Il Gip dimentica di depositare gli atti. Scarcerati in nove



Catania, 10 ottobre 2011 – Erano stati condannati, in primo grado, a pene comprese tra i tre anni e quattro mesi e gli otto anni e otto mesi con l'accusa di mafia, estorsione e detenzione di armi il 21 giugno del 2010. Nei giorni scorsi la scarcerazione per decorrenza dei termini. «Ma miracoli» - dice Alfredo Gari, il giudice per le indagini preliminari a cui è stata affidata la sentenza - «non ne possiamo fare».

Già, perché questo non è un caso di “malagiustizia”. La colpa è infatti da attribuire proprio allo stesso Gari, che ha “semplicemente” dimenticato di depositare le motivazioni nei tempi previsti, rendendo così possibile la scarcerazione. Autoaccusatosi, il gip ci tiene a sottolineare come questa vicenda sia imputabile ai carichi di lavoro a cui sono sottoposti lui ed i colleghi, ricordando, comunque, come questa sia stata l'unica “defaillance” di una carriera ormai quarantennale.

«L'organico dei gip è ridotto all'osso», continua il giudice, che nei giorni scorsi ha visto andare in pensione altri tre cancellieri che, come sempre più spesso accade, non verranno sostituiti e lui, il giudice Gari, a 70 anni non riesce a lavorare agli stessi ritmi di un tempo.

I nove, condannati lo scorso giugno insieme ad altri tredici appartenenti al clan degli Scalisi – collegati al clan catanese dei Laudani e da anni in lotta con i Santangelo-Taccuni per il controllo del mercato della droga e del racket delle estorsioni – nell'ambito dell'operazione denominata “Terra Bruciata”, con la quale è stato possibile sventare alcuni omicidi già programmati dalle cosche.

Intanto il ministro della Giustizia Francesco Nitto Palma – che a pochi giorni dal suo insediamento al dicastero aveva posto l'accento sulla necessità di rivedere l'attuale distribuzione di tribunali – ha inviato gli ispettori ministeriali per «verificare i motivi che hanno portato alla scarcerazione dei nove imputati, per i quali il ritardo nel deposito delle motivazioni della sentenza ha provocato la decorrenza dei termini di custodia cautelare».

Quel brutto precedente. Il giudice Gari, peraltro, è al centro di un altro “caso”, quello relativo a Carmelo Castro, 19enne, morto dopo tre giorni di carcere ufficialmente per suicidio, nonostante gli innumerevoli dubbi sollevati in merito e che hanno portato, anche grazie all'associazione Antigone, a riaprire il caso[1]. Il giudice, infatti, aveva archiviato il caso sotto la fattispecie del suicidio nonostante la dinamica evidenziasse come l'altezza da cui il giovane si sarebbe suicidato (160 centimetri) era addirittura inferiore alla sua altezza, attestata invece su 1 metro e 75 centimetri. L'avvocato Vito Perrone, poi, aveva evidenziato altre anomalie: «Come può una persona che muore impiccandosi presentare delle ipostasi, cioè addensamenti di sangue alla schiena, e non agli arti inferiori? E ancora: come può chi sta per suicidarsi consumare un pasto abbondante come risulta dall'autopsia e tra l'altro in un contesto nel quale non si capisce quando sia stato distribuito il vitto ai detenuti? Perché un detenuto suicida viene trasportato in ospedale a bordo di un'auto di servizio e non in ambulanza». Più che di un suicidio – è poi la denuncia dell'associazione Antigone – quello del giovane Carmelo Castro sembra essere stato l'ennesimo caso di pestaggio da parte dei carabinieri finito male.

E se si considera che al giudice è assegnato il delicato fascicolo "Iblis"[2] sui presunti rapporti tra uomini di Cosa Nostra, politici, amministratori e imprenditori – nel quale peraltro Gari è stato ricusato per non imparzialità[3] – le domande a cui dare risposta, probabilmente, sono più d'una.

Note

[1] http://www.corriere.it/cronache/11_gennaio_03/morto-19-anni-catania-carmelo-castro-sciacca_61edf892-1786-11e0-b956-00144f02aabc.shtml