Granai di guerra. L'errore lessicale tra welfare e warfare

L'Italia, a mio avviso, deve essere nel mondo portatrice di pace: si svuotino gli arsenali di guerra, sorgente di morte, si colmino i granai, sorgente di vita per milioni di creature umane che lottano contro la fame. Il nostro popolo generoso si è sempre sentito fratello a tutti i popoli della terra. Questa la strada, la strada della pace che noi dobbiamo seguire.
 [Dal giuramento e messaggio del Presidente della Repubblica Sandro Pertini. Seduta comune di Camera e Senato del 9 luglio 1978]

Roma - Nell'ultima puntata di PresaDiretta, Riccardo Iacona è andato ad intervistare Pierre Sprey, progettista dell'F-16, il quale ha dettagliato quanto l'antimilitarismo ed il pacifismo italiano denunciano da tempo: i “famigerati” F-35 di cui in campagna elettorale tutti dicono di volersi disfare (ma che solo Radicali e Italia dei Valori hanno tentato di contrastare in Parlamento) hanno una stabilità ed una sicurezza minori anche a confronto di un aeroplanino di carta. 

Dietro gli aerei, però, si muove tutto il sistema della spesa militare, “l'invariata spesa asociale” che illustra il Libro bianco sulle spese militari 2012  realizzato dalla campagna Sbilanciamoci!

La scelta di aver partecipato al programma per questi velivoli – il cui costo è passato dai 62 milioni di dollari delle previsioni ai 170 del gennaio 2011 – come semplice sub-fornitore della statunitense Lockheed Martin, ha messo l'Italia (e Finmeccanica, braccio del nostro reale ministero degli Esteri, composto dalle poche grandi imprese ad avere mercato internazionale) ai margini della realizzazione dell'Airbus, considerato il principale programma industriale e tecnologico sviluppato dall'aeronautica civile in Europa, dando però una chiave di lettura ben definita sul ruolo che il nostro sistema politico vuol dare al Paese.
In merito agli F-35, inoltre, è interessante notare come John McCain – non certo una colomba – abbia rivisto la propria posizione definendo il progetto uno «scandalo» e una «tragedia». Delle due l'una: o i falchi statunitensi sono più intelligenti delle colombe italiane – o magari meno legati al potere della lobby militare – oppure l'essere stato in guerra, al contrario dei nostri politici, rende più realisti.
Il problema non è tanto l'acquisto di questi velivoli quanto il paradigma che ormai questi rappresentano, dietro al quale si nasconde la visione della politica militare (e, per riflesso, di pace) italiana e del ruolo del nostro paese sullo scenario internazionale.

L'errore lessicale. Sanità, istruzione, pensioni. Sono solo tre delle voci che hanno subito tagli per effetto della crisi economico-finanziaria dal 2008, da quando la spesa sociale è scesa di otto volte in cinque anni, passando da 1.600 milioni di euro della fase iniziale della crisi in Italia a meno di 200 milioni quest'anno. Un chiaro segnale del disinteresse verso lo stato sociale degli ultimi governi in favore del comparto militare, nel quale non si è registrato alcun effetto di crisi.

Fonte: "Libro nero sul Welfare Italiano" realizzato dalle campagne I diritti alzano la voce e Sbilanciamoci!

Questa situazione porta a chiedersi se non vi sia sempre stato un errore – lessicale prima ancora che politico – nella lettura dell'azione dei governi della Repubblica Italiana, cioè che il cosiddetto welfare state non sia mai realmente esistito se non sulla carta, sostituito da un sistema di “stato perpetuo di guerra”, un warfare state che, nel mondo, viene finanziato ogni anno con 1.600 miliardi di dollari.
Sarebbe bastato prendere il 10% di questa cifra – come evidenzia Giulio Marcon, portavoce della campagna Sbilanciamoci! nel Libro bianco sulle spese militari – per liberare «risorse necessarie a fermare la speculazione in Grecia», salvando «tempestivamente il paese dal crack finanziario, senza ulteriori conseguenze per l'Europa e l'economia mondiale». Cifre che non influiscono solo sul comparto militare propriamente detto, accreditando l'idea secondo la quale la reale motivazione delle guerre degli ultimi vent'anni sia stata «tenere fiorente l'industria e il mercato delle armi, legittimare il potere della casta politico-militare, consolidare la costruzione di un sostanziale unipolarismo geopolitico incentrato sul ruolo della Nato». Tutto ciò in un contesto che – nell'ambito europeo nel quale è più sensato inserire il sistema militare e produttivo italiano dato il peso che le istituzioni continentalie hanno sulle legislazioni nazionali - vede l'impiego di circa 7 milioni di soldati a fronte del milione e mezzo che gli Stati Uniti potrebbero mandare in giro ad esportare la democrazia. Quest'ultimo, però, non è il frutto della somma degli eserciti dei 50 stati della federazione statunitense come invece è la situazione europea che, dotandosi di un esercito unico – cosa che comporterebbe una sostanziale modifica dell'architettura istituzionale europea – porterebbe ad un risparmio di 100-150 miliardi di euro.

È proprio sul piano sovranazionale che bisogna inquadrare il sistema di warfare italiano. Nell'ambito della produzione bellica europea, le imprese stanno sempre più creando mercati – pensati più dal punto di vista economico-produttivo che non da quello etico - là dove forte è la presenza di fonti energetiche. È il caso del giro di valzer tra ribelli e regimi della Primavera Araba denunciato da Amnesty International, scandalizzata dalla violazione dei diritti umani in un commercio (data la poca trasparenza e l'eticità del prodotto venduto sarebbe più adeguato definire anche questo come traffico) che è di per sé una violazione di tali diritti e che quella che il settimanale tedesco Der Spiegel ha chiamato “Dottrina Merkel” (qui un articolo sull'argomento in italiano) - cioè la vendita di armi senza tener conto del “curriculum umanitario” dell'acquirente - non fa che aumentare. Comportamento, questo, in linea con quello dei cinque Stati membri del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite che, come ricordava Eduardo Galeano qualche anno fa, oltre ad essere i cinque paesi detentori dell'”esercizio della pace mondiale” sono anche i cinque più importanti fabbricanti di armi del mondo.

Il Warfare State bipartisan. Tornando al caso italiano, per capire dove nasce l'errore lessicale – chiamare welfare ciò che è in realtà sempre stato un warfare state – bisogna tornare indietro nel tempo. Nell'interessante excursus storico realizzato da Nascia e Pianta ed inserito nel Libro bianco [pp.14-39], si evidenzia come la Repubblica Italiana veda decuplicare la spesa militare, passando dagli 1,5 milioni di lire per abitante del 1951 ai 16 milioni di lire del 2007. Poco meno di quanto aumenta la spesa per sanità, scuole e pensioni, che passa dai 70.000 miliardi del 1950 a più di 900.000 miliardi del 2007.

Tabella tratta da:”La spesa militare in Italia 1948-2008” di Leopoldo Nascia e Mario Pianta (Libro bianco sulle spese militari 2012).
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Se gli investimenti nel settore militare avevano una loro più o meno comprensibile logica sotto i governi De Gasperi della prima fase della ricostruzione, dove l'adesione al Patto Atlantico comportava la necessità – politica - di rappresentare una zona cuscinetto tra i due blocchi anche sul piano della produzione bellica, con la spesa militare che assorbe quasi il 5% del Prodotto Interno Lordo, si nota come il settore gravi sull'economia indipendentemente dal colore politico del governo. Ciò persisterà – in parallelo comunque con la più importante fase di crescita economica nazionale – anche durante i governi di centro-sinistra e le proteste del '68. Saranno il “Piano Solo” ed il tentato golpe Borghese a far conoscere per primi all'opinione pubblica gli intrecci tra potere militare e potere politico.

Le armi – comprese quelle nucleari, come i Cruise della base americana a Comiso – assumono un ruolo preponderante durante la guerra fredda, dove un terzo della spesa militare è impiegato in armamenti e dove il “pentapartito” si trova a fare i conti con una opposizione forse inaspettata: quella società civile riunita, almeno in Sicilia, intorno ad altissime personalità di quel tempo come il giornalista Giuseppe Fava o l'allora segretario regionale del Partito Comunista Pio La Torre – entrambi uccisi da mano mafiosa - e che oggi combatte, a quelle stesse latitudini, contro il Muos.
Quella stessa società civile che aveva sperato di uscire dalla guerra fredda con un'Italia divenuta sì snodo fondamentale sullo scenario internazionale, ma attraverso un ruolo di paese di pace, così come la riduzione del 12% di spese militari (che si attestano a quota 37.000 miliardi di lire) aveva fatto credere. La partecipazione alla Prima Guerra del Golfo – il primo conflitto internazionale a cui partecipa l'Italia dopo quelle mondiali – darà però ben altro indirizzo allo sviluppo del Paese.
I missili sulla Serbia del governo D'Alema traghettano l'Italia e la spesa militare nel nuovo millennio, dove la spesa sociale diminuisce e quella militare arriva a 40.000 miliardi di lire (a prezzi 2007).

  Fonte: "Le spese militari nel mondo", Sergio Andreis, Libro bianco sulle spese militari 2012

La tassa occulta. 1630 miliardi di dollari è, secondo lo Stockholm International Peace Research Institute (Sipri) – che si occupa di ricerche nel campo dei conflitti e della cooperazione – la spesa militare al tempo della crisi, con un aumento dell'1,3% tra 2009 e 2010. Importante, in questo aumento, è il ruolo della corsa agli armamenti di nuove potenze regionali (Cina, Russia, India, Sudafrica, Brasile e Turchia), con dieci paesi a detenere il 75% della spesa mondiale per armamenti nel 2010. In testa, con il 43%, gli Stati Uniti dei droni e delle “uccisioni chirurgiche a distanza”. Per l'Italia, attestatasi al decimo posto con una spesa di 37 miliardi di dollari, i dati sono però stimati, in quanto questi non sono stati forniti al Sipri sia per la peculiarità di ripartire tali spese tra il ministero della Difesa, quello dello Sviluppo Economico o quello dell'Economia.
Nonostante i tagli annunciati – 606 milioni di euro nel 2013, 786 l'anno prossimo – la Legge di Stabilità 2012 ha previsto 300 milioni per le Fregate Europee Multimissione (Fremm, che verranno consegnate nel 2019 per una spesa totale di 5,6 miliardi) ed altri 100 milioni – a salire nei prossimi anni – per il programma aeronautico Efa, in un sistema che porta altri 785 milioni di euro nel bilancio della Difesa, per la quale sono stati stanziati nel 2012 circa 20 milioni di euro, con un aumento vicino al 3,8% rispetto allo scorso anno.
Tra le spese è bene evidenziare l'incidenza del personale, dove i comandanti hanno superato i comandati e dove – evidenzia Massimo Paolicelli sul Libro bianco - si registra il doppio dei marescialli dei carabinieri di quanto sarebbe necessario. In un periodo storico in cui è di moda parlare di “sprechi” e “caste”, la Legge di Stabilità prevede per questi – ufficiali e sottufficiali – la possibilità di riconvertirsi al mondo civile, ad esempio con trasferimenti alle amministrazioni pubbliche, senza però alcun incentivo.

 Fonte: "Le spese militari nel mondo", Sergio Andreis, Libro bianco sulle spese militari 2012

Storia e cifre che portano dunque a chiedersi se quel ripudio della guerra non sia stato un semplice pro-forma ad opera dell'Assemblea Costituente uscita dalle elezioni del 2 giugno 1946. Quel che è sicuro è che oggi quell'articolo – o almeno l'intento di quell'articolo – rappresenta una delle più grosse ipocrisie del nostro sistema istituzionale.
7.411 militari autorizzati in 31 missioni; 50 milioni investiti nel contrasto ai pirati nel Corno d'Africa con le operazioni Atlanta (Unione Europea) e Ocean Shield (Nato); altri 20 investiti in Active Endeavour, la campagna con la quale la Nato pattuglia il Mediterraneo Orientale; altri 10 per l'assistenza, il supporto e la formazione in Libia oltre alle ingenti somme che spendiamo per le operazioni nei Balcani (quasi 100 milioni), in Libano (poco più di 157 milioni) e Afghanistan (748 milioni) per un totale di 1.547 milioni previsti per il finanziamento delle missioni militari italiane all'estero. Cifra utilizzata per lo più per le operazioni militari o per rendere meno pesanti i tagli al bilancio della Difesa. Solo l'1,5% di questa cifra è invece realmente utilizzato per la cooperazione allo sviluppo. Se a questa infima percentuale – che ha però un peso politico ed etico ben più importante – aggiungiamo il taglio ai fondi per il servizio sociale, passati in pochi anni da 300 a 68 milioni, abbiamo il quadro di una situazione assolutamente certa: oltre ad essere uno stati in guerra, l'Italia è uno stato di guerra.

I taxi di Enrico Mattei. Dopo l'11 disatteso, un'altra cifra interessante è il 40, come la percentuale che – secondo il Sipri – corrisponde all'incidenza della corruzione nel settore sulla corruzione totale, in un sistema «perfettamente idoneo alla corruzione per via non solo della segretezza che vincola i contratti (sicurezza nazionale), ma per l'ingente quantità di denaro che caratterizza questo commercio» e nel quale l'alleanza tra sistema militare, economico e politico si fa sempre più stretta. Basti considerare come alcuni dei più recenti scandali esplosi in Italia – Bisignani, Lavitola, Mokbel, Tarantini in rigoroso ordine alfabetico – vedano un filone legato a Finmeccanica, controllata per il 32% dal settore pubblico e dunque legata a doppio filo alla politica sia sul fronte interno che internazionale. Proprio per il ruolo giocato sullo scacchiere internazionale Finmeccanica – insieme ad un altro dei grandi colossi nazionali, l'Eni di Scaroni, in queste settimane coinvolto nello scandalo corruzione in Algeria http://www.infooggi.it/articolo/eni-saipem-per-i-pm-tangenti-finite-in-italia/37041/) – è da considerare quasi come un vero e proprio ministero degli Esteri, riproponendo quella che fu l'opera (geo)politico-imprenditoriale di Enrico Mattei.

Advocacy antimilitarista. Un ruolo politico del commercio d'armi più che occupazionale. Nonostante l'industria continui a macinare profitti, in trent'anni i posti di lavoro del settore italiano sono diminuiti, passando dai 579.000 del 1980 ai 458.700 del 2010. Questo segue le stesse dinamiche di altri settori economici caratterizzati da fusioni in grandi agglomerati produttivi e delocalizzazioni verso paesi a più o meno avviato sviluppo con il quale – sfruttando al massimo il gioco delle controllate e delle controllanti – l'intero sistema diventa ancora meno trasparente.

Diventa dunque di fondamentale importanza – come trent'anni fa contro i missili di Comiso, come oggi contro il Muos – il ruolo della società civile che non può più limitarsi a lasciare questi discorsi ai soli pacifisti o antimilitaristi. Deve, invece, essere un lavoro di vera e propria advocacy che (ri)porti nell'agenda mediatico-politica nazionale ed europea concetti come riconversione dell'industria bellica, riduzione delle spese militari o «disarmo dell'economia». Secondo una ricerca dell'Università del Massachussets, infatti, «se investiamo un miliardo di dollari nella difesa abbiamo 11.000 nuovi posti di lavoro; 17.000 se lo impieghiamo nelle energie rinnovabili e 29.000 nel settore dell'educazione». Data la crisi, un ottimo incentivo per disinvestire nella guerra.