The clash of Libylization

Il conflitto libico è scoppiato. Dopo i Balcani agli inizi degli anni Novanta, dopo l'Afghanistan, dopo l'Iraq, il "club dei diritti umani" ha deciso di creare una democrazia anche in Libia, spodestando - dopo più di quarant'anni - un leader politico fino a poche settimane fa invitato a tutti i tavoli importanti dell'Occidente. Ci sono in ballo, però, le concessioni petrolifere, i fondi sovrani e - soprattutto - la sovranità nazionale di un popolo, calpestata senza troppe remore da quel mondo "bello, buono, giusto e bombarolo" che ci ostiniamo a chiamare "democrazia".
L'uccisione di Osama Bin Laden – al di là di tutte le più o meno interessanti discussioni che ne stanno venendo fuori – dovrebbe averci insegnato una cosa. Una cosa che in realtà avremmo dovuto imparare già da tempo, cioè che parole come “diritti umani”, “democrazia”, “libertà”, “giustizia” sono, appunto, parole. E tali rimangono. Così come avrebbe dovuto insegnarci che non esistono “interventi umanitari” ed organizzazioni che tali scopi perseguono. Perché se davvero quelle parole avessero un valore, a quest'ora lo sceicco del terrore sarebbe davanti ad una corte internazionale così come qualche anno fa toccò a Slobodan Milošević. Così come dovrebbe accadere – seguendo questo stesso metro di pensiero – all'ex dittatore libico Mu'ammar al-Gaddafi.

Invece niente di tutto questo. I “giusti e democratici” occidentali hanno deciso che neanche le immagini dell'omicidio devono essere rese pubbliche perché considerate “troppo crude”. Come se certi film hollywoodiani non fossero anche peggio.
A voler essere pignoli non sono stati proprio gli occidentali a decidere, o per lo meno non tutti. Perché gli Stati Uniti del Premio Nobel per la Pace Barack Obama – premio che evidentemente o è privo di valore o dovrebbe subire procedimento di revoca immediata – hanno deciso che quelle immagini non dovranno essere di dominio pubblico per evitare “problemi di sicurezza interna”. Come possa poi una semplice immagine di un uomo morto scatenare una guerra – neanche fosse una bandiera o un fondo sovrano – non ci è dato sapere...

È come essere entrati in una nuova fase della politica internazionale. Una politica “fantasma” nella quale si assiste ad una grande discussione globale, ma dalla quale non esce uno straccio di prova. Non sappiamo se lo sceicco del terrore sia effettivamente stato ucciso, con quali modalità né conosciamo realmente tempo e luogo di tale assassinio.
Così come non abbiamo prove oggettive – la famosa “pistola fumante” - per acconsentire all'ennesima invasione occidentale. Siamo pronti a mandare mezzi, uomini e a sprecare denaro pubblico dietro a genocidi farlocchi e bombardamenti che sterminano decine di migliaia di persone alla volta presentatici solo oralmente. Ci sarebbero le cosiddette “fosse comuni”, pistola fumante della medesima consistenza delle “prove” presentate da Colin Powell – Segretario di Stato durante la creazione del conflitto iracheno – dinanzi al Consiglio di Sicurezza dell'Onu ed al mondo intero, se non fosse che quelle fasulle fosse comuni riprese da tutti i media mainstream si sono poi trasformate in un cimitero di Tripoli tutt'altro che fasullo.

Quel che realmente bisogna capire, a questo punto, è come si configuri l'intervento armato – aereo o di altra natura non ha alcuna rilevanza – anche alla luce di una resistenza delle forze schierate con il governo deposto che essendosi rivelata molto meno semplice da abbattere, costringerà con ogni probabilità le forze cosiddette “ribelli” a lasciare il campo agli eserciti regolari delle nazioni occidentali. Abbandonando le “romanzesche” velleità dei popoli che si liberano da soli, impossibilità dettata dalla stessa concezione globale della modernità la quale fa sì che ciò che accade a Tripoli come a Kabul, a Roma come a Caracas vada ad intaccare interessi americani, britannici, francesi o tedeschi (e viceversa) dobbiamo stabilire in maniera oggettiva se quella che abbiamo di fronte analizzando la situazione libica è una guerra vera e propria o un'aggressione di un gruppo di stati-nazione – i cosiddetti “volenterosi” - alla sovranità nazionale di un altro stato nazione.
Perché nel primo caso dovremmo chiederci quale sia il vero avversario della Libia – al di là del grado di simmetria del conflitto – oppure, stando anche a quei trattati internazionali troppo spesso violentati da chi li redige, chiedere che vengano presi provvedimenti nei confronti dei paesi invasori, realizzatori – evidentemente – di un piano neo-colonialista.
Dice l'articolo 2 comma 7 dello Statuto delle Nazioni Unite:
Nessuna disposizione del presente Statuto autorizza le Nazioni Unite ad intervenire in questioni interne di uno Stato, che sono di competenza di quello Stato, né obbliga gli Stati Membri a sottoporre tali questioni ad una procedura di regolamentazione in applicazione del presente Statuto; questo principio non pregiudica però l'applicazione di misure coercitive secondo quanto previsto dal Capitolo VII
Ed anche quest'ultimo capitolo – come facilmente riscontrabile dalla lettura stessa della carta - dà per scontato che l'aggressione sia di uno Stato-nazione nei confronti di un altro. Secondo il legislatore internazionale, evidentemente, tutto quello che non è riconducibile a tale fattispecie, è da considerarsi “faccenda interna”. La non ingerenza straniera in tale ambito è uno dei principi cardine dell'equilibrio delle relazioni internazionali.

Dunque, ricapitolando: quella in Libia non è una rivolta popolare men che meno una rivolta a mezzo internet (immagine comunque utile a “vendere” delle ribellioni un immagine di “sviluppo” e dunque più facilmente assimilabile alle nostre latitudini); non è una guerra – quanto meno non nel classico metodo delle dichiarazioni di guerra – dunque rimane una sola possibilità: l'aggressione. Cioè il metodo privilegiato dell'Occidente “sviluppato, giusto e democratico” per la risoluzione delle controversie internazionali. I Balcani agli inizi degli anni Novanta così come l'Afghanistan e l'Iraq dei giorni nostri sono lì a testimoniarlo. Se sia un'aggressione voluta da Washington o se sia solo l'isteria di alcuni leader europei per far capire al di là dell'oceano che il vecchio continente non è – parafrasando von Clausewitz - “la continuazione degli Stati Uniti con altri mezzi” non è in realtà molto rilevante.
Quel che invece è rilevante è capire il perché le grandi potenze si siano mosse solo adesso, in particolare dopo aver mostrato al mondo la propria vicinanza al “regime” di al-Gaddafi (stendiamo un velo pietoso sull'Italia, da sempre burattino in mano ad una quantità indefinibile di padroni...). Mi spiego meglio: al-Gaddafi sale al potere, tramite colpo di stato militare, nel 1969. Dal 1969 al 2011 sono passati quarantadue anni. Possibile che solo oggi il leader libico abbia fatto tracimare il vaso? Possibile che in tutto questo tempo non sia mai stata una dittatura tanto feroce da costringere l'Occidente ad intervenire, al di là dei missili reaganiani del 1986, per spodestarla? O forse, più profanamente, non sarà che dietro alle tanto decantate “rivolte arabe” c'è un disegno ben diverso dall'instaurazione di “liberi regimi democratici”?
Teniamo sempre ben impresso nella mente un aspetto di non poco conto: nel mondo globalizzato – un mondo perennemente interconnesso – la “rivolta” (araba o colorata non cambia niente) di questo o quel paese dell'Africa, dell'Europa dell'est o dell'America Latina è avallata – quando non direttamente “patrocinata” - dai paesi ricchi e sviluppati, che dunque in qualche modo ci guadagnano sempre.

Seguendo il bianconiglio
60 miliardi di barili a costi di estrazione bassissimi. Il primo tra i “bianconigli da seguire” - o forse sarebbe meglio utilizzare il più classico follow the money – ci porta dritti dritti all'oro nero, di cui la Libia è ricchissima: 1.500 miliardi di metri cubi le stime. Sappiamo quanto oggi il petrolio, così come il gas, siano però molto più importanti dal punto di vista geo-strategico che non meramente economico. Mettere le mani sul petrolio libico – dunque sulla Libia stessa – vorrebbe anche dire formare un vero e proprio avamposto strategico nel Mediterraneo (data anche l'incondizionata sudditanza italiana) utile a tenere sotto controllo paesi come l'Iran. Controllare il petrolio, poi, vorrebbe anche dire togliere una delle voci principali di cui si nutre il Venezuela di Hugo Rafael Chávez Frías, principale voce della “nuova” America Latina non più giardino di casa degli statunitensi. Petrolio in cambio di armi è, peraltro, uno dei primi accordi commerciali fatti dal nuovo corso libico capeggiato dal Consiglio Nazionale di Transizione (CNT).

Il secondo dei bianconigli, invece, ha nome e cognome.
Si chiama Libyan Investment Authority, viene fondata dopo lo spostamento della Libia dalla lista degli “Stati Canaglia” a quelli degli “Amici della Libertà” e, come facilmente intuibile dal nome, è l'autorità che si occupa(va) degli investimenti libici nel mondo. Fondi che ammontano – per difetto – a circa 200 miliardi di dollari e di cui si trovano tracce praticamente ovunque. Basti solo citare il 7,5% di Unicredit o della Juventus o il 2% in Finmeccanica per fare solo alcuni tra i tantissimi esempi.
Tra gli investimenti del fondo – di cui 32 miliardi di dollari congelati negli istituti bancari statunitensi – c'è anche il Rascom (Regional African Satellite Communications Organizzation), un satellite che, entrato in orbita lo scorso agosto, permette agli stati africani di iniziare una prima fase emancipatoria dalla rete satellitare occidentale, cosa che comporta anche il risparmio di centinaia di milioni di dollari all'anno.
L'uso geopolitico dei fondi sovrani libici, peraltro, ha permesso anche di costruire degli organismi sovranazionali che – sulla falsariga dell'Alleanza Bolivariana per le Americhe (ALBA) – ha portato alla creazione di tre organismi finanziari in seno all'Unione Africana: la Banca africana di investimento con sede a Tripoli, il Fondo monetario africano con sede a Yaoundé (capitale del Camerun) e la Banca Centrale africana con sede ad Abuja (capitale della Nigeria). È dunque evidente in tale operazione la volontà africana di chiudere il periodo coloniale e tentare – attraverso la formazione di una “Patria Grande”africana, quanto meno dal punto di vista istituzionale ed economico – di giocare un ruolo ben più importante di quello avuto finora negli equilibri mondiali.
Se Africa ed America Latina tentano dunque di conquistare il loro posto al tavolo dei grandi è naturale che qualcuno ne verrà offuscato. E quel qualcuno, è naturale, sono Stati Uniti ed Europa che dunque hanno tutto l'interesse nel delineare governi a loro amici.

È in quest'ottica che vanno a mio avviso letti due avvenimenti considerati “minori” dai media mainstream – che danno notizia solo laddove volino missili e bombe, purché “terroristiche”: l'assegnazione al nuovo governo libico delle due principali raffinerie (che potremmo tradurre come l'Occidente che mette le mani sul petrolio libico) ed il rifiuto dell'Unione Africana di partecipare alla Conferenza di Londra dello scorso 29 marzo. Unione Africana che, peraltro, oltre ad aver istituito una commissione speciale sulla Libia ha anche chiesto la risoluzione pacifica del conflitto, delineando una “road map” agli inizi di aprile - a quanto sembra accettata dall'ex governo libico – basata su cinque punti cardine:

  1. cessate il fuoco immediato;
  2. permettere l'arrivo degli aiuti umanitari nelle aree di conflitto;
  3. protezione dei cittadini stranieri presenti sul territorio;
  4. dialogo tra Tripoli ed i ribelli al fine di ridisegnare gli equilibri del potere politico;
  5. sospensione dei raid della Nato.

C'è stato anche il tentativo del presidente venezuelano Chavez di frapporsi tra le parti – mediatore tutt'altro che disinteressato, come abbiamo già visto – ma anche questa proposta è stata cestinata senza troppe remore. Per completare il quadro internazionale bisogna anche registrare la – seppur parziale – defezione della Lega Araba, della quale solo nove dei ventidue stati membri hanno votato a favore della no-fly zone.

Se nel mondo non allineato (salvo eccezioni) al volere di Washington si discute della reale utilità di un nuovo conflitto libico, il dibattito è aperto anche tra le grandi potenze, dove il ruolo di guastafeste è toccato – all'interno del Consiglio di Sicurezza dell'Onu – a Russia e Cina, che si sono astenute dal votare la risoluzione 1793 in quanto è stata definita talmente vaga da poter autorizzare il dispiegamento di forze di occupazione straniera.

A proposito di “forze di occupazione straniera” è interessante notare – notizia che dovrebbe in realtà risultare nuova per ben poche persone – come riportava l'agenzia Reuters lo scorso 30 marzo – Obama ha firmato un ordine segreto con il quale autorizza operazioni segrete di truppe occidentali per addestrare, armare ed organizzare le truppe dei c.d. “ribelli”. “Niente di nuovo sul fronte occidentale”, direbbe qualcuno. Le guerre moderne – quelle tra uno stato e la sua popolazione – funzionano ormai da tempo secondo regole simili (chiedere al movimento serbo “Otpor” finanziato da capitali americani...).


Ma chi sono, attualmente, i “nuovi padroni” della Libia?
«La forza dei ribelli» - scrive più di un giornale britannico - «sta interamente nel sostegno, politico e militare, di cui godono sul piano internazionale». Ma se – prendendo alla lettera quel che scrivono i giornalisti di Sua Maestà – il sostegno dei ribelli deriva “interamente” dal sostegno straniero, dov'è il popolo libico? Che rivolta “popolare” è, se il popolo non la sostiene?


L'uomo che vedete nella foto insieme al presidente francese Sarkozy si chiama Mustafa Mohammed Abdul Jalil, nato ad Al-Baidhah nel 1952 ed ex Ministro della Giustizia del regime di al-Gaddafi, “riconvertitosi” alla causa dei ribelli. Quanto può davvero essere “rivoluzionario” un governo – quello del CNT di cui Jalil è stato designato Primo Ministro - che ha a capo un personaggio appartenuto al regime? È davvero così semplice “pentirsi” in Libia? Basta davvero così poco per “rifarsi una verginità” anti-gaddafiana e, addirittura, diventare il nuovo capo di governo?
Quest'uomo, tra le altre cose, è stato anche Ministro della Giustizia di un regime più volte accusato di perpetrare torture ed assassinii nelle fila dell'opposizione. Davvero i ribelli accettano di farsi rappresentare da chi ha acconsentito, magari, alla tortura ed all'assassinio di amici e parenti di quei ragazzi che vogliono la caduta del regime?
O sono così disperati da accogliere qualunque cosa gli passi davanti, del tipo “tutto tranne al-Gaddafi” (molto simile al “tutto tranne Berlusconi” italiano, ma questa è un'altra storia...) o è incompetenza – e dunque si rischia di mettere la Libia in mano a persone non in grado di governarla, con tutti i rischi che ciò comporta – oppure la decisione non è stata presa dai ribelli, dando ancora più consistenza a chi sostiene che la rivolta non ha alcuna connotazione “popolare”. In tal senso, peraltro, bisogna ricordare che l'attuale premier è lo stesso personaggio considerato vicino alle istanze di Washington e Londra all'interno del regime che, in qualità di direttore dell'Ufficio nazionale per lo sviluppo economico (Nedb) ha tentato di insinuare “la via al libero mercato” in Libia tramite un consistente processo di privatizzazione e liberalizzazione (leggi alla voce: Scuola di Chicago). Non stupisce, a questo punto, che gli stessi statunitensi lo definiscano “un interlocutore serio che sa cogliere la prospettiva Usa”.

Un altro dei “convertiti” è Abdel Fattah Younis, ex generale del regime e – addirittura – ex numero due di al-Gaddafi, per il quale ha ricoperto il ruolo di Ministro dell'Interno e della Pubblica Sicurezza. Anche con lui vale lo stesso discorso fatto per Jalil: quanto è attendibile questa “conversione”?
Solo gli imbecilli non cambiano idea, dice il proverbio. Ed il cambiare idea è una di quelle “piccole” concessioni che si fanno in democrazia. Ma quanto influisce – nel caso di Jalil ed in questo di Younis – l'aver effettivamente abbracciato la causa dei ribelli e quanto l'aver avuto rassicurazioni sulla propria incolumità – fisica e, soprattutto, politica – dalle forze di invasione occidentale? E, per traslazione, quanto davvero incide la volontà del popolo libico di liberarsi (da sé) e quanto, invece, l'ingerenza di paesi che ammantano dietro a vaghi concetti come “democrazia” e “diritti umani” quella che in realtà sempre più appare come una nuova epopea coloniale?

Io non so quale delle due versioni dell'ex regime libico sia quella che più corrisponde alla realtà. Non so se siamo di fronte ad un “paradiso terrestre” distrutto dalle bombe della Nato o, di contro, se stiamo assistendo alla distruzione di un “inferno” convissuto tra democratici consessi per più di quarant'anni. Quel che so – ero troppo piccolo per ricordarmi i Balcani, ma ricordo perfettamente l'Afghanistan e l'Iraq – è che, come scrive Guido Olimpio «un esercito ed uno stato democratico devono avere la capacità e la forza del comportamento, non possono scendere al livello di qualcuno che porta una bomba attorno alla vita e si fa saltare».
Perché per la popolazione civile che la guerra la subisce e non la guarda da un televisore non c'è alcuna differenza tra un kamikaze che si fa esplodere al centro di un mercato o una bomba sganciata da un aereo a migliaia di metri d'altezza che colpisce la scuola dove studiano ragazzi disabili.

Concludendo faccio mie le parole di monsignor Giovanni Innocenzo Martinelli, vescovo di Tripoli: «Non so se spetta a noi decidere queste cose (l'eventuale cambio di regime, ndr) o se è meglio lasciar decidere alla popolazione stessa perché possa prendere un cammino conveniente».
Per finire, prima di sentirmi etichettare in maniera completamente sbagliata, occorre precisare che quanto fin qui letto non è una “serenata” al regime libico – è sempre bene specificare per l'Italietta delle “tifoserie”, per cui se contesti “la democrazia” sei senza ombra di dubbio “dall'altra parte” (berlusconiano o come più vi aggrada). Semplicemente non sono passato come tanti – troppi – dal “né con Saddam né con Bush” del 2003 al “con Obama...ma anche con Gheddafi” che sembra aver attecchito negli animi “democraticamente di sinistra” di questo 2011.

Chi parla di umanità vuol trarvi in inganno.
[Pierre-Joseph Proudhon]