Il ricatto di Mancino e i dubbi sullo scontro Napolitano-Procura di Palermo

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Roma – Ho bisogno di aiuto. E lo dico senza alcuna vergogna. Ho bisogno che qualcuno mi aiuti a capire come funziona il sistema che tiene in equilibrio il potere istituzionale italiano. Perché io avevo sempre pensato che il Presidente della Repubblica avesse un determinato ruolo nel nostro ordinamento.

Adesso, invece, ho scoperto che un semplice ex ministro dalla memoria corta ed indagato per falsa testimonianza[1] può permettersi il lusso di trattare quella che dai libri di diritto rimane la più alta figura istituzionale a mo' di maggiordomo, imponendogli – dietro un non troppo velato ricatto – il suo volere. Come chiamare, se non “ricatto”, quella considerazione che Nicola Mancino fa al telefono con il magistrato Loris D'Ambrosio – tra i principali consiglieri di Giorgio Napolitano – denunciando di essere rimasto solo e, come tale, meritevole di protezione in quanto, in caso contrario «potrebbe chiamare in causa altre persone»[2]?

Un'altra cosa che non capisco è se questo potere che si arroga Mancino dipenda dal caso particolare o dal poco rispetto di alcuni esponenti politici verso le istituzioni. Mi spiego meglio: è fatto storico che le istituzioni di questo paese siano state utilizzate da più di un loro esponente per scopi che di istituzionale avevano ben poco, ma forse – come scriveva qualche giorno fa Valter Rizzo sul Fatto Quotidiano – il problema non è nelle istituzioni in quanto tali, ma negli individui chiamati a rappresentarle.
«sono personalmente convinto» - scriveva Rizzo[3] - «che entrambi [gli ex presidenti Einaudi e Pertini, ndr], di fronte a telefonate come quelle di Mancino avrebbero attaccato il telefono, mandando l’interlocutore a farsi benedire. Perché l’attuale inquilino del Quirinale non l’ha fatto?»

Veniamo così al punto centrale dello scontro tra Giorgio Napolitano e la Procura di Palermo, le intercettazioni. Ed anche qui arrivano i dubbi. Innanzitutto sulla ricostruzione fatta dal Quirinale, laddove si scomodano predecessori – Luigi Einaudi, appunto – a futura memoria, per evitare che possano crearsi pericolosi precedenti «grazie ai quali accada o sembri accadere che egli [Napolitano, ndr] non trasmetta al suo successore immuni da qualsiasi incrinatura le facoltà che la Costituzione gli attribuisce», come si legge nella nota ufficiale emessa.
Ragioniamoci un attimo: se io parlo al telefono non posso sapere se il mio interlocutore è intercettato o meno.
Se ciò avviene, cioè se parlo con qualcuno il cui telefono è posto sotto intercettazione come nel caso del telefono dell'ex ministro dell'Interno, logica vuole che quello che dirò entrerà automaticamente nel materiale intercettato, indipendentemente dagli argomenti della telefonata. Sempre secondo logica, dunque, intercettare il sottoscritto o l'inquilino del Quirinale è «un fatto imprevedibile», come lo ha definito il procuratore capo di Palermo Francesco Messineo. “Intercettazione indiretta”, si chiama.

A questo punto qualcuno potrà obiettare che il problema reale riguarda la distruzione delle intercettazioni medesime, stanti l'articolo 90 della Costituzione e l'articolo 7 della legge numero 219 del 5 giugno 1989. Ma allora per quale motivo la stessa irritazione Napolitano non l'ha mostrata – come ha scritto Giuseppe Caporale su Repubblica[4] – anche nel 2009, quando il Raggruppamento operativo speciale di Firenze ha ascoltato una telefonata di Napolitano a Guido Bertolaso, intercettato nell'ambito dell'inchiesta sul G8 alla Maddalena. Nelle due telefonate Napolitano chiede notizie delle vittime ed organizza la sua doppia visita ne L'Aquila del dopo terremoto. «Le intercettazioni di Napolitano tuttora sono contenute in un cdrom che non è stato mai formalmente sbobinato, ma che è comunque a disposizione delle parti», scrive Caporale.

Che forse quelle intercettazioni non abbiano solleticato i nervi dell'inquilino del Quirinale perché in quelle due telefonate Napolitano fa buona impressione mentre in quelle di Palermo no? Le intercettazioni fiorentine non hanno poi avuto alcuna rilevanza penale, così come quelle palermitane, stando a quanto riferito ai mezzi di informazione da Messineo ed Ingroia. Allora perché questo diverso trattamento?
Comportandosi in maniera così stizzita, il Presidente della Repubblica non fa altro che alimentare l'ipotesi secondo la quale nelle conversazioni con Mancino ci siano delle cose “losche” - seppur irrilevanti a fini penali - delle quali è bene tenere all'oscuro l'opinione pubblica. Ipotesi che, naturalmente, in questo momento non può essere né confermata né smentita. Non vorrei che alla fine avesse davvero ragione Salvatore Borsellino, che ci sia cioè bisogno di «difendere i magistrati vivi, che potrebbero essere i prossimi ad essere uccisi»[5]. Antonio Ingroia, intanto, sono già riusciti a toglierlo dalle indagini sulla trattativa, avendo ormai dato per certo il suo prossimo impiego – annuale - in Guatemala[6].

Non vorrei, infine, che questo lavoro ai fianchi di una parte delle istituzioni verso il pool di Palermo sia una nuova edizione di quel vecchio tentativo di frenare quello stesso gruppo di magistrati di quando a farne parte era Giovanni Falcone, il cui lavoro veniva spesso accusato di crear danno all'economia siciliana, dove al posto dell'economia oggi c'è il sistema degli equilibri istituzionali.

Note
[1] Mafia: trattativa; Mancino indagato per falsa testimonianza, agenzia Ansa, 10 giugno 2012;
[2] “Napolincino” il negoziatore di Adriana Stazio, infiltrato.it, 18 giugno 2012;
[3] Presidente Napolitano, bastava attaccare il telefono di Domenico Valter Rizzo, Il Fatto Quotidiano, 18 luglio 2012;
[4] Spunta un'altra registrazione con Bertolaso di Giuseppe Caporale, La Repubblica, 17 luglio 2012;
[5] Salvatore Borsellino: “Difendere i magistrati vivi, che potrebbero essere i prossimi ad essere uccisi!”, antimafiaduemila.com, 16 luglio 2012;
[6] Ingroia a tutto campo. "Io, l'Onu e la trattativa di Matteo Pucciarelli, La Repubblica, 22 luglio 2012