Cosa Nuova. L'industria dei sequestri di persona

Roma – Seconda ed ultima tappa (la prima la trovate qui) sul modo in cui la 'ndrangheta è arrivata a Roma, influenzandone – insieme alle altre mafie, italiane e straniere – le bande criminali più o meno organizzate. Ieri ci siamo concentrati sulla prima fase, quella cioè relativa ai sequestri ed ai primi “contatti” con il mondo romano. Oggi invece ci occuperemo del passaggio successivo, quando cioè le 'ndrine iniziano ad avere una struttura per i sequestri di persona più strutturata, passo che ha permesso poi alla 'ndrangheta di diventare la principale organizzazione criminale italiana e tra le più importanti al mondo.

Il Raccordo (calabro)anulare. Quando la 'ndrangheta rapisce Paul Getty III nessuno – né il giornalismo, né gli inquirenti – ne capiscono l'importanza. D'altronde, è il pensiero generale, una banda che invia una lettera in cui chiede il pagamento del riscatto dove tutte le lettere “h” sono scritte nei posti sbagliati non può avere una struttura poi così organizzata alle spalle.
Eppure, in quegli anni – gli anni Settanta – di gruppi organizzati che si danno da fare nel campo dei sequestri ce ne sono parecchie. Se fossero tutti “cani sciolti”, probabilmente, a lungo andare inizierebbero a pestarsi i piedi. Nel solo triennio 1979-1981, nella capitale, sono quattordici i sequestrati che tornano liberi. Capita anche che nello stesso territorio vengano gestiti più sequestri contemporaneamente, come accade con la banda di Laudovino De Sanctis, detto Lallo Lo Zoppo, che però è davvero poco organizzata.

La prima volta che si inizia a parlare di 'ndrangheta nella capitale è l'estate del 1975, quando – nella notte tra il 29 e 30 giugno - viene rapito l'armatore Giuseppe D'Amico, erede di una dinastia del salernitano che faceva affari nella capitale già ai tempi del Papa Re. Dagli anni Trenta trasportano legname dalla Russia, anche se dalla loro dichiarazione dei redditi il business non sembra andare poi così bene. La 'ndrangheta, quando sequestra l'armatore – portandolo a bordo di una betoniera nella “fortezza aspromontana” - chiede inizialmente otto miliardi di lire, scontati quasi immediatamente fino alla comunque ragguardevole cifra di tre miliardi.
Alla fine ,secondo i giornali, la famiglia paga un miliardo di lire, anche se i D'Amico negano tutto. Sta di fatto che il 12 agosto Giuseppe D'Amico torna ad essere un uomo libero.
I giornali, in quei giorni, hanno iniziato a parlare di una “mafia” calabrese che sarebbe dietro al sequestro. Dicono ci sia addirittura Gerolamo Piromalli, detto “Momo”, uno dei capi assoluti di quella “mafia”. Interrogato dal capo della squadra Mobile, il dottor Elio Cioppa, Piromalli nega tutto, naturalmente.

Chi invece sembra esserci aver partecipato al sequestro “oltre ogni ragionevole dubbio” è Tiberio Cason, detto “il boss di Centocelle”. Gli inquirenti che stanno lavorando al caso D'Amico sono talmente convinti che ci sia lui dietro il rapimento che nel luglio 1978 accusano Francesco Pagano di concorso in sequestro di persona. Ma Pagano, a quel tempo, fa il direttore al carcere di Regina Coeli, lo stesso carcere in cui sarebbe detenuto Cason durante il periodo del sequestro. Secondo la ricostruzione dei magistrati di Vibo Valentia Cason sarebbe uscito – con il beneplacito di Pagano – compiuto il sequestro e poi sarebbe tornato tranquillamente in cella, come se nulla fosse.
La storia finisce con Pagano interrogato, inutilmente, per trenta ore (alle quali vanno annessi almeno un paio di anni di sospetti comunque non supportati da prove concrete) e Cason morto, insieme al fratello Lorenzo, il 4 novembre del 1983, quando vengono uccisi nell'area del Tuscolano. Tiberio Cason, peraltro, era già stato “avvertito” nei mesi precedenti, quando – come avviene oggi – era stato gambizzato, utilizzando così un metodo che non passa mai di moda. Come nel caso di Flavio Simmi[1] , peraltro noto dalle parti dell'antimafia per essere in rapporti non solo con il gruppo di Michele Senese[2] ma anche con i catanesi, in particolare con Francesco D'Agati, noto – tra le altre cose – per essere stato il cassiere dell'”ambasciatore romano di Cosa Nostra” Pippo Calò).

La famiglia Simmi, dunque, fa parte di quell'immenso indotto che permette alla criminalità organizzata di riciclare e reinvestire il denaro di provenienza illecita. Quel denaro che, ad esempio, ha permesso alla 'ndrina degli Alvaro di appropriarsi del prestigioso Café de Paris[3], compiendo di fatto l'intero processo di maturazione criminale che ha portato le 'ndrine dai tempi dell'”Anonima” e dei sequestri a quella dei contratti d'appalto legali passando attraverso la gestione, in compartecipazione con i cartelli messicani, di una vastissima parte del mercato della droga.


(7 – Continua)

Note
[1] Uomo ucciso a Roma, giallo sulla valigetta, TgCom24, 7 luglio 2011;
[2] http://senorbabylon.blogspot.com/2012/02/michele-senese-il-puparo-con-laccento.html;
[3] http://senorbabylon.blogspot.com/2012/02/roma-aperto-il-laboratorio-cosa-nuova_05.html