Italia, il mercato rifugio è ancora quello delle armi

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Roma, 27 maggio 2012 - Seppur con tre settimane di ritardo rispetto ai tempi imposti dalla legge – che fissa la scadenza non oltre il 31 marzo - il governo italiano ha finalmente reso noto il “Rapporto del Presidente del Consiglio sui lineamenti di politica del Governo in materia di esportazione, importazione e transito dei materiali di armamento[1]” relativo all'anno 2011, cioè il documento riassuntivo – dunque assolutamente non esaustivo - dei volumi prodotti dai vari Ministeri interessati alle autorizzazioni alla vendita di armamenti italiani. Avere tali dati “spalmati” nei bilanci di vari ministeri, peraltro, serve anche per rendere più difficoltoso – come evidenzia il giornalista e Peace Researcher Antonio Mazzeo nel video allegato – capire quanto effettivamente l'Italia spenda per gli armamenti.
Il dato generale, che vede un incremento del 5,28% del valore delle autorizzazioni alle esportazioni, conferma ancora una volta come il mercato delle armi, legale o illegale che sia, rimane insensibile alla crisi economica.

Andando ad analizzare i dati si intensifica, per quanto riguarda i dati di competenza della legge 185/90 (“Nuove norme sul controllo dell'esportazione, importazione e transito dei materiali di armamento[2]”), l'appoggio bancario alla vendita estera dei nostri sistemi d'armi, cioè la concessione di conti correnti da utilizzare per il pagamento delle forniture, per un totale di quattro miliardi di euro, di cui 2,5 relativi alla voce “esportazione” - definitiva o temporanea che sia – ed il restante miliardo e mezzo relativo alle importazioni. 113 milioni di euro, inoltre, sono finiti nelle tasche degli istituti intermediari, la cui tabella riassuntiva è però sparita dal report così come la tabella 15, che riporta gli armamenti venduti ai singoli Paesi. Una tabella con la quale, spiega Francesco Vignarca della Rete per il Disarmo e giornalista di Altreconomia, qualche anno fa è stato possibile bloccare le vendite di elicotteri all'India, la quale li avrebbe poi rivenduti alla Birmania, paese sotto embargo.
Valori che vengono commentati con soddisfazione dal Ministero dell'Economia, per il quale nel 2011 si è registrato un «trend positivo rispetto al 2010, con un incremento del valore complessivo autorizzato pari a circa il 14%».
Sarebbe il caso, forse, di ricordare al dicastero che per quanto in questo periodo di crisi sia necessario racimolare denaro dalle più disparate – e disperate – situazioni si sta comunque parlando di commercio d'armi, non esattamente caramelle.

Prese singolarmente, la banca più “armata” è la Deutsche Bank, che lo scorso anno ha prodotto 345 autorizzazioni su 881 per un totale di 665 milioni di euro (in calo rispetto ai dati relativi all'anno 2010, quando si attestava ad 836 milioni). La banca tedesca è operatore principale anche per quanto riguarda le esportazioni temporanee, passate per i suoi conti correnti in sei casi su dieci.

Guardando invece i dati relativi ai gruppi bancari, il più armato è ancora una volta quello formato dal colosso francese BNP Paribas insieme alla controllata BNL, con 96 e 57 autorizzazioni ciascuna ed importi rispettivamente di 491 e 223 milioni di euro. Guadagni a nove cifre anche per la Barclays Bank, con un importo di 185 milioni e Credit Agricole, che ha ricavato dieci milioni di euro in meno del gruppo britannico.
Tra le banche battenti bandiera italiana, da segnalare l'assenza quasi totale di Intesa San Paolo, che nel 2011 ha prodotto un'unica autorizzazione per un importo di 4.000 euro. Il titolo di banca italiana più armata va invece ad Unicredit che, anche grazie alla divisione “Corporate” ha incassato 65 autorizzazioni, per un valore di circa 180 milioni di euro. Seguono la Cassa di Risparmio della Spezia con 73 autorizzazioni e 52 milioni incassati, la Banca Valsabbina (20 autorizzazioni per 67 milioni di euro) e il Banco di Brescia con 17 autorizzazioni, per un importo di 120 milioni di euro.
Il gruppo romano si attesta al primo posto anche per quanto riguarda i progetti intergovernativi – comprendenti ad esempio i cacciabombardieri Eurofighter usati dalla Nato per “pacificare” la Libia o i cacciabombardieri “multiruolo” F-35 del programma Joint Strike Fighter[3] – con una movimentazione di 968 milioni di euro su un totale di 1 miliardo e 400 milioni, seguita da Intesa San Paolo, impegnatasi per 180 milioni di euro ma che anche in questo caso sta uscendo da queste operazioni, anche se gli accordi intergovernativi – come spiega Valter Serrentino, responsabile dell'Unità Corporate Social Responsability – durano decenni, «per cui prima della nostra definitiva uscita passeranno ancora diversi anni».

Per quanto riguarda le aziende coinvolte nella produzione e vendita di armamenti, stando ai dati il mercato forte per l'Italia è quello aeronautico, nel quale poco meno della metà degli incassi – il 48% – è stato coperto dagli elicotteri Agusta e AgustaWestland, con un importo di 829 milioni di euro, dai 200 milioni derivanti dagli aerei dell'AleniaAermacchi e dalla motoristica per aerei, da cui l'Avio ha incassato 145 milioni.
Segue il comparto navale, con Orizzonte Sistemi Navali (la joint-venture tra Fincantieri e Selex Sistemi Integrati) che ha guadagnato 352 milioni di euro da una sola fornitura all'Algeria e Whitehead Alenia Sistemi Subacquei che di milioni ne ha incassati 95. Non certo spiccioli neanche gli incassi della Oto Melara, che ha incassato 124 milioni di euro frutto di 147 operazioni, della Fabbrica d'Armi Pietro Beretta né quelli della Fiocchi Munizioni, che hanno rispettivamente incassato 38 e 5 milioni di euro.
«Non traggano in inganno gli importi bassi» - scriveva Francesco Vignarca lo scorso 21 maggio su Altreconomia[4] - «una pistola, un fucile o un proiettile non costano come un elicottero ma il loro impatto in giro per il mondo può essere ancora più devastante».

Andando ad analizzare proprio l'impatto del nostro paese sulla geopolitica delle armi, il paese con il quale abbiamo realizzato più affari è l'Algeria di Abdelaziz Bouteflika, che da sola costituisce il 9,08% dell'intera voce esportazioni con 447, 52 milioni di euro, a cui fanno seguito i 395,3 milioni di Singapore (che copre il 7,5% delle autorizzazioni), l'India (259,4 milioni e quota del 5,26%), la Turchia (170 milioni, 3,2%) e l'Arabia Saudita (166 milioni e 3,1%).
In termini di macroaree, il flusso di armamenti più importante si è avuto verso l'Africa settentrionale ed il Vicino Medio Oriente, interessate da quasi un quarto dell'intero export-2011 (24,03%) e l'Asia, che copre poco più di un quinto dei nostri flussi con il 22,94%.
«Le autorizzazioni all'esportazione dirette verso i Paesi asiatici (Estremo Oriente)» - si legge nella relazione - «hanno registrato un significativo aumento rispetto al 2010 dovuto principalmente ad una sostenuta dinamica di esportazioni verso India e Singapore. Per quanto riguarda l'America Centro Meridionale, le autorizzazioni di operazioni definitive verso i Paesi latino-americani hanno visto un erto incremento con il Messico come principale acquirente». Messico che, come scriviamo da un po', è sottoposto ad una guerra tra i cartelli (e tra cartelli e governo) nella quale a fare la propria parte, da questa parte dell'oceano non è solo la 'ndrangheta calabrese, come scrive in un suo libro la giornalista messicana Cynthia Rodriguez[5].

L'analisi di Francesco Vignarca lamenta inoltre la parzialità ed incompletezza dei dati (la qualità del documento presentato è infatti peggiorata nel passaggio dal governo politico Berlusconi a quello tecnico di Mario Monti) essendo ripresi dall'unico documento attualmente disponibile, dal quale è ad esempio difficoltoso capire, al di là dei dati generali, alcuni aspetti fondamentali quando si parla di mercato delle armi, riassumibili nel “chi ha venduto cosa a chi?”.
La relazione prodotta accorpando i documenti presentati dai ministeri coinvolti, inoltre, dovrà essere messa a disposizione di deputati e senatori, cui la legge impone il ruolo di controllore sull'operato del governo. Ciò significa presentare un documento di oltre 2500 pagine a chi non ha né il tempo materiale per leggersi le tabelle – impegnati come sono a coprire tutta l'agenda degli organi di stampa con ospitate od interviste – né la possibilità di poter controllare “dato per dato”, come questo genere di controlli imporrebbe.

Tra pochi giorni inoltre, verranno sprecati altri dieci milioni di euro (stando almeno alla nota spese dello scorso anno) per la parata delle forze armate simbolo dei festeggiamenti per la nascita della Repubblica italiana del 2 giugno, quella stessa Repubblica che sarebbe fondata, costituzionalmente parlando, anche sul ripudio alla guerra (articolo 11) e, dunque, anche sul ripudio di tutto quell'indotto che proprio sui conflitti bellici fonda il proprio business. Scelta che rappresenta «uno schiaffo a chi perde il posto di lavoro e non arriva alla terza settimana del mese», come ha dichiarato Giulio Marcon, portavoce della Campagna “Sbilanciamoci!”[6]. Da segnalare infine, come chiede il governo ai cittadini – e come scriveva sabato scorso Flavio Lotti su globalist.it[7] – anche il tentativo di far passare l'aumento delle spese militari come “tagli”.

Note
[1] http://www.governo.it/Presidenza/UCPMA/Rapporto_2011/RAPPORTO_PCM_2011.pdf;
[2] http://www.governo.it/Presidenza/UCPMA/doc/legge185_90.pdf;
[3] Il programma Joint Strike Fighter: costi, problemi ed analisi della partecipazione italiana, Rete italiana per il Disarmo, 8 marzo 2012;
[4] In anteprima, la nuova lista delle banche armate italiane di Francesco Vignarca, Altreconomia-Rete italiana per il Disarmo, 21 maggio 2012;
[5] Contacto en Italia: security cooperation ties between Mexico and Italy, Flare Network, 28 febbraio 2011;
[6] 2 giugno: una parata inutile, costosa e retorica, sbilanciamoci.org, 2 maggio 2012;
[7] Difesa: spending review truccata, si spende di più di Flavio Lotti, globalist.it, 19 maggio 2012