Genere e potere. Le "quote rosa" sono una soluzione reale?

foto: www.eige.europa.eu
Bruxelles (Belgio) - Il 40% di donne nei board delle aziende statali entro il 2018 e delle società quotate in borsa entro il 2020. Era questo l'obiettivo di una direttiva adottata dalla Commissione europea a novembre, quando Viviane Reding – Commissario alla giustizia – ed Olli Rehn – Commissario europeo per gli Affari economici e monetari – lo avevano annunciato in una conferenza stampa piena di enfasi. Forse anche troppo.
Due giorni fa, il dibattito organizzato al Parlamento Europeo in occasione della Giornata Internazionale della donna “Women’s Responses to the Crisis” ha riacceso il dibattito: sono davvero le quote di genere (o “quote rosa”, come sono da sempre definite in Italia) lo strumento migliore per arrivare ad una reale eguaglianza di genere?
Secondo i dati forniti dalla Strategia Europea per la parità tra uomini e donne (2010-2015) , il gender pay gap – la differenza retributiva tra uomini e donne (qui un articolo esplicativo da ingenere.it) – negli Stati Membri è in media del 16%, con picchi minimi (intorno al 10%) in paesi come l'Italia, la Polonia o la Romania e massimi (intorno al 20%) in paesi come la Grecia, la Germania o la Finlandia. Ciò si traduce sia in una minor retribuzione durante l'età lavorativa che in una pensione più bassa, esponendo le donne ad un rischio di povertà maggiore (nel 2011, il 23% delle donne sopra i 65 anni contro il 17% degli uomini).
Divario che viene però ribaltato quando si parla di genere ed istruzione, dove a raggiungere risultati migliori sono le donne, con l'82% che riesce a terminare la scuola secondaria superiore (contro il 77% degli uomini) così come l'istruzione universitaria, dove il 60% dei laureati è donna.
Tra i parlamentari europei il dibattito è aperto. C'è chi – come Elisabeth Morin-Chartier (Partito Popolare Europeo) vicepresidente del Comitato Europeo per i diritti delle donne e l'uguaglianza di genere – definisce le quote come un “male necessario” e chi, come il ministro degli Esteri tedesco Guido Westerwelle, ha affermato la contrarietà del suo paese a tale direttiva, sostenendo come la Germania «dovrebbe lavorare attivamente contro di essa».
Ampio, comunque, il fronte degli “euroscettici”, che evidenziano come l'imposizione della normativa proposta da Vivian Reding non dia beneficio alcuno alle donne. «È un fatto che siano necessarie più donne, ma non possiamo semplicemente catapultarle all'interno di posizioni non-dirigenziali» ha detto ad EurActiv la britannica Marina Yannakoudakis, appartenente al gruppo dei Conservatori e Riformisti europei.
Oltre a ritenere «più importante assicurare uguali opportunità» Dalia Grybauskaité (qui l'intervista di EurActiv), presidente della Lituania ed ex Commissaria europea, ha evidenziato come la questione debba tornare ad essere discussa su un piano nazionale, dipendendo infatti «dalle specifiche situazioni di ogni paese».
Inoltre, secondo una ricerca dell'Eurobarometro più di un terzo della popolazione europea (38%) vede nel divario retributivo la più importante disuguaglianza di genere, aggravata dalla crisi economica.  
Genere e potere è inoltre l'argomento al centro di un interessante articolo di Joseph Nye che, in un'ottica più generale rispetto alla percentuale di donne nei board o al gender pay gap si chiede se – e come – il genere influisca realmente sulla leadership. «Uno studio sui 1.941 governanti di paesi indipendenti durante il ventesimo secolo» - scrive Nye - «ha trovato solo 27 donne, di cui circa la metà salite al potere come vedove o figlie di governanti uomini. Meno dell'1% dei governanti del ventesimo secolo erano donne che hanno preso il potere per proprio conto».
Le “quote di genere” - collegando così Nye al dibattito europeo – sono davvero la risposta all'eguaglianza tra uomini e donne o, come dicono gli scettici, questo è solo un metodo per chiudere il discorso senza risolverlo realmente? In ultima analisi, può una imposizione di legge modificare una questione che è anche – e soprattutto – culturale?