Anticorpi: Documentario sull'infiltrazione mafiosa nell'edilizia a Reggio Emilia


Non ci sono luoghi al riparo dalle infiltrazioni mafiose. Pensare il contrario induce inevitabilmente a "tragici risvegli". Come avvenuto in Emilia Romagna, la ricca regione del nord Italia convinta per la sua storia di avere gli anticorpi per opporsi al radicamento delle mafie. La culla della Resistenza italiana è costretta ora a fare i conti con gli effetti della presenza criminale, come avvenuto nella provincia di Reggio Emilia. Secondo un imprenditore edile il boom dell'edilizia che ha interessato negli anni duemila il territorio è stato alimentato per il 50% da denaro illecito. Una denuncia clamorosa smentita in modo netto e sdegnato dalle autorità. Eppure gli elementi per non prenderla in considerazione sono troppi ed emergono sempre più ora che la crisi sta colpendo duramente il settore. Ma sul riciclaggio non ci sono dati, le banche non hanno lanciato allarmi, le forze dell'ordine nemmeno. Nel silenzio generale sulle illegalità commesse dai palazzinari, diecimila metri cubi di cemento hanno eroso a tempo di record la campagna e spopolato i centri storici.

"Anticorpi" è la prima delle nove inchieste del progetto "Est - Cittadini contro le mafie" un osservatorio - promosso dall’Associazione Ilaria Alpi, da FLARE Network (braccio europeo di Libera, l’associazione contro le mafie di Don Luigi Ciotti) e da Crji (Romanian Centre for investigative Journalism)- che, sfruttando inchieste giornalistiche e denunce dei cittadini europei si pone l'obiettivo di consapevolizzare sia la cittadinanza, troppo spesso distratta da altre notizie, sia le istituzioni europee.
Tre sono i filoni di interesse del progetto: il riciclaggio di denaro derivante da attività illecite nel settore edilizio, le infiltrazioni nel nascente mercato dell'eolico nonché un'ampia riflessione sugli strumenti giuridici utili a contrastare tali infiltrazioni.

Le nove inchieste saranno visibili - oltre che sul sito del progetto - anche su RaiNews (e su Señor Babylon)

Giochi nel Mediterraneo

Sottotitolo: Guerra fredda in scala nei mari di Sicilia.

Questa potrebbe essere una spy-story perfetta: c'è la Central Intelligence Agency e ci sono i russi, ci sono traffichini collusi con la politica e con la mafia siciliana, ci sono i servizi segreti ed imprese troppo piccole per il lavoro che vogliono fare.
Sarebbe una spy-story perfetta, ma è solo capitalismo.
Da qualche giorno, grazie alle rivolte in Libia, l'opinione pubblica ha potuto riascoltare nomi probabilmente dimenticati come quelli dell'Eni (Ente Nazionale Idrocarburi) e di Gazprom, il colosso russo utilizzato in chiave (geo)politica da Putin e soci come ago della bilancia negli equilibri mondiali e dei quali nulla si dice quando – sovente – si parla dei rapporti del nostro paese con la “compagna” Russia, presi come siamo a guardare il dito (i rapporti personali Berlusconi-Putin) piuttosto che la luna (gli accordi economici e politici tra noi e loro).

Ci sono altri due nomi importanti in questa storia. Tanto importanti quanto sconosciuti.
Il 10 agosto del 2010 arriva sul tavolo dell'ex assessore all'Energia della Regione Sicilia Pier Carmelo Russo una lettera nella quale si chiede l'autorizzazione per poter raffinare in Sicilia qualcosa come cinque milioni di tonnellate di petrolio l'anno per almeno cinque anni. E questo solo come quantitativo minimo.
Nonostante ne vengano subito messe al corrente la questura di Palermo, la Guardia di Finanza ed il Copasir (Comitato Parlamentare per la Sicurezza della Repubblica), la richiesta è di quelle importanti e, per questo, da tenere in forte considerazione. Quei cinque milioni di tonnellate annue, infatti, rappresentano circa un quinto del consumo totale annuo dell'intero paese.
Con tali volumi di raffinazione, pertanto, ci si aspetterebbe che fossero grandi multinazionali del settore come le già citate Eni e Gazprom a firmare la richiesta.
Sono invece due società praticamente sconosciute a dirsi pronte a stoccare il “petrolio degli ayatollah”: la Ibercom, una srl spagnola con sede ad Albacete, e la Corum Anlage, svizzera di proprietà di tal Antonino Giuseppe De Salvo, nato a Monza e noto come “procacciatore d'affari” ed esperto di assegni a vuoto (ne ha infatti emessi ben sette in due anni, secondo la Camera di Commercio).
C'è un'altra stranezza in questa storia: gli investigatori, infatti, si chiedono come possa una società con capitale sociale di appena 100 mila euro gestire un affare da 15 milioni. È dunque quasi logico pensare che dietro alle due società ci sia qualcun altro.

How much? - La tratta delle schiave nel Terzo Millennio

Se le manifestazioni che domenica scorsa hanno portato più o meno un milione di persone in piazza non fossero state strumentalizzate in funzione anti-berlusconiana e se, allo stesso tempo, avessimo spostato l'obiettivo dalla collera verso l'individuo (Rubi, Nicole Minetti, etc etc) la cui unica finalità sembra(va) essere quella di trasformare la “chiamata alla dignità femminile” in una distinzione delle donne “perbene” dalle donne “per male” (come nelle intenzioni delle “notabili organizzatrici”) probabilmente non avremmo sprecato un'occasione irripetibile per focalizzare l'obiettivo su quella parte del fenomeno prostitutivo che non trova praticamente mai le prime pagine come la tratta, che continua a prescindere dalle frequentazioni di Arcore e che continuerà nel più totale silenzio anche dopo questa manifestazione (i cui effetti “rivoltosi”, comunque, sono ancora tutti da dimostrare).

Per iniziare questa storia, per andare a guardare cosa succede all'ombra delle “Arcore's Angels” dobbiamo spostarci e tornare indietro nel tempo.

Nel 1967 Pattaya è un piccolo villaggio di pescatori a più o meno 150 chilometri da Bangkok, capitale della Thailandia. È un piccolo villaggio di pescatori costituito da un centinaio di famiglie e nessuna costruzione in cemento.
Ma il piccolo villaggio di pescatori e nessuna costruzione in cemento, in quel 1967, ha un'immensa fortuna (se di “fortuna” si può parlare...), perché in quegli anni in Asia ci sono gli americani. E si sa, gli americani portano soldi, e la Thailandia ne viene letteralmente ricoperta: nascono infatti i programmi denominati “Rest and Recreation”, utili per far rilassare militari impegnati in lunghe guerre di posizione in zone come il Vietnam, la Cambogia, il Laos.
Il governo americano (tramite i propri responsabili delle forze armate presenti in loco) ed il governo thailandese si accordarono per un ingente numero di investimenti nel settore del turismo – cioè investimenti nel relax delle truppe americane – che portò nel primo anno ad un giro d'affari di 5 milioni di dollari. Cifra non certo alla portata della sola economia thailandese (ancor meno lo saranno i 20 milioni registrati nel 1970, a soli due anni dall'avvio del programma).
Ma, come ci insegna Naomi Klein nel libro “Shock Economy”, quando gli americani investono – come tutti i i paesi capital-colonialisti – fanno proposte che non si possono rifiutare. E la “proposta”, nel caso thailandese, prevedeva la più completa impunità per i soldati durante i periodi di soggiorno nel paese e, cosa ancora più importante, per i traffici più o meno legali di chi metteva i soldi.

Alemanno riscriva il Piano nomadi coi rom - intervista a Nazzareno Guarnieri (da Liberazione)

Nazzareno Guarnieri, Presidente Fedrazione Romanì
Nazzareno Guarnieri, presidente della Federazione Romanì, è combattivo: «Alemanno deve ridiscutere il Piano nomadi, siamo pronti a proteste clamorose». Per Guarnieri è indispensabile, insomma, mantenere alta l'attenzione sulle sofferenze dei rom costretti a vivere nei campi. La soluzione, però, non è «casa per tutti i rom bensì una politica dell'alloggio globale aperta a tutti che includa anche le famiglie rom che ne hanno diritto».

Il sindaco Gianni Alemanno propone di dare in affidamento i bambini rom che vivono in condizioni disagiate. E' un pericolo reale?

Il sindaco ripropone la vecchia favola dei rom che maltrattano i propri figli. Se pensiamo, è quello che accade anche alle famiglie italiane poverissime come la coppia di Bologna alla quale è morto un bambino. Non ci si chiede mai perché quei genitori vivono in condizioni disagiate, come non ci si chiede perché questi quattro bambini vivessero in una baracca. Gli sgomberi non eliminano il problema.


Quanto è importante l'incontro di Napolitano con i genitori dei bambini morti?

E' di immensa portata simbolica. Non era mai accaduto prima che una carica istituzionale così alta chiedesse chiaramente alloggi dignitosi per i rom. Da tempo chiediamo un incontro con il presidente della Repubblica per chiedergli un appoggio alla legge, non ancora approvata, sul riconoscimento della cultura romanì come minoranza linguistica in Italia. Attendiamo ancora una risposta, ma siamo fiduciosi.


Come Federazione Romanì aderirete alla manifestazione di protesta di giovedì?

Ancora non abbiamo preso una decisione, ma molto probabilmente aderiremo. In realtà noi vorremmo promuovere una mobilitazione di grosso impatto mediatico, vogliamo far capire che questa politica dei campi deve finire e che il Piano nomadi romano è semplicemente una truffa.


Eppure Alemanno ha nominato un delegato appartenente alla comunità rom, Najo Adzovic. Non è comunque un passo avanti?

Non abbiamo nulla contro Adzovic, ma chiaramente difende l'operato del sindaco senza conoscere a fondo i bisogni della comunità. Non è un caso che il capo del Coordinamento Rom di Roma, Bayram Rasimi, abbia lasciato il suo incarico in polemica con il Piano nomadi. Si era fidato delle promesse del Campidoglio, e quelle promesse non sono state mantenute. Ecco perché insceneremo una protesta clamorosa per poter parlare con Alemanno.

La solidarietà è razzista?


Se non fosse per l’alto senso macabro che la sequenza ha, si potrebbe quasi dire che il tempismo dell’ultimo pluri-omicidio avvenuto nella comunità rom è un esempio, lampante e sotto gli occhi di tutti, di quanto stabilito dal Parlamento Europeo nei giorni scorsi: il Porrajmos (cioè l’Olocausto di rom e sinti) non solo c’è stato durante il secondo conflitto mondiale, ma continua tutt’oggi.
E la morte (ma, come vedremo a breve, è più giusto parlare di omicidio) di Raul, Fernando, Patrizia e Sabatino (chiamato da alcune fonti Sebastian) nell’ennesimo rogo in un campo “abusivo” è lì a testimoniarlo.

Un tizzone lasciato in un braciere da mamma Elena – uscita per cercare da mangiare – si è trasformato in una tragedia. E mamma Elena e papà Erdei, oggi, devono anche sentirsi accusare di abbandono di minore.
Perché la legge punisce sempre il più debole, ed invece che colpire chi – istituzione statale e/o locale – permette e reitera comportamenti razzisti e discriminatori frutto, nella maggior parte dei casi, solo di ignoranza e convenienza polico-elettorale ma prendendosela con chi ricopre - per "convenzione sociale" - la parte del più debole. Di quelli "ai piani alti", al massimo, si chiedono le dimissioni.

L’ho scritto all’inizio: quest’ultima tragedia è un omicidio. Premeditato per giunta. Come dare altro nome ad una situazione – premeditata fin quasi nei minimi dettagli – in cui per racimolare voti si lascia che delle persone vivano nei c.d. “campi”, in condizioni che noi di certo non accetteremmo ma nelle quali lasciamo “gli altri” solo perché ci è stato insegnato che esistono delle popolazioni “buone” e delle popolazioni “cattive”, così come in queste ore – in un ambito completamente diverso come quello della strumentalizzazione della lotta per la dignità delle donne – alcune pseudo-intellettuali ci insegnano che esistono delle donne “perbene” e delle donne “per male”. Ma questa è un’altra storia…

In mezzo ci siamo noi. Noi con la nostra solidarietà ad intermittenza. Noi che ci ricordiamo delle persone “altre” solo quando ci sono delle tragedie e ci attiviamo mandando il messaggino o linkando la notizia su facebook tanto per dire “io c’ero”, “ho la coscienza apposto”.
È una solidarietà quasi borghese, oserei dire. Una solidarietà che tra un paio di giorni avremo già dimenticato, appena in tempo per prendercela con l’ennesima ragazzina “permale” di turno, senza spendere parola alcuna verso quel sistema che pretende da te non il tuo intelletto ma il tuo fisico, non la tua cultura ma il tuo saperti mettere in mostra più e meglio degli altri/delle altre.

La legge Tarzia è violenza sulle donne. Cronache dal X municipio

Questo è l'unico video che non fa riferimento alla contestazione di giovedì scorso a Roma, ma serve - a chi non avesse mai sentito parlare della c.d. "legge Tarzia" (me ne ero occupato in questo post) - per capire cosa le donne che sono scese in strada hanno contestato...


Roma - 3 febbraio 2011. Contestazione alla presenza di Olimpia Tarzia al X municipio.

intervista a Milva di "Zero violenza donne" durante la contestazione alla Consigliera regionale Olimpia Tarzia firmataria e promotrice della legge sui consultori

La sorellanza è un’arma: Appello per Pinar Selek libera!


Pinar Selek, femminista, sociologa, pacifista, antimilitarista, scrittrice e tra le fondatrici di Amargi, si trova ad affrontare di nuovo il rischio di un ergastolo in un processo per cui è stata già assolta due volte.
Il caso di Pinar Selek verrà quindi ancora una volta riesaminato, il 9 febbraio 2011, dalla 12° Corte dei crimini aggravati di Istanbul, a Besiktas.
Il sito per firmare la petizione entro il 9 Febbraio data in cui potrebbe riaprirsi il processo: http://www.ps-signup.de/index.php
Per avere ulteriori informazioni potete anche visitare il sito delle compagne francesi http://pinarselek.fr/
o scrivere a : solidarietapinarselek.italia@gmail.com
La sorellanza è un'arma, Libera Pinar!


VOGLIAMO GIUSTIZIA, PRENDIAMO POSIZIONE ACCANTO A PINAR SELEK

Questo è un appello urgente a tutte le donne, le lesbiche, i gruppi, associazioni e reti femministe da parte di Amargi Women’s Solidarity Cooperative.

Pinar Selek, femminista, sociologa, pacifista, antimilitarista, scrittrice e tra le fondatrici di Amargi, si trova ad affrontare di nuovo il rischio di un ergastolo in un processo per cui è stata già assolta due volte.

Come l’opinione pubblica in parte conosce già, è diventata un bersaglio a causa della sua ricerca sociologica condotta nel 1996, relativa alle condizioni del conflitto armato tra la Turchia e il Kurdistan e alle possibilità di riconciliazione. Condotta in detenzione preventiva, la ricerca le è stata sequestrata ed è stata pesantemente torturata per farle dire i nomi delle persone curde che aveva intervistato. Siccome si è rifiutata di dare alle autorità i nomi delle sue fonti, è stata arrestata. Mentre era già in carcere, il suo nome è stato collegato ad una esplosione avvenuta nel Bazar delle spezie di Istanbul e lei è accusata di aver preso parte a questa presunta cospirazione contro il governo. Durante il processo vennero smentite e annullate le false dichiarazioni ottenute torturando Pinar. Finalmente dopo due anni e mezzo Pinar Selek viene rilasciata. Tuttavia, anche se è stata assolta per ben due volte, la 9° Camera penale della Suprema Corte ha deciso di contestare per la seconda volta la sentenza di assoluzione e ha chiesto che Pinar Selek venga giudicata di nuovo chiedendo una pesante condanna a 36 anni di reclusione. L’Assemblea Penale Generale ha respinto l’obiezione del procuratore capo e ha inviato la causa alla 12° Corte dei crimini aggravati di Istanbul, che in passato aveva dato l’assoluzione.

Code di Lucertola:Documentario-inchiesta sui metodi e gli abusi della psichiatria di oggi. (di Valentina Giovanardi)

Qui il video della prima parte del documentario


Il 13 maggio 1978, venne approvata la legge 180, chiamata anche legge Basaglia, che mise fine all’esistenza dei manicomi in Italia.
E’ veramente scomparso il manicomio? L’istituzione che l’ha sostituito è qualcos’altro o è solo il maquillage della vecchia galera per matti?
Ancora oggi è possibile che un individuo venga strappato dalla propria quiete domestica e gettato a marcire, imbottito di farmaci, in qualche cantuccio materiato di disperazione e avulso dalla realtà? Quand’è che una vita non è più vita?
"Code di Lucertola" è un viaggio. Un viaggio al termine di una notte maledettamente attuale, un viaggio che prende le mosse da questi interrogativi e si dispiega attraverso storie, volti, corpi martoriati e ingabbiati, luoghi, versi scaturiti da quel che grida e dissente in noi, visioni di un abisso radicato nel nostro essere ancora uomini.

Ho sentito parlare dei manicomi per la prima volta da ragazzina, quando mi raccontarono dell’internamento di mia nonna nel manicomio di Imola. Una dottoressa ebbe il coraggio di dire a mia madre e alla sua famiglia che era meglio portarla via il prima possibile. Sono grata a quella dottoressa. Mia nonna non ha mai raccontato nulla e si è sempre tenuta stretta al suo dolore, nessuno ha mai parlato con lei, nessuno gli ha mai chiesto perché era infelice. Nel 2005, casualmente o inconsciamente calamitata, sono entrata anch’io nel manicomio di Imola ormai completamente abbandonato. Dentro il reparto 14, il reparto femminile più spaventoso e pericoloso, è cominciato il viaggio che mi ha portato, dopo tre anni, a Code di lucertola. Questo documentario è un po’ l’essenza di ciò che in questo viaggio ho trovato”. (Valentina Giovanardi)


Il manicomio non è un edificio, il manicomio è un criterio. Il criterio è questo: che il medico possa, sulla base di un giudizio sul pensiero di una persona, prenderla con la forza, portarla da qualche parte e imporle dei trattamenti. Non ci sarà più il manicomio quando ognuno potrà andare dal medico quando vuole, se vuole, e fare su consiglio del medico quello che gli pare
(Giorgio Antonucci)

Lo stupro non è un reato. Se porti una divisa...

Sottotitolo: la giustizia non fa parte di un sistema di potere

«Una sera di agosto, prima delle proteste del 13 - ha detto la ragazza - l'ispettore Addesso venne in camera mia mentre stavo dormendo, s'infilò nel letto e iniziò a toccarmi».
A dirlo, anzi a denunciarlo durante un processo qualche mese fa fu Joy, una ragazza nigeriana che, arrivata in Italia - come tante, come troppe - con l'illusione di un lavoro e poi finita nel giro dello sfruttamento e della prostituzione era per questo passata attraverso l'inferno dei Centri di Identificazione ed Espulsione, mentre i suoi aguzzini continuano a rimanere impuniti. D'altronde siamo pur sempre il paese in cui le vittime sono dipinte come carnefici ed i carnefici come eroi nazionali...

Quell'ispettore Addesso - Vittorio Addesso per essere precisi - in servizio presso il C.I.E. di via Corelli a Milano questa mattina ha "subito" il processo (con la formula del rito abbreviato) per quella violenza sessuale.
La sentenza non ha fatto altro che confermare due cose: a) che in questo paese i reati in divisa rimangono impuniti (e la lista diventa sempre più lunga, dalle finte molotov introdotte alla Diaz ai tantissimi pestaggi in carcere che in alcuni casi - comunque troppi - si trasformano in omicidi); b) che l'unica legge vigente in Italia è la legge del più forte. Cioè di chi indossa una divisa.
Perché Vittorio Addesso ha ottenuto un'assoluzione "con formula piena", per cui potrà riprovarci di nuovo, magari dietro la promessa di una riduzione del soggiorno al centro, la stessa promessa che aveva fatto a Joy.

La storia di Joy la potete leggere qui: http://senorbabylon.blogspot.com/2010/03/per-la-liberta-dinformazione-si-ma-di.html, per cui non sto a ripetervela.

Si fa un gran parlare della dignità delle donne italiane per il caso Ruby. Si fanno appelli, si promuovono - o quantomeno si cerca di promuovere - azioni collettive per fronteggiare l'idea di donna-oggetto che l'Italia sembra avere adottato come modello culturale, si va in televisione a chiedersi "se non ora quando?".