Avevo paura della camorra, invece l'incontro peggiore è stato con lo Stato


Essere un testimone di giustizia, in Italia, è difficile. Perché quando decidi di testimoniare non ti trovi solo a combattere la criminalità organizzata ma anche lo Stato che ti abbandona quando finiscono i processi o la tua stessa città che chiede di allontanarti. Perché nel paese che ha reso l'omertà un fattore identitario e portatore di voti, fare il proprio dovere diventa un atto che non tutti apprezzano.

Aggiornamento: Questo articolo lo trovate anche su InfoOggi.it http://www.infooggi.it/articolo/avevo-paura-della-camorra-invece-lincontro-peggiore-e-stato-con-lo-stato/17411/



Bivona (Agrigento) - È il 24 agosto scorso, è sera. Ignazio è seduto all'aperto con la moglie Giuseppina ed i due figli – Giuseppe e Veronica - quando Achille, il cane, mette in allarme i Carabinieri che sorvegliano la casa e che partono immediatamente all'inseguimento di un uomo nascostosi dietro una siepe. La famiglia viene subito portata in casa, come protocollo di sicurezza richiede, ma l'inseguimento porta ad un nulla di fatto.
Qualche giorno dopo Ignazio è a Roma, incatenato insieme a Valeria Grasso davanti al Viminale. Valeria è siciliana, e con le sue denunce a Palermo hanno decapitato il clan dei Madonia. Oggi, come racconta Giulio Cavalli in un suo recente post [1] Valeria è stata costretta ad abbandonare la propria identità per entrare nel programma di protezione dei testimoni di giustizia e ritrovarsi in una località sconosciuta e lontana da casa. Ignazio, invece, ha deciso che dalla sua impresa edile a Bivona non ha intenzione di allontanarsi. Anche Ignazio – Ignazio Cutrò per la precisione – è un testimone di giustizia (la storia completa la potete leggere qua: http://www.ignaziocutro.com/ic01/?page_id=98). Con la sua deposizione ha contribuito al processo “Face Off”[2] grazie al quale è stata smantellata la famiglia mafiosa dei Panepinto, che in base ad una forma di “sindrome di Stoccolma” da vittime di mafia si è trasformata a sua volta in un clan mafioso.

     Egregi stronzi mafiosi e company. Ignazio Cutrò – imprenditore edile – non solo non si lascia intimidire, ma “rilancia”. Così come nel 1991 Libero Grassi scrisse la lettera al “caro” estortore[2], così Cutrò si rivolge direttamente ai mafiosi:

«Egregi stronzi mafiosi e company, siete arrivati vicino casa mia, si ma grazie a quegli angeli non avete avuto tempo di respirare, vi sono subito stati nel culo anche se effettivamente la caccia “all'uomo”, se uomo si può dire, poi è andata a vuoto. Però di certo starete con due piedi in una scarpa prima o poi sarete messi con la faccia al muro, e giustizia sarà fatta. Questi gesti ci danno più carica in questa lotta, perché ci fanno capire allo stesso tempo sia quanto siate vigliacchi e anche che le istituzioni sono vicine e reattive. Carabinieri, poliziotti, finanzieri, uomini, padri di famiglia che con sprezzo del pericolo vigilano costantemente su di noi, su tutti i cittadini, e mettendo in rischio la loro vita ogni giorno si sforzano di rendere più pulito dalle illegalità il nostro Paese dove mettono a rischio la propria vita senza pensarci due volte dimostrando la fedeltà alla divisa indossata ed impressa nella pelle. Un grazie a questi valorosi uomini di tutte le forze dell'Ordine ma soprattutto in culo alla mafia»[3]


Questo, però, non è un articolo che parla di mafia. Questo, al contrario, è un articolo che parla di antimafia. Anzi, per essere precisi parla di mala-antimafia.
Quella praticata dalla “cara” Repubblica Italiana che, ad un certo punto, decide che i testimoni di giustizia non servono più (perché magari il processo è finito) e non corrono più rischi. Diventano così “ex” testimoni di giustizia e lo Stato li mette nel dimenticatoio. Perché si sa, a fare “audience” sono gli arrestati, mica gli accusatori.

     Tardarielli ma no scurdarielli. Sono circa una settantina (circa duecento persone considerando anche i familiari), di cui quasi la metà ha denunciato fatti di camorra L'art.16 bis del decreto legge n.8 del 1991 (come modificato e integrato dalla legge 45/2001) li definisce come “coloro che, senza aver fatto parte di organizzazioni criminali – anzi, essendone a volte vittime – hanno sentito il dovere di testimoniare per ragioni di sensibilità istituzionale e rispetto delle esigenze della collettività, esponendo se stessi e le loro famiglie alle reazioni degli accusati e alle intimidazioni della delinquenza”. Il primo degli errori tecnici che vengono commessi – quello di equiparare testimoni e “collaboratori di giustizia”, cioè i pentiti, come d'altronde la stessa legge del 1991 faceva – è dunque risolto. I testimoni, dunque, non sono esponenti della criminalità organizzata che per motivi vari decidono di iniziare a collaborare con lo Stato. Sono cittadini comuni – spesso imprenditori – che, stanchi di essere vessati dalle richieste criminali decidono di denunciare. A questo punto (grazie alla legge n.45 del 13 febbraio 2001) ai testimoni di giustizia si estendono le stesse tutele spettanti ai collaboratori, tra cui le più rilevanti in questa sede sono il cambio di generalità – con la cancellazione della vita pre-denuncia - e la “protezione fino alla effettiva cessazione del pericolo per sé e per i familiari”, che è solitamente quella parte del “programma di protezione” che lo Stato, ad un certo punto, dimentica. Chi invece non dimentica è la criminalità organi che, sappiamo bene, in Italia gode di ottima salute, finanze floride ed elefantiaca memoria.
E in questo paese – quello in cui i criminali sono chiamati eroi o vengono descritti alla stregua di martiri – diventa una colpa anche avere senso della giustizia.

     La doppia estorsione. Quando un testimone di giustizia diventa tale, la prima cosa che fanno è sradicarne le radici. Letteralmente. Innanzitutto vengono allontanati dal proprio paese di origine ed è fatto loro divieto di ritornarci, così come è vietato incontrare parenti di nascosto o non riferire se si incontrano conterranei. Per i documenti, poi, in media c'è da aspettare almeno un paio d'anni, e come ricorda l'avvocato Angelo Greco, autore di “Tra l'incudine e il martello. La denuncia di chi ha denunciato”, capita anche che i testimoni di giustizia rischino l'arresto perché in possesso di documenti falsi. Due anni senza documenti significa, ad esempio, due anni senza la possibilità di avere un medico di base a cui rivolgersi, o non potersi cercare un lavoro (un'identità falsa prevede di non poter usare il curriculum che ci si è creati, magari faticosamente, negli anni) a meno che non si sia dipendenti pubblici, ai quali è garantito il mantenimento del posto di lavoro lasciato “in attesa della definitiva sistemazione anche presso altra amministrazione dello Stato”. Ma molti testimoni di giustizia dipendenti pubblici non sono, e per questo lo Stato li mantiene con un assegno di importo compreso tra i 1.000 ed i 1.600 euro al mese (quando in realtà potrebbero benissimo lavorare). Molti testimoni di giustizia, poi, si sono spesso lamentati della scarsa assistenza che hanno ricevuto.
Lo Stato, a volte, si comporta come quel giudice – Luigi Russo, nel 1991 giudice istruttore a Catania – che si lamentò della già citata “lettera al caro estortore” di Libero Grassi perché, a suo dire, se tutti gli imprenditori taglieggiati avessero denunciato le aziende siciliane sarebbero presto sparite. I casi in cui questo è avvenuto si sprecano, e basta farsi un giro in rete o sfogliare qualche giornale che ogni tanto si occupa della vicenda (magari cercando nomi come Pino Masciari o Piera Aiello) per avere un'idea di quello che deve passare chi decide di fare troppo bene il suo dovere civico.

     I fuoriusciti. Alle volte capita che qualcuno decida di ribellarsi anche all'”estorsione” commessa dallo Stato, e magari fa quello che alla criminalità non piace e che lo Stato gli vieta: torna a casa. Come Luigi Coppola. Fino al 2001 ha venduto automobili, poi le sue denunce hanno permesso di decapitare il clan Pesacane di Boscoreale e quello dei Cesarano, regnante sul territorio di Pompei e Castellammare di Stabia. Un anno dopo entra nel programma di protezione per uscirne nel 2007, quando decide di tornare a Pompei per riprendere dal punto esatto in cui era stato costretto ad abbandonare. A questo punto si presenta il “lato b” delle fiaccolate e delle manifestazioni antimafia. A Pompei, infatti, Coppola è persona non gradita, tanto che la popolazione porta al sindaco una petizione per cacciarlo dal territorio cittadino e nessuno vuole vendergli o affittargli una casa. Arriviamo così al 2009, quando i processi in cui è chiamato a testimoniare arrivano all'ultimo grado di giudizio. A gennaio 2010 il Viminale gli notifica la revoca immediata della scorta e della vigilanza fissa sotto la sua abitazione (una camera d'albergo, per un costo di ). Insomma: processo finito e testimonianza che non serve più, anche perché le persone da lui denunciate sono finite in galera. Cosa mai potrebbe capitargli? Può capitare, ad esempio, di ritrovare vicino all'abitazione una bottiglia contenente liquido infiammabile ed un proiettile inesploso. Che forse la commissione abbia interpretato quello come un tipico segno del folklore meridionale?

Forse stiamo sbagliando. L'errore che si commette quando si parla di criminalità organizzata oggi, probabilmente, è quello di seguire “la moda” della “zona grigia”, delle connivenze tra imprenditoria, politica e criminalità. Forse bisogna iniziare a guardare anche ad un'altra zona – decidere di quale colore è un divertimento che lascio al lettore – fatta di gente comune, di quella gente che Gomorra l'ha letto e che non si perde una puntata del “Saviano Show” ma ignora il difficile lavoro di quei tanti giornalisti che non stanno sotto i riflettori delle grandi reti televisive o dei grandi quotidiani ma che tutti i giorni raccontano la quotidianità delle strade in mano ai clan (alcuni dei quali è possibile conoscere grazie ad una recente inchiesta di Attilio Bolzoni e Alessandra Ziniti per Inchieste di Repubblica) e che quando viene chiamata ad un piccolo gesto “antimafioso” - come può essere quello di accogliere un testimone di giustizia nella propria città – si ricorda di quella vecchia storia delle tre scimmiette. Perché quando scegli di cacciare dalla tua terra un testimone di giustizia piuttosto che accoglierlo e “proteggerlo” come si dovrebbe e come meriterebbe, forse il lavoro culturale da fare deve partire dalle fondamenta. Perché – come Libero De Rienzo (nei panni di Giancarlo Siani) dice in “Fortapasc” - la criminalità organizzata non si sconfigge solo con i Carabinieri, ma a molti farebbe comodo.

«I lettori hanno rinunciato a capire, forse storditi dal troppo bombardamento. I lettori vogliono sapere, emozionarsi, patire, gioire, parteggiare. Non intendono intendere, isole felici e avvertite minoranze escluse. Buttano via il filo rosso di una vicenda e tengono il grasso. Rinunciano all’essenziale per il superfluo[4]»
[da "Mancano i giornalisti? No, i veri lettori..." Roberto Puglisi, LiveSicilia.it]

Note
[1] http://www.giuliocavalli.net/2011/09/02/ignazio-cutro-in-culo-alla-mafia/
[2] http://www.unita.it/italia/caro-estortore-la-lettera-che-diede-inizio-alla-battaglia-1.326786
[3] http://www.ignaziocutro.com/ic01/?p=1024
[4] http://www.livesicilia.it/2011/08/01/mancano-i-giornalisti-no-i-veri-lettori/