Lobbisti, faccendieri e stereotipi. Intervista a Maria Cristina Antonucci. (3/4)

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[Parte 1: Democrazia, partiti e utilità del lobbismo. Intervista a Maria Cristina Antonucci (1/4)]
[Parte 2: Lobby, Europa e società civile organizzata. Intervista a Maria Cristina Antonucci. (2/4) ]

foto: toolfools.wordpress.com
Roma - Europa, Italia, Regioni. Sono questi i tre piani – come abbiamo fin qui visto, grazie all'aiuto della dottoressa Maria Cristina Antonucci  - ricercatore in Scienze sociali presso il Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR) – nei quali si muovono i lobbisti. Dopo aver cercato di approfondirne i rapporti con le istituzioni europee, in questa terza parte dell'intervista cercheremo di “smontare” uno stereotipo tanto utilizzato quanto errato: che i lobbisti siano nient'altro che faccendieri ed intrallazzatori.

Partiti, elezioni e gruppi di pressione. Può l'attività di questi ultimi essere considerata come una forma di democrazia (più) diretta? Forme di organizzazione come i comitati per l'acqua pubblica possono essere considerati già come gruppi di pressione e, in tal senso, lo spostamento degli elettori a forme partecipative di questo tipo può portare – in aggiunta al forte astensionismo elettorale – ad una sorta di “democrazia dei gruppi di pressione”?  

Uno dei paradossi delle democrazie mature contemporanee sembra risiedere proprio nella distonia  tra aumentata richiesta di ulteriori strumenti e percorsi di partecipazione politica (le elezioni primarie  anche in sistemi politici in cui non siano espressamente previste, la partecipazione politica sul web, le consultazioni on-line su temi oggetto di prossime politiche pubbliche) e la crescente defezione rispetto ai tradizionali canali della partecipazione (astensionismo alle elezioni politiche, mancanza di quorum ai referendum, distacco e condanna rispetto all’esperienza dei partiti, quando non delle istituzioni politiche). In questo contesto ogni altra forma di partecipazione associata, come i movimenti collettivi per i beni pubblici (alla cui categoria, piuttosto che a quella delle lobby, ricondurrei i soggetti organizzati per l’acqua pubblica e altri public goods) e come i gruppi di pressione raccolti attorno ad uno specifico interesse, possono rappresentare canali alternativi della partecipazione politica associata, in grado di riattivare la scarsa e poco vivace fiducia collettiva nel sistema politico. Tuttavia, più che riferirmi ad una democrazia dei gruppi di pressione, penso sia preferibile parlare di una democrazia che si apre a nuovi soggetti: nuovi modelli di partiti, come il MoVimento cinque stelle (che si definisce movimento, ma agisce secondo la razionalità propria del partito politico), nuovi movimenti collettivi - differenti rispetto ai movimenti degli anni ‘60-‘80, grazie all’uso professionale delle tecnologie di comunicazione di massa – e molteplici  gruppi di pressione.

Ciascuna di queste tipologie di soggetti collettivi pone all’attenzione del sistema politico decisionale temi e argomenti su cui appare importante che le istituzioni politiche individuino, secondo la logica anche formale della democrazia procedurale, l’interesse collettivo. In questo senso l’innovazione democratica passa tanto attraverso la partecipazione di una pluralità di soggetti, quanto mediante lo sviluppo di nuove formule e canali per la rappresentanza e la rappresentazione sociale nei confronti dei decisori collettivi (new media, social media, interattività diretta e partecipazione mediante il web).
 
Secondo Luigi Graziano (pag. 123) «il lobbying si ispira ad una cultura aperta opposta a quella del clientelismo, modalità storica dell'intermediazione degli interessi in Italia». Le lobby quindi possono porsi come un freno più efficace al sistema corruttivo-clientelare italiano rispetto ai partiti?


Sostenere che le lobby siano il freno al clientelismo non rispecchia il senso delle parole di Graziano, che riflettono piuttosto una teoria genetica della rappresentanza degli interessi in differenti culture politiche. In questo senso il lobbying è sorto in un sistema pluralistico (gli Stati Uniti) improntato ad una cultura politica della partecipazione e della attivazione diretta dei soggetti della società civile per fornire risposte non mediate dal sistema politico. Al contrario, in Italia, il clientelismo nasce in una cultura politica viziata da una concezione originaria in cui la politica è l’unico canale di risposta agli input di una società civile poco attiva.
In questo contesto i partiti politici, principali attori collettivi della politica sul territorio, coltivano parentele e clientele secondo un modello di scambio. Essi acquisiscono consenso elettorale allocando indebiti privilegi particolaristici lontani dal perseguimento dell’interesse collettivo. Continuando ad agire secondo questa logica, le poche lobby legittimate dal sistema, insieme ai partiti intesi come unico aggregatore di istanze collettive, bloccano l’emergere della plurale competizione tra interessi particolari, limitano l’applicazione del concetto di merito, costituiscono un equilibrio della negoziazione lontano dalla allocazione ottimale delle risorse economiche e  politiche. Quindi, per rispondere alla sua domanda, non sono le lobby ad opporsi al sistema clientelare, ma è l’applicazione sistematica del lobbying come insieme di metodi e strumenti, di regole e pratiche professionali standardizzate a contrapporsi  ai canali di clientelismo, familismo, personalismo e trasformismo. Personalmente ritengo che il lobbying, come insieme di tecniche di comunicazione, relazione e persuasione motivata, possa essere impiegato con efficacia dal comitato di quartiere come dalla multinazionale globale, generando benefici tanto particolari quanto collettivi. Al tempo stesso credo che gli espedienti di conoscenza personale, l’influenza clientelare, l’appartenenza ad un medesimo milieu usati come chiavi di accesso al decisore collettivo siano risorse tipiche di un sistema in cui i principali attori coinvolti sono interessati a mantenere uno status quo poco conforme ai parametri internazionali di efficacia ed efficienza allocativa delle risorse di un sistema sociale, economico e politico. Con la crescente integrazione dei sistemi politici a livello europeo e internazionale, questa tendenza, è destinata a scontrarsi con fattori esogeni in grado di modificarne il percorso. 
 
Pur non avendo mai regolato concretamente l'attività lobbistica, non si può dire che in Parlamento non siano stati previsti tentativi di normazione. Può farci un breve excursus sui principali, così da avere un quadro sul “cosa potevamo fare e non abbiamo fatto”?


In materia di regolazione di lobbying, la fine del processo è nota: molto si poteva fare per disciplinare il rapporto tra i gruppi di pressione e le istituzioni politiche e nulla è stato portato a termine. Tuttavia tentativi regolamentari di ogni tipologia, da modelli disciplinari estremamente puntuali e dettagliati e rivolti alla totalità dei soggetti della relazione lobbistica, a paradigmi più liberali, rivolti a fornire una norma di massima per un numero ristretto di destinatari, sono stati avanzati senza successo da esponenti di quasi tutti i partiti presenti nel Parlamento nelle ultime tre legislature. In particolare, con riferimento alla sedicesima legislatura appena conclusa, sono state presentate sedici proposte di legge tra Camera dei Deputati e Senato della Repubblica, in materia di lobbying, rappresentanza degli interessi, relazione istituzionale.
 Il panorama dei modelli di disciplina appare eterogeneo. Si possono annoverare  modelli disciplinari più minimali e generalisti - come il disegno di legge della Senatrice Garavaglia n. AS 1448 del 12 marzo 2009 rivolto a normare la figura del consulente in relazioni istituzionali presso le “pubbliche istituzioni” grazie ad un registro tenuto dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri e sulla scorta del principio della trasparenza; o come la proposta di legge De Girolamo n. AC 5437 del settembre 2012 improntata a stabilire tre registri per rappresentanti delle relazioni istituzionali presso Camera, Senato e Presidenza del Consiglio dei Ministri e orientata a delegare alle tre istituzioni la creazione di omogenee norme di iscrizione ed eventuali sanzioni.

Ma sono stati proposti anche  strumenti disciplinari estremamente dettagliati, puntuali e onnicomprensivi,  come la proposta di legge Moroni et alii n. AC 5084 del 23 marzo 2012 dotata di un sistema integrato di diritti, doveri, codici di comportamento, regole e sanzioni legati all’iscrizione al Registro unico presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri; o come la proposta di legge Sereni et alii n. AC 5013 del 29 febbraio 2012, basata su un analogo impianto sistematico, ma articolata su tre registri presso Camera, Senato e Presidenza del Consiglio dei Ministri, con elencazione di diritti e doveri tanto dei lobbisti quanto dei decisori pubblici, requisiti per l’accesso alla professione, regimi di incompatibilità, codici deontologici e sistemi di sanzioni anche pecuniarie in caso di mancanza di rispetto della normativa. Iniziative legislative che contestualizzano il lobbying con altri attori collettivi come partiti, sindacati e soggetti istituzionali sono state presentate con la proposta di legge Mura n. AC 996 del 2008 e la proposta di legge Bernini n. AC5580, mentre le due proposte di legge Galli n. AC4880 e AC4908 proponevano regole per  il lobbying e limiti ai doni accettati da esponenti della politica e della PA.

Ci terrei poi a ricordare l’importante tentativo di regolazione verificatosi per iniziativa del Governo Prodi con il DDL Santagata del 31 ottobre 2007, volto a istituire un registro pubblico dei rappresentanti degli interessi presso il CNEL, in conformità con una tradizionale visione neo-corporativa della rappresentanza degli interessi, e a stabilire una corretta sinallagmaticità di diritti e doveri dei lobbisti e dei decisori pubblici e un adeguato sistema di sanzioni, requisiti di accesso alla professione e di codici di comportamento. Il testo Santagata ha avuto di recente una seconda giovinezza, con la presentazione alla Camera dei Deputati della disciplina del 2007 ad opera dell’Onorevole Marinello (PDL) con la proposta di legge n. AC 5373 del 18 luglio 2012.

Trovo sintomatico dello stallo della regolazione del lobbying in Italia il fatto che, indipendentemente dalla appartenenza partitica di chi presenta il medesimo testo di legge (proposto nel 2007 da un esponente del PD e poi “adottato” nel 2012 da un Parlamentare del PDL) non si riesca a definire un esito legislativo, né sotto la forma di disegno di legge governativo, né sotto la forma di legge parlamentare.
Infine, vorrei notare che nonostante il carattere tecnico e la relativa ampia capacità di azione del Governo Monti, non sia stata colta l’occasione, con il Disegno di legge anticorruzione Severino, di regolamentare l’attività, lecita e legittima, di lobbying,  ma si sia ritenuto esclusivamente di porre norme in materia di traffico illecito di influenze. Si tratta davvero di un’opportunità perduta, dal momento che, una volta statuito cosa non veniva consentito dalla legge (trafficare illecitamente in influenza) bastava davvero uno sforzo in più per stabilire come invece agire dentro al sistema delle regole. Resta la speranza che la difficile legislatura che si apre possa trovare tempi e spazi di manovra per affrontare il tema con l’attenzione che esso necessita.

Piano regionale, nazionale ed internazionale: quali le differenze sul lavoro del lobbista?

Diritto dell’Unione Europea, legislatore nazionale e decisore politico regionale rappresentano sempre più spesso piani di lavoro interconnessi per l’attività dei lobbisti,  sulla scorta dell’amplia applicazione del principio di sussidiarietà che prevede il riparto di competenze – anche legislative – al livello di soluzione più prossimo alle istanze manifestate dalle comunità. Il lobbista è quindi spesso chiamato a sperimentare nella propria attività l’integrazione e l’interdipendenza di tali livelli di policy making. Svolgere attività di lobbying in un contesto internazionale, presso le Istituzioni europee, o all’interno di sistemi politici come quello statunitense o canadese, prevede, generalmente il beneficio di un sistema di norme, codici di condotta e sanzioni codificato e definito. Questo elemento rende l’attività professionale più prevedibile e certa. Ovviamente questo non esclude la possibilità di forme di scostamento dai parametri professionali, come nei casi di scandali famosi, verificatisi anche in tempi recenti.
Il livello nazionale di attività di rappresentanza degli interessi, oltre che dalla mancanza di una disciplina legislativa, viene anche influenzato dalla eterogeneità dei soggetti presenti: organizzazioni datoriali, generali e settoriali, sigle sindacali, lobbisti alle dirette dipendenze di imprese, consulenti e società di consulenza, grandi studi legali che svolgono anche attività di lobbying, soggetti del Terzo Settore si contendono in maniera competitiva l’attenzione e la possibilità di influenzare i decisori pubblici. Inoltre, per il sistema politico italiano, diventa sempre più difficile individuare, prima ancora che influenzare, i reali policy makers a causa del verificarsi di alcune trasformazioni sistemiche, come lo spostamento del baricentro decisionale dagli strumenti legislativi alla decretazione, o la sostituzione della centralità del Parlamento con il più agile potere dell’esecutivo, o, ancora come la crescente importanza della implementazione delle politiche pubbliche fornita dalle tecnostrutture della Pubblica Amministrazione.
Più leggibile appare la situazione della rappresentanza degli interessi a livello regionale, in cui la mappa degli stakeholders appare maggiormente aderente al territorio regionale e alle sue articolazioni e aggregazioni, legate ad economia e lavoro. In particolare, in un contesto come l’Italia, costituito più dai distretti che dalle articolazioni provinciali - mero dato di aggregazione statistica - è possibile individuare facilmente i soggetti della rappresentanza sulla base della geografia economica e sociale dei territori, così come interfacciarsi con delle istituzioni regionali uscite rafforzate - anche nei confronti delle istituzioni statali - dalla riforma del titolo V della Costituzione del 2001.
Al di là degli aspetti di competenza politico-istituzionale, della capacità di drafting legislativo e regolamentare, della capacità relazionale in contesti sempre più frammentati di multilevel governance, quello che la suddivisione dei piani di attività richiede al lobbista, è a mio avviso, una assoluta flessibilità nell’approcciare le medesime questioni su piani legislativi e regolamentari diversi, integrabili e sovrapponibili.


Dopo aver letto il suo libro, si ha l'impressione che ad un alto interesse dal punto di vista della ricerca non corrisponda un altrettanto elevato interesse mediatico. Perché?

Penso che parlare di lobby con cognizione di causa sia molto difficile per i mass media in Italia. Intendo dire che la letteratura scientifica sul tema - molto spesso divisa in approcci settoriali invece di prevedere forme di integrazione dei saperi -  non aiuta particolarmente gli operatori dei media a comprendere la realtà e la diffusione del fenomeno nel nostro Paese, a causa di un uso di formule e modelli astratti e poco comprensibili. D’altro canto, anche di recente, sono usciti libri di taglio molto divulgativo sul lobbismo, che, tuttavia,  restituiscono una versione estremamente semplicistica del fenomeno,  secondo cui ogni forma di relazione pubblica  è lobby. Astraendo da un lato, banalizzando  dall’altro non si aiuta chi ha il compito di trasmettere informazioni corrette e documentate all’opinione pubblica. Inoltre, non aiuta certo la valenza negativa applicata, nel corso degli ultimi due decenni di scandali politici, al termine “lobby”: ad ogni distrazione e non idonea destinazione di fondi pubblici, a tutte le forme di corruzione, inefficienza, spreco, ma anche ad ogni esercizio di potere di veto nel rinnovamento del sistema politico bastava pronunciare la parola “lobby” per individuare immediatamente un oscuro responsabile. In realtà, la questione potrebbe essere portata all’attenzione dell’opinione pubblica in maniera più completa, segnalando come in assenza di regole di comportamento tra politica e gruppi di pressione, entrambe le tipologie di soggetti agiranno seguendo una logica particolaristica e non individuando l’interesse generale o il bene collettivo, ma soltanto il proprio. Garantendo mediante una disciplina legislativa la trasparenza necessaria, sarà compito dei cittadini verificare la correttezza dei rapporti tra rappresentanti politici e rappresentanti di interessi. Mi sembra il modello più idoneo per porre sotto il controllo democratico dei cittadini l’uso del potere di questi due gruppi di soggetti. 
[Parte 3 di 4 - Continua domani]