materiale. Non frega niente a nessuno se sei infognato da qualche parte. La deadline la devi rispettare, altrimenti a Roma o Milano ti salta il pezzo.

Tu in Siria ci sei stato da entrambe le parti del conflitto, sia dalla parte dei ribelli, entrando con Ricucci e Colavolpe che con accredito governativo (correggimi se sbaglio). Quali sono le differenze? E, te la metto lì provocatoriamente: perché quello con il regime sarebbe un "tour organizzato", come lo hai definito in un'intervista ad arabmediareport.it e quello con i ribelli no?

Sì, sono stato da entrambe le parti. Il modello di 'tour organizzato' è lo stesso di qualsiasi regime che non tollera l'autonomia dei media, sia che essi siano interni o esterni. La stessa cosa era successa in Libia, seppur con qualche differenza. A Tripoli ad esempio eravamo tutti obbligati a soggiornare nel medesimo hotel, intorno al quale avevano posizionato un cordone di polizia. Le visite fuori erano tutte organizzate in gruppo e scortate. All'inizio a marzo si riusciva anche a scappare eludendo il sistema, ma settimana dopo settimana hanno sempre più affinato i controlli. Alla fine eravamo impossibilitati a uscire anche per comprare le sigarette. In Siria avevamo un accompagnatore e avevano un programma prestabilito di visite su Damasco e fuori dalla capitale. Un esempio è stato quando ci hanno portato a coprire le elezioni politiche. Siamo andati, con degli accompagnatori del Ministero dell'Informazione, solo in determinati seggi e quando una collega si è allontanata dal gruppo nel quartiere cristiano è stata bloccata qualche centinaio di metri dopo e portata in un posto di polizia. Fortunatamente siamo riusciti a lavorare uscendo anche da Damasco grazie alle Nazioni Unite, che ogni giorno si recavano in una località diversa (tenuta segreta fino a quando non si metteva in moto la pattuglia di osservatori).
Per quanto riguarda il lato ribelle non c'è nessun tipo di struttura che controlla e irregimenta i media. Sono sempre entrato come volevo, decidendo il percorso che volevo fare e dove recarmi. Per spostarmi utilizzavo una macchina normale ma è capitato anche di salire su pick-up carichi di miliziani, come è successo quando mi sono diretto lo scorso agosto da Tall Rifatt verso Aleppo. Era l'unico modo per entrarci (il nostro autista non ci avrebbe portato). Poi ovviamente devi coprire anche le azioni militari, che fanno parte a pieno titolo di un conflitto. Ho sentito dei colleghi parlare di 'embeddedamento' da parte ribelle. Nessuno ha mai controllato il mio lavoro, nessuno mi ha mai obbligato a seguire un programma o uno specifico percorso. E' evidente però che neanche alle formazioni ribelli interessa avere un giornalista che può ficcanasare e sindacare ad esempio sul trattamento dei prigionieri o essere testimone a loro sfavore di crimini di guerra. Ma la censura a priori o una versione artefatta della realtà che offrono le macchine propagandistiche tipiche dei regimi sono un'altra cosa.

Scrivi per il cartaceo e hai anche un blog (http://ildottorgonzo.wordpress.com/). Innanzitutto, perché "Dottor Gonzo"?

Il Dottor Gonzo è un personaggio del libro 'Paura e disgusto a Las Vegas' di Hunter Thompson che era, oltre che uno scrittore, anche un giornalista (un altro suo romanzo autobiografico è appunto 'Le cronache del Rum', dove racconta le sue esperienze professionali). Thompson ha anche inventato il 'Gonzo journalism', un particolare stile di scrittura giornalistica dove si cura più lo stile che la precisione e nel quale si descrivono spesso le sensazioni e le esperienze personali, anche attraverso l'uso di droghe e alcool. Uno stile che penso in parte di aver utilizzato per alcuni reportage scritti da Africa e Medioriente per la rivista 'Il Mucchio Selvaggio', dove spesso utilizzavo la musica come chiave di lettura del paese e delle sue contraddizioni.

Venendo all'ormai annosa questione: internet ha aiutato o ha complicato il giornalismo? Ti rilancio una domanda che scrivevi anche su facebook: è davvero morta la professione dell'inviato di guerra?

Internet ha da una parte velocizzato il lavoro di ricerca dei giornalisti (pensiamo come era una volta, senza internet dover cercare informazioni su qualcuno o su un evento, ad esempio), ma nello stesso tempo ha fatto circolare una marea di notizie-spazzatura. C'è un'overdose di informazioni in rete che spesso e volentieri non vengono verificate. Nessun controllo delle fonti e molto pressapochismo. La rete ha velocizzato il processo di informazione ma ha anche tolto il tempo per controllare le notizie e approfondire i fatti. L'informazione è diventata un panino fast food da scartare e mangiare nel giro di un minuto.
Sulla questione della professione del reporter di guerra (uso reporter perchè è più generale come termine: di inviati veri e propri ormai ce ne sono una ventina), ne ho parlato ampiamente sul mio blog e ho una visione molto pessimistica del futuro di questa categoria della professione. Anche qui internet ha inciso molto. Perchè mandare qualcuno o prendersi i pezzi da un freelance quando sul posto c'è chi, spesso attivisti e citizen journalist, forniscono materiale senza prendere una euro? Ovvio, i video saran girati con i telefonini, la professionalità nel trattare gli eventi pari a zero e l'imparzialità sarà una parola inesistente nel vocabolario, ma credi che interessi questo a chi deve riempire di contenuti 24 ore su 24 l'online?

Quale credi possa essere lo scenario della Siria post-Assad? Si assisterà ad una nuova Libia post-Gheddafi?

Nessuno sa quando e se cadrà Assad e in che modo e cosa potrà succedere dopo. E' proprio questa incognita che rende i paesi occidentali amorfi nei confronti della tragedia che sta vivendo il popolo siriano. Troppi interessi strategici e politici in gioco su questo paese per risolvere la situazione come è successo in Libia che, ricordiamocelo, ha visto comunque partire un conflitto da non verificate notizie su migliaia di morti a Tripoli e Bengasi, notizie poi rivelatesi false ma che hanno mosso la macchina internazionale, l'Onu e di conseguenza la Nato. Libia e Siria sono comunque due paesi totalmente diversi per cultura, composizione etnica, religiosa etc ed è impossibile fare paragoni validi. Differente è anche l'evoluzione delle proteste nel paese. Insomma, sono due storie totalmente differenti. Sulla questione libica credo debba anche essere fatta chiarezza: in una situazione post-conflitto/rivoluzione con la ricerca di una nuova identità statuale è normale che si verifichino situazioni di instabilità e una mancanza del potere centrale, ancora in fase di costituzione.

Prima il gruppo Ricucci-Colavolpe-Vignali-Dabbous, poi Quirico-Piccinin: cosa c'è in Siria che i giornalisti – e dunque il mondo – non deve vedere?

Quello che c'è in ogni paese in guerra. Morte e distruzione. E tanti crimini. Che il mondo non vuole vedere, a giudicare dall'attenzione dei media sulla Siria. I giornalisti però vanno là e vengono rapiti o uccisi. La Siria oggi per noi è il paese più pericoloso al mondo. Citando Robert Fisk sul fatto che si può morire facendo questo mestiere - noi siamo dei testimoni. Nessuno poi potrà dire: non lo sapevamo, nessuno ce lo aveva detto”.

Chi è Cristiano Tinazzi e perché ha deciso di fare il reporter di guerra?

Uno del Giambellino, il quartiere delle bische e della Ligera cantato nella 'ballata del Cerutti' di Giorgio Gaber. Migrato nell'hinterland sud-est milanese, cresciuto in mezzo a sottoculture, droghe, risse e sbronze con una spiccata inclinazione per le cattive compagnie. Che spesso sono quelle più interessanti, anche culturalmente parlando. Almeno a Milano, dove lo stesso bar è il ritrovo shakerato del delinquente abituale ma anche dell'artista. A un certo punto uno doveva fare una scelta. Continuare a essere borderline al bar, o crearsi un percorso nella società. Ha scelto entrambi, anche se al bar ormai ci va raramente. Nel passare degli anni ha recuperato portando a casa una laurea, un corso post laurea di perfezionamento, un diploma all'Ispi, una borsa di studio e un premio giornalistico. Ha in previsione di prendere a breve una seconda laurea. Ha iniziato a fare questo mestiere tardi, come tutte le cose che richiedono impegno e rispetto. La sua iscrizione all'albo dei professionisti risale al 2007, mentre il primo incontro con la guerra e i suoi figliastri è stato nel 2006 in Libano. Non c'è un motivo specifico perché ha scelto questo lavoro e questa specializzazione. Non vi dirà mai che è stato il 'fuoco sacro' per il giornalismo, la 'passione'. Tutte cazzate. Si fa quello che si è. E come tutti coloro che nella vita hanno tirato i dadi, ha perso e passeggiato spesso sul lato selvaggio della strada. Senza rimorsi, ovviamente. Ed è tutto tatuato sulla sua pelle.

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