Professione: porcellino d'India


Kano (Nigeria), 1996 - Un'epidemia di meningite ha appena colpito la popolazione (in particolare i bambini): 120 i nuovi casi che si registrano giornalmente. Un'equipe dell'ong Medici Senza Frontiere si era aggiunta ai medici locali per far fronte all'emergenza, finché non arrivarono quelli della Pfizer Inc., la più grande società del mondo per quanto riguarda ricerca, produzione e commercializzazione dei farmaci con sede a New York, Stati Uniti. Tra i farmaci a cui stava lavorando in quel periodo c'è il Trovan, un antibiotico fino a quel momento testato su un solo bambino. Nonostante le sole sei settimane in cui il farmaco viene messo a punto (quando di solito ci vuole un anno), i medici della Pfizer sbarcano a Kano con l'intento di provare il loro antibiotico sulla popolazione locale. Tutti i medici tranne uno: Juan Walterspiel, esperto di malattie infantili per la multinazionale, che aveva esplicitato in una lettera la sua contrarietà alla sperimentazione sui bambini di Kano. Risultato: medico licenziato e duecento bambini assoldati come cavie. Di questi undici muoiono. Non si sa se per la malattia o perché il farmaco viene somministrato anche a quei bambini che non reagiscono positivamente. Secondo la Pfizer, comunque, il loro farmaco è sicuro.
La FDA (Food and Drug Administration, l'organizzazione governativa che si occupa della regolamentazione dei prodotti farmaceutici ed alimentari) comunque permette che in territorio americano il farmaco possa essere utilizzato solo dalla popolazione adulta, mentre in Europa il Trovan viene tolto dal mercato. Sfuma così un affare che gli economisti di Wall Street avevano valutato in un miliardo di dollari all'anno. Praticamente niente per il giro d'affari di Big Pharma.

«Hai tra i 18 e gli 85 anni? Vuoi dare una mano alla ricerca scientifica e – allo stesso tempo – guadagnare un po' di soldi senza fare troppa fatica? Se non assumi droghe e godi ottima salute, stiamo cercando proprio te! Diventa volontario della ricerca. Prestaci il tuo corpo per sperimentare nuovi farmaci. Non te ne pentirai!»

Questo è – più o meno – l'annuncio-tipo che si può trovare in alcune bacheche universitarie (per lo più nelle facoltà di medicina) o in siti come gpgp.net, un sito creato appositamente per incontrare domanda e offerta di “porcellini d'India” (o “guinea pigs” in inglese). No, niente a che fare con il commercio dei roditori. I “porcellini d'India” sono persone sane che decidono (non sempre di propria sponte, ed è semplice capire il perché, come vedremo) di prestare il proprio corpo alle multinazionali del farmaco, che lo utilizzeranno per sperimentare nuovi farmaci o quelli con brevetto in fase di scadenza.
Prima di addentrarci nel mondo degli “affitta-corpi”, però, è bene capire il procedimento che porta un farmaco dalla sua ideazione alle nostre mani e, dunque, qual è l'utilità dei volontari.

Dal momento della scoperta dei c.d. farmacofori (piccoli gruppi funzionali capaci di modificare, interrompere od evitare il decorso di una malattia) al momento in cui possiamo inalare/ingurgitare/iniettare il farmaco nel corpo passano, in media una decina di anni. 
Il primo passo sono i test pre-clinici, dove la sostanza viene applicata a colture cellulari (in vitro) al fine di verificarne biocompatibilità e non citotossicità. Delle oltre mille sostanze che ogni anno arrivano a questa fase, solo il 2,5% viene ammesso alla fase successiva in cui il farmaco viene testato sugli animali. Se la sostanza passa anche questa fase, si passa alla sperimentazione sull'uomo. Entrano in scena i “porcellini d'India”.
La “fase 1” è la fase più pericolosa – e, anche per questo, quella dove si riscontrano meno volontari – nella quale, di fatto, si va un po' “a caso”, alla ricerca di dosaggi, effetti e – soprattutto – effetti collaterali dei quali non si può avere la minima previsione nelle fasi precedenti. In questa fase (durata: 1 anno) vengono utilizzati tra i venti e gli ottanta volontari, rigorosamente tutti di sana e robusta costituzione. Per ammalarsi, d'altronde, c'è sempre tempo...
La “fase 2” è la fase degli studi “in doppio cieco”: una parte dei volontari (tra coloro che, però, hanno già contratto la malattia) vengono “trattati” con il farmaco che si sta testando, ad altri viene invece dato un placebo al fine di misurare di quanto superiore sia l'effetto della sostanza che si sta testando. Si definisce “doppio cieco” in quanto nessuno dei soggetti che partecipano a questa fase sa di quale dei due gruppi fa parte. 
Nella “fase 3”, ultimo passaggio prima della registrazione del farmaco, si allarga il numero di partecipanti. Insomma: si fanno gli “ultimi preparativi” prima dell'ingresso sul mercato. 

Bisogna tenere in mente anche un altro – fondamentale – aspetto: società come la già citata Pfizer, la GlaxoSmithKline, la Sanofi-Aventis o la Novartis (tanto per citare solo le più grandi...) non sono “enti benefici” il cui scopo ultimo è il benessere delle popolazioni. L'unico benessere al quale sono interessate è quello dei propri grandi azionisti, e dunque tutto quello che in queste fasi viene investito deve, in qualche modo, rientrare. Anche a costo di inventarsi epidemie utili solo a vendere le scorte di magazzino di qualche vaccino invenduto (il “caso” del virus A/H1N1 insegna). Ma questa è un'altra storia...

Who wants to be a guinea pig?
«È come se fosse una specie di “Grande fratello clinical edition”», dice P., uno dei tanti volontari che si prestano alla sperimentazione. Ma chi è il “volontario-tipo”? Età compresa tra i 18 ed i 50 anni, il volontario – quasi sempre maschio – deve godere di buona salute (basta un semplice raffreddore nei giorni precedenti ai test per far saltare tutto...) e non aver mai fatto uso di droghe. Sono privilegiati quelli realmente motivati da volontà scientifiche e gli studenti di medicina, che si presentano ai test con una maggior consapevolezza su procedimenti e rischi eventuali derivante proprio dai loro studi. Con la crisi economica, però, l'offerta di corpi ha visto aumentare anche il numero di lavoratori dipendenti, studenti di altre facoltà, casalinghe e pensionati. La maggior parte – nonostante dichiari “amore per la scienza ed il progresso della vita umana” - lo fa per soldi, tanto che se non fosse illegale, qualcuno potrebbe addirittura diventare “cavia di professione”. O almeno questo è quello che si vuole far credere...«L'unico requisito che, forse, viene rispettato è quello dei 90 giorni di pausa tra una sperimentazione e l'altra per “pulire” il corpo» dice Max, studente di Scienze Politiche alla Statale di Milano. Nonostante siano al massimo tre le sperimentazioni che si possono fare in un anno (al fine di non mettere ancor più in pericolo il corpo), c'è anche gente che prende parte ad un numero maggiore di protocolli. D'altronde non ci sono veri e propri controlli, e chi dovrebbe farli – il volontario stesso o il laboratorio pagato dalla multinazionale che gli commissiona la ricerca – ha tutto l'interesse a non essere troppo accurato. Lo sappiamo: i soldi fanno sempre comodo, e se succede qualche disgrazia trovare un volontario di ricambio non è poi tanto difficile. Anche perché la paga – che nel nostro paese viene ipocritamente fatta passare come “rimborso spese”- con i tempi che corrono è allettante. Fino a 1.500 euro a test, esentasse. In più tutti i controlli necessari sono gratuiti. 
In Italia il centro più importante è il Centro ricerche e produzione antibiotici della GlaxoSmithKline di Verona e dal 2009 è stato aperto un altro centro di sperimentazione “fase 1” a Cagliari che vanno ad aggiungersi ai quindici Irccs (Istituto di ricerca e cura a carattere scientifico) sparsi sul territorio italiano. 


È però la Svizzera ad essere il vero Paradiso della cavia umana.

Le cliniche principali sono l'Institute for pharmacokinetic and analytical studies (Ipas) di Ligornetto, la Cross Research di Arzo e la Projectpharma di Savosa (Lugano). Dal 2000 la Svizzera ha istituito un vero e proprio Registro dei volontari sani, che serve in termini legali per evitare il “professionismo da cavia umana” (che abbiamo visto essere un problema non proprio al centro dei pensieri di Big Pharma) ma, soprattutto, per avere subito sotto mano una lista di potenziali “clienti” che hanno già questo tipo di esperienza alle spalle. La maggior parte dei volontari che si recano nei centri svizzeri sono per lo più italiani (con la Lombardia a guidare questa speciale classifica). Dalla fuga dei cervelli a quella dei corpi il passo è breve...«Tutta colpa della burocrazia» - dice un dirigente dell'Ipas - «l'iter attraverso i comitati etici per ottenere il via libera a uno studio da noi non dura più di sessanta/settanta giorni. In Italia passano mesi e mesi e ci sono sempre un sacco di polemiche». Per questo molte delle aziende italiane preferiscono delocalizzare. 
Assieme alla Svizzera, la capitale delle cavie umane è Londra, dove i guadagni per i volontari arrivano anche a 3.500-4.000 euro a prestazione. Considerando per buoni i termini legali di tre sperimentazioni all'anno possibili (che abbiamo visto però essere una questione ad esclusiva discrezionalità delle parti in causa) è semplice capire perché questo si stia trasformando in un nuovo business per le case farmaceutiche ed in una nuova possibilità di lavoro per chi stenta ad arrivare a fine mese. Per non parlare poi degli Stati Uniti, nei quali Big Pharma controlla anche chi dovrebbe frenarla e dove un'inchiesta della rivista New Scientist del 2009 ha rivelato come si possa arrivare a guadagnare anche 300 dollari al giorno, per un totale di 34.000 dollari all'anno, senza contare benefit ed altri metodi per comprare la volontà dei volontari. Circa diecimila – secondo un “esperto del settore” come Paul Clough, in media sette sperimentazioni all'anno – sono gli americani che ormai campano di test. 

Vita da ca...vie
Il primo passo per entrare nel grande mondo degli “affitta-corpi” - lo abbiamo in parte già detto – è quello di cercare l'annuncio giusto sulle bacheche di cui sono piene le facoltà universitarie o, metodo classico per antonomasia, tramite il passaparola. Se fossimo in Inghilterra – a differenza di quel che avviene in Italia – non sarebbe poi cosa tanto strana trovare richieste di corpi per le case farmaceutiche nella sezione “annunci di lavoro”. Una volta avvenuto il primo contatto si fissa la data per i controlli preliminari, cioè esami del sangue e delle urine, ECG più controllo di altezza, peso e indice di massa corporea. Niente di più e niente di meno di una normale visita medica insomma. A questo punto si mette tutto nero su bianco: il volontario viene informato sugli eventuali rischi (anche se sarebbe interessante, per i “fase 1” capire quali rischi siano contemplati dato che è esattamente trovare i rischi il motivo per cui si cercano cavie...), lo sponsor – solitamente la casa farmaceutica che ha richiesto la sperimentazione – si impegna a pagare il volontario stipulando un'assicurazione contro eventuali “problemi tecnici” e, se si ottiene il beneplacito del comitato etico (una sorta di organo di garanzia istituito – nel nostro paese – dal decreto Bindi del 1998) si può passare alla sperimentazione. 
Un paio di giorni in clinica tra televisione, videgiochi e chiacchiere con altre cavie, dopodiché ti fanno firmare una liberatoria con la quale ti impediscono di avanzare future pretese (ed allo stesso tempo ti obbligano a non raccontare i particolari di quel che fai...), ti pagano – in contanti, of course – e ti rispediscono a casa. Tempo un mese e sei pronto per il secondo giro, e se per caso dovessi avere qualche effetto collaterale quasi sicuramente non dipende dal farmaco. Almeno stando al mantra recitato dalle case farmaceutiche. 

Business is business...
Le case farmaceutiche, ormai è assodato, non sono né enti di beneficenza né perseguono scopi nobili quali il miglioramento delle condizioni di vita della razza umana (quantomeno di quella che non fa parte del consiglio d'amministrazione). Dunque la logica che spinge Big Pharma è la stessa che c'è dietro a qualsiasi azienda che persegua scopi di lucro: la massimizzazione del profitto. Quindi, se un mercato è poco redditizio o – dall'altro lato – iniziano ad esserci costi di produzione troppo alti, anche Big Pharma eviterà quei mercati e delocalizzerà la produzione. C'è però un piccolo problema: a differenza delle aziende che producono beni di consumo, il mercato del farmaco ha come pilastro la salute umana, dunque abbandonare un mercato significa togliere la possibilità di poter curare alcune malattie (si pensi alle c.d. “malattie rare”) e delocalizzare vuol dire, di fatto, che dalle costose cavie italiane, svizzere o francesi si passa a quelle molto più economiche dell'Africa, dell'Europa dell'Est o del continente asiatico.

40 milioni di asmatici, 34 milioni di diabetici, 10 milioni di sieropositivi, 8 milioni di epilettici, 3 milioni di malati di cancro. No, non è l'elenco dei soggetti sottoposti a cure mediche lo scorso anno. È quello che Big Pharma si è trovato davanti in India, la nuova frontiera del mercato della sperimentazione. Il vantaggio della sperimentazione in India è duplice: oltre ai costi bassissimi - una cavia costa in media 100 euro, quanto un impiegato di banca – gli indiani non sono saturi di medicine quanto gli occidentali, e dunque quello indiano è un mercato ancora inesplorato. Qui le multinazionali si fanno forti anche dell'ignoranza delle classi sociali più disagiate – da dove si può pescare a piene mani nuove cavie – dato che il “consenso informato” (cioè la dichiarazione che certifica la consapevolezza dei rischi in chi si sottopone alle sperimentazioni) viene estorto con l'inganno dei medici di base o, semplicemente, scrivendo queste dichiarazioni in una lingua – l'inglese – che non sempre viene compresa. 
Negli ultimi anni si è fatto peraltro molto acceso il dibattito su cosa significhi “consenso informato”, perché se è assodato che uno studente di medicina sia il soggetto più consapevole, come la mettiamo con i contadini i semianalfabeti o gli analfabeti totali del continente africano, di quello asiatico o – seppur in maniera ridotta – in Europa? Come può opporsi, ad esempio, un capotribù africano ad una data sperimentazione che magari nel resto del mondo non viene accettata per la sua pericolosità, se i medici della multinazionale che arrivano nel suo villaggio con macchinari altamente tecnologizzati (per il livello del villaggio) gli spiegano che in realtà è tutto ok? Quali sono i riscontri che il capotribù potrà avere – e le indagini che potrà fare – affinché si possa davvero definire davvero “informato” il suo consenso? In realtà la domanda sarebbe da allargare al mondo intero: escludendo infatti i medici e gli addetti al settore, chi può davvero definirsi informato quando prende un medicinale, anche se studia il bugiardino nei minimi dettagli? 

C'è poi il grande mercato dell'Europa dell'Est, dove un test che negli States costa sui 15.000 euro viene pagato tra i 3.000 euro in Russia ed i 1.500 della Romania e dove peraltro particolarmente vantaggiosi sono l'affitto di bambini orfani o l'eventuale avvicinamento al traffico d'organi. 

In molti di questi paesi le cavie testano medicinali che non potranno mai utilizzare dato il prezzo esorbitante paragonato al costo medio della vita nel continente asiatico o in Africa. Fino a qualche anno fa, per i paesi che non potevano permettersi i medicinali indispensabili ma troppo costosi, era possibile “copiarli” riproducendoli nei loro laboratori (per certi versi lo stesso meccanismo che oggi è dietro ai c.d. “generici”) per i quali non c'era bisogno dei test perché – essendo identici agli originali – facevano fede le sperimentazioni di questi ultimi. Ma sappiamo che un prodotto copiato toglie introiti al mercato del prodotto originale, e quando ti scontri con colossi come Big Pharma o l'Organizzazione Mondiale del Commercio (il WTO) è una partita persa in partenza. 

I casi in cui il volere di Big Pharma – e dei grandi centri di potere che governano la nostra quotidianità – vince su tutto ce ne sono quantità illimitate: dai bambini adottati a New York negli anni Novanta sottoposti ad un programma segreto per testare medicine contro l'Hiv (come documentato dalla Bbc) alle donne africane sieropositive curate con l'Azt (che avrebbe permesso loro di partorire bambini sani) sulle quali si facevano test di dosaggio per vedere di quanto si potesse ridurre una dose prima di diventare tossica (e per ridurre i costi). 

A questo punto, per concludere, rimane un'ultima domanda da porci. Una domanda che non necessariamente deve avere una risposta: se è vero, come è vero, che il progresso medico ha portato una parte della popolazione mondiale a migliorare le proprie condizioni di vita quanto è davvero etico utilizzare dei corpi sani per la sperimentazione di medicinali che nella maggior parte dei casi sono considerate inutili se non addirittura nocive (la stessa Organizzazione Mondiale della Sanità sostiene che su circa 200.000 farmaci in commercio, quelli realmente utili siano in realtà tra i 300 ed i 400)? Quanto è giusto, poi, che la maggior parte dei medicinali sia testata nei paesi del Terzo e Quarto mondo seppur destinati a clientele del Primo? Per dirla in altri termini: quanto è davvero “progresso” e quanto è davvero “imperialismo(farmaceutico)”? Ma questa – come direbbe il buon Carlo Lucarelli – è un'altra storia...