How much? - La tratta delle schiave nel Terzo Millennio

Se le manifestazioni che domenica scorsa hanno portato più o meno un milione di persone in piazza non fossero state strumentalizzate in funzione anti-berlusconiana e se, allo stesso tempo, avessimo spostato l'obiettivo dalla collera verso l'individuo (Rubi, Nicole Minetti, etc etc) la cui unica finalità sembra(va) essere quella di trasformare la “chiamata alla dignità femminile” in una distinzione delle donne “perbene” dalle donne “per male” (come nelle intenzioni delle “notabili organizzatrici”) probabilmente non avremmo sprecato un'occasione irripetibile per focalizzare l'obiettivo su quella parte del fenomeno prostitutivo che non trova praticamente mai le prime pagine come la tratta, che continua a prescindere dalle frequentazioni di Arcore e che continuerà nel più totale silenzio anche dopo questa manifestazione (i cui effetti “rivoltosi”, comunque, sono ancora tutti da dimostrare).

Per iniziare questa storia, per andare a guardare cosa succede all'ombra delle “Arcore's Angels” dobbiamo spostarci e tornare indietro nel tempo.

Nel 1967 Pattaya è un piccolo villaggio di pescatori a più o meno 150 chilometri da Bangkok, capitale della Thailandia. È un piccolo villaggio di pescatori costituito da un centinaio di famiglie e nessuna costruzione in cemento.
Ma il piccolo villaggio di pescatori e nessuna costruzione in cemento, in quel 1967, ha un'immensa fortuna (se di “fortuna” si può parlare...), perché in quegli anni in Asia ci sono gli americani. E si sa, gli americani portano soldi, e la Thailandia ne viene letteralmente ricoperta: nascono infatti i programmi denominati “Rest and Recreation”, utili per far rilassare militari impegnati in lunghe guerre di posizione in zone come il Vietnam, la Cambogia, il Laos.
Il governo americano (tramite i propri responsabili delle forze armate presenti in loco) ed il governo thailandese si accordarono per un ingente numero di investimenti nel settore del turismo – cioè investimenti nel relax delle truppe americane – che portò nel primo anno ad un giro d'affari di 5 milioni di dollari. Cifra non certo alla portata della sola economia thailandese (ancor meno lo saranno i 20 milioni registrati nel 1970, a soli due anni dall'avvio del programma).
Ma, come ci insegna Naomi Klein nel libro “Shock Economy”, quando gli americani investono – come tutti i i paesi capital-colonialisti – fanno proposte che non si possono rifiutare. E la “proposta”, nel caso thailandese, prevedeva la più completa impunità per i soldati durante i periodi di soggiorno nel paese e, cosa ancora più importante, per i traffici più o meno legali di chi metteva i soldi.


All'ombra dell'industria del turismo ne nacque un'altra, parallela, del turismo sessuale.
Dietro al paravento dei centri massaggi, infatti, spuntarono come funghi bordelli in cui ragazze prelevate nella maggior parte dei casi con la violenza o la coercizione dai villaggi più poveri del paese venivano letteralmente messe in vetrina. I “clienti” entravano, sceglievano, comunicavano il numero della ragazza prescelta (che potevano leggere sulla spallina del bikini), pagavano e consumavano.
Il senso di ribellione delle ragazze era ridotto al minimo, in quanto spesso non parlavano la stessa lingua degli avventori e, venendo dalle zone più povere e rurali della Thailandia spesso conoscevano solo il loro dialetto, quindi anche esprimersi in thailandese costituiva per loro una enorme difficoltà. Vetrine, numerini e distruzione dell'individualità delle ragazze: la trasformazione in “carne da bordello” era completata.
Le regole del libero mercato – quel mantra che gli americani distribuiscono insieme a guerre e scontri civili – però, ci insegnano un'altra cosa: per essere competitiva un'azienda deve diversificare la propria offerta, e dunque da esclusiva “economia di guerra”, il mercato del sesso in Thailandia divenne ben presto un mercato “globale”, aperto anche a chi una divisa non l'aveva mai indossata.

Secondo i dati dell'UNICEF ogni anno un milione di donne rientra nel traffico di esseri umani a scopo sfruttamento sessuale. Di queste circa il 35% non ha ancora raggiunto la maggiore età. Cifre che appaiono in realtà solo parziali se paragonate a quelle delle organizzazioni non governative che lavorano specificatamente in questo settore, per le quali sarebbero almeno il doppio le donne che ogni anno entrano nel circuito delle migrazioni clandestine a scopo sfruttamento sessuale.
La maggior parte di loro viene "iniziata" alla prostituzione tramite forme di circuizione basate sulla promessa di una vita migliore in paesi considerati ricchi o mediante l'ausilio di pratiche culturali di natura religiosa (come il ju-ju in Nigeria).
  • I dati in Italia:
Il controllo del mercato della prostituzione rappresenta una delle principali entrate per le criminalità organizzate italiane e neanche la crisi economica mondiale sembra averne fatto registrare una seppur minima flessione.Tra le 50 mila e le 70 mila (94% donne, 20% minorenni) le persone che ad oggi sono entrate nel circuito prostitutivo italiano.
Le donne extracomunitarie che ogni anno entrano a far parte del circuito prostitutivo rappresentano circa la metà del mercato totale. Molte di loro - soggette allo status di clandestinità - vengono punite per questo reato ancor prima che possano avere il tempo di denunciare (e quando questo succede non sempre alle denunce seguono gli arresti di chi gestisce il mercato) rendendole così vittime due volte: degli sfruttatori e della cieca repressione delle forze dell'ordine, che spesso utilizzano le retate per rientrare nelle "quote minime" di arresti/espulsioni necessarie a mantenere gli "standard minimi" di efficienza richiesti dalla legge.
Da ciò si intuisce facilmente come la repressione - andando de facto a colpire solo le vittime (e solo una parte di queste, cioè quelle costrette al marciapiede) - altro non sia che uno strumento palliativo per placare l'anima perbenista dell'opinione pubblica. Altrettanto facilmente si intuisce come il dibattito sulla riapertura o meno delle c.d. "case chiuse" (legge Merlin n°75 del 1958) dia sì una maggior tutela, ma agli sfruttatori che hanno capito come la parte di mercato preferita dall'opinione pubblica sia quella più visibile. Ed è in quest'ottica che viene mossa – tra le tante – anche la principale critica al disegno di legge presentato dalla Ministra per le Pari opportunità Mara Carfagna: interessandosi in maniera quasi esclusiva al fenomeno della prostituzione in strada (cioè alla forma, come detto in precedenza, più visibile e dunque più “spendibile” in termini elettorali) e non scagliandosi contro il fenomeno nella sua totalità chi muove i fili del mercato prostitutivo avrà vita facile nel riorganizzare lo stesso in luoghi chiusi e, come ovvio, ben più difficili da controllare sia per le autorità sia per le organizzazioni che combattono la tratta.

D'altronde quella della doppia morale pubblica italiana è questione molto particolare e delicata: che si commettano pure reati, purché questi non siano visibili ad occhio nudo (e la casistica in merito necessiterebbe di trattazione a sé) sembra essere l'unica vera religione che accomuna un po' tutti. Ma questa è un'altra storia...

Da una recente (agosto 2010) indagine del Codacons realizzata con 1500 interviste telefoniche e 230 chiamate ad annunci di accompagnatrici e centri massaggi focalizzata su Milano, Roma e Napoli, emerge non solo come la crisi economica abbia di fatto aperto anche in questo caso al “low cost” cinese (con la completa sparizione dalle richieste dell'offerta prostitutiva omosessuale e transessuale che invece ha i propri spazi nel mercato on-line) ma anche come anche il mercato del sesso sia entrato nell'era del “2.0” con il sempre maggiore uso delle nuove tecnologie (connessioni a banda larga, web-cam etc...).

Ma quanto costa, oggi, una prestazione sessuale a pagamento nel nostro paese (argomento più che mai d'attualità in questo momento)?

Stando sempre a quanto emerge dall'indagine Codacons esiste un mercato per ogni tasca (e, come sappiamo dai quotidiani, per ogni “esigenza”): si va dai 30/40 euro per mezz'ora di tempo da passare in un centro massaggi con una ragazza dell'estremo oriente o in macchina con una ragazza dell'est europeo fino a cifre equivalenti più o meno ad uno stipendio intero a seconda delle richieste specifiche dei clienti ed alla ”autorità gerarchica” della ragazza. In tutti i casi, comunque, gli sfruttatori guadagnano da ogni “protetta” tra i 5 mila ed i 7 mila euro al mese, per un giro d'affari (mensile) che nel solo Belpaese si aggira intorno ai 90 milioni di euro.

Le tariffe dei presunti centri massaggi, vanno maggiorate del 50% per avere a disposizione trequarti d'ora e del 100% per poter fare qualche "giochino', previo accordo, con la ragazza. Per portarsi a casa una delle ragazze ancora in strada si deve pagare il doppio del prezzo e obbligatoriamente riaccompagnarla sul posto di lavoro una volta finita la prestazione. Ma è quando si decide di varcare la soglia di un appartamento di un'italiana, o di una sudamericana, che si deve mettere in conto il rischio di spendere quasi un intero stipendio. Infatti, in queste alcove d'amore - che se si è fortunati possano anche vagamente ricordare il set di un film pornografico - tutto ciò che va oltre una normale prestazione sessuale sul letto fa lievitare la tariffe: 20% in più per consumare la prestazione in un posto della casa insolito e scomodo per chi vi ospita, 30% per fare la doccia in sua compagnia, 50% per la seconda prestazione (e 25% per le successive), 100% per ogni "giochino' fino a 500 euro per l'intera notte, previo accordo numero fisso di atti sessuali.

Già, i clienti. Anche qui si registrano numeri esorbitanti: nonostante velleità moraliste e finto-cattoliche, infatti, sono circa 9 milioni i clienti del mercato del sesso, di cui l'80% chiede rapporti non protetti (richiesta esaudita nel 45% dei casi). Peraltro è quasi impossibile delineare il profilo del “cliente medio”, perché la forbice anagrafica prevede un arco 16-80 anni. Si sa, però, che circa il 70% di loro ha moglie e figli e che tra le motivazioni principali ci sono il senso di solitudine e la difficoltà nell'instaurare rapporti con l'altro sesso.
  • Le tratte
Se volessimo rappresentare il fenomeno prostitutivo nell'ambito dei movimenti migratori verso il nostro paese il flusso più ampio (48%) verrebbe dai paesi dell'Est europeo, seguiti dall'Africa (22%), dalla tratta interna (16%) e dall'America Latina (10%) anche se, come abbiamo visto in precedenza, l'ingresso nel mercato delle ragazze cinesi ha di fatto cambiato gli equilibri in campo.


- Il business dagli occhi a mandorla
fonte: Sismi, Sisde

Andando ad analizzare più nel dettaglio dobbiamo partire proprio da questo nuovo mercato, gestito con quello stesso mix tra capitalismo e comunismo che fa della Cina il principale avversario del capitalismo occidentale (e americano in particolare). Si pensi che a Roma – dove gli affari giravano intorno al night “Diamante” nel quartiere Casilino – la mala cinese che gestisce questo traffico si era addirittura dotata di un call center e di un “responsabile reperimento appartamenti” (tra le 35 e le 50 unità stando alle dichiarazioni del sostituto commissario della Squadra mobile romana Mario Belfiori): Guan Whenzu si chiamava. Ma, naturalmente, al nome non corrispondeva nessuno. Il marketing del sesso dagli occhi a mandorla prevedeva anche uno slogan ufficiale usato per reclamizzare locale e ragazze.

Prezzi “popolari” e individuazione al dettaglio del target sono le parole d'ordine dell'offerta cinese, gestita – all'interno del più ampio traffico di esseri umani – dalla mafia cinese nazionale, che però “delocalizza” l'amministrazione delle ragazze appena arrivate a bande che non sempre sono riconducibili alle famiglie mafiose: in Toscana, ad esempio, il business è gestito dalle gang giovanili.

Così come avveniva per la Thailandia della fine degli anni '70, anche gli sfruttatori cinesi adoperano la leva linguistica per rendere ancora meno offensive le ragazze: gli uomini infatti vengono dalla provincia orientale dello Zhejiang, mentre le ragazze vengono prelevate per lo più dalla provincia nord-orientale del Liaoning, dallo Yunnan (sud-ovest), dal Sichuan o dal Guizhou. “Prelevate” quando solitamente non hanno ancora raggiunto i vent'anni d'età contraggono un vero e proprio debito di natura monetaria con il proprio sfruttatore, dato che le ragazze, provenienti per lo più da famiglie povere, non possono pagarsi il viaggio verso l'Europa. La cifra che dovranno ripagare oscilla tra i 30 mila ed i 40 mila euro, a fronte dei 100-150 euro al giorno che riescono a guadagnare prostituendosi. Si capisce bene che firmare un accordo di questo tipo è, di fatto, cedere la propria vita agli sfruttatori, il cui giro d'affari – invece - è di circa mille euro al giorno.

È un mercato dalla forte diversificazione quello cinese, lo abbiamo detto. Alle ragazze cinesi, infatti, si aggiungono thailandesi, birmane e vietnamite – paesi spesso usati come “scuola” per un successivo sbarco nel mercato occidentale – alle quali, negli ultimi tempi, vanno aggiunte anche ragazze provenienti da Ucraina e Russia. Alcune finiscono in paesi come la Malesia o la stessa Thailandia o vengono destinate al mercato interno (Yang Fan, economista, ha calcolato che nel paese ci siano circa 20 milioni di prostitute, che danno origine a circa il 6% del Prodotto Interno Lordo). Per tutte le altre si aprono le porte del ricco Occidente.
La porta d'ingresso è Parigi, dove le ragazze arrivano con visto turistico aggregate alle comitive che dalla Cina partono per turismo (questa volta “senza aggettivi”) verso la capitale francese. Dopo qualche settimana il responsabile del gruppo denuncia la scomparsa all'ambasciata e, a quel punto, le ragazze diventano fantasmi, sbarcando prima a Torino e poi venendo smistate laddove è necessario.
Il mercato cinese, peraltro, ha la particolarità di fornire due tipi di “servizio” ben definiti a seconda di nazionalità e censo del cliente: le ragazze migliori vengono riservate ai cinesi e/o a persone dal censo elevato e dal portafogli pieno.

Come accade – vedremo a breve – per la tratta delle ragazze nigeriane, anche quella cinese è gestita da donne, spesso prostitute (o ex prostitute) che hanno scalato i vertici gerarchici dell'organizzazione.

Al mercato prostitutivo, peraltro, i cinesi legano a doppio filo anche il mercato della droga (spesso usata negli incontri tra ragazza e cliente), in particolare di una droga che gli inquirenti italiani hanno iniziato a conoscere proprio dal blitz al night club romano: la K-fen, droga sintetica derivante dalla chetamina che essendo tagliata a granuli può essere sniffata oppure sciolta in qualche bevanda.

- Nigeria: tra riti vodoo e Centri di Identificazione ed Espulsione

Isoke Aikpitany e Claudio Magnabosco
Se il mercato cinese è il “nuovo che avanza”, nel mercato del sesso in Italia continua ad avere un ruolo importante la tratta africana, in particolare quella nigeriana.

La storia di Joy abbiamo imparato a conoscerla in tanti: arrivata in Italia con l'illusione di un lavoro sicuro (in una corrispondenza con Radio OndaRossa disse che le era stato prospettato un posto come parrucchiera, cioè lo stesso lavoro che aveva in Nigeria): arrestata in una delle tante retate delle forze dell'ordine e, da clandestina, inviata al C.I.E. di via Corelli a Milano, subisce le “attenzioni” dell'ispettore Vittorio Addesso (assolto qualche giorno fa, come potete leggere qui: http://senorbabylon.blogspot.com/2011/02/lo-stupro-non-e-un-reato-se-porti-una.html) alle quali, a differenza di molte altre, decide di ribellarsi denunciando l'ispettore.

Ma Joy è solo una delle tante, tantissime ragazze che finiscono nelle mani del racket nigeriano.
Come per il racket cinese, anche il primo passo di questa tratta è costituito da un contratto: gli sfruttatori, partendo da villaggi poveri come le bidonville di Lagos o Benin City si offrono di aiutare le ragazze sostenendo per loro le spese per il viaggio in Europa. Lo “sponsor”, cioè la persona che si incaricherà di trasferire la ragazza dalla Nigeria all'Europa in molti casi è solitamente una persona degna della fiducia della famiglia, alla quale spesso viene chiesta anche una garanzia materiale (case o terreni). Quando tale garanzia non esiste – perché la famiglia non possiede né case né terreni né altri beni – si ricorre al rito del ju-ju, molto simile a quello che noi definiamo “vodoo” e che prevede l'avvenimento di qualche disgrazia alla famiglia se la ragazza non pagherà per intero il debito. Solitamente la cifra iniziale è ben conosciuta da quest'ultima, che però spesso ignora l'esistenza di costi aggiuntivi (vitto, alloggio etc) che aumentano esponenzialmente l'ammontare del debito.

Può suonare strano alle orecchie “monoculturali” italiane, ma in Nigeria la prostituzione non è affatto vista in termini negativi, dunque una donna diventata ricca sfruttando il proprio corpo in questo modo è ritenuta una persona meritevole e di valore. È per questo che in Italia ad attendere le ragazze c'è sempre una maman (o madame), cioè una ex prostituta che, dopo aver estinto il proprio debito si è spostata “dall'altro lato”, passando da sfruttata a sfruttatrice. Definirla però come “sfruttatrice” semplificherebbe troppo una delle figure fondanti dell'architettura del racket nigeriano che, come in quello cinese, vede le donne nei posti chiave. Essa è infatti più simile ad una “matrigna”, che però gode della stima delle ragazze che le vengono affidate proprio perché vista come una donna “che ce l'ha fatta”.
È la maman, una volta arrivate in Italia, ad essere referente unica delle ragazze. Sarà infatti a lei che dovrà essere ripagato il debito (tra i 10 mila ed i 15 mila euro) al quale vanno aggiunti – come dicevamo – costi aggiuntivi come il “joint”, cioè il pezzo di marciapiede occupato dalle ragazze il cui costo si aggira tra i 400 ed i 500 euro.

Le prime ragazze ad essere portate nel nostro paese dalla Nigeria arrivano negli anni '80, con un vero e proprio boom tra il 1989 ed il 1994. Quelle stesse donne, oggi, sono spesso a capo del business. Nel corso degli anni, comunque, sono cambiate sia le richieste della clientela – oggi infatti si preferisce far arrivare in Italia ragazze ancora minorenni – che le tratte: se negli anni a cavallo tra gli Ottanta ed i Novanta, infatti, dalla Nigeria si arrivava direttamente a Roma, oggi il viaggio segue la rotta Nigeria-Russia-Svizzera-Italia, anche se spesso capita che dalla Russia le ragazze vengano portate a Parigi, Francoforte od Amsterdam per poi arrivare – spesso rinchiuse nei bagagliai di qualche automobile – a Torino, da dove poi prenderanno altre destinazioni nel paese. Negli ultimi tempi – com'è peraltro testimoniato anche dal libro di Fabrizio Gatti “Bilal” - si è aperto anche un valico nel traffico che sfrutta i canali clandestini “soliti” e che spesso prevede che le ragazze inizino a prostituirsi già in Libia.

Un'altra delle tante particolarità del racket nigeriano è che il contratto stipulato in partenza (di fronte ad una figura simile al nostro notaio) una volta estinto libera davvero la ragazza, anche se è a questo punto che le cose si fanno seriamente complicate: difficoltà nel crearsi una vita nuova e diversa lontana dalla stigmatizzazione della società, difficoltà a trovare un lavoro alternativo e paura del giudizio dei propri familiari (in aggiunta alla povertà) che mette agli ultimi posti la scelta di ritornare nel proprio paese di origine, fanno sì che le ragazze difficilmente escano dal giro.
L'unica via d'uscita reale, quindi, rimangono i clienti: «il 90% delle ragazze nigeriane» – spiega Claudio Magnabosco, fondatore del progetto “La ragazza di Benin City” - «esce dalla tratta proprio grazie al cliente o ex cliente diventato amico, fidanzato o marito», esattamente come è successo ad Isoke Aikpitany, oggi moglie di Claudio. «Basterebbe darci un'opportunità» - spiega Isoke - «un permesso di soggiorno anche breve, sei mesi, per cercare un lavoro vero. In cambio dei documenti, invece, le autorità pretendono che denunci qualcuno». L'intento del progetto da loro creato, infatti, mira esattamente a sensibilizzare i “consumatori”, trasformandoli da clienti in risorsa per una vita migliore delle ragazze.

- Il vento dell'est

La struttura del racket dell'area est-europea è molto semplice: spesso era il fidanzato a diventare ponte tra il paese d'origine e l'Italia dietro la promessa - come al solito - di una vita migliore (il primo passo per il trasferimento solitamente era la possibilità di sposarsi). Una volta in Italia però, il mix tra amore e paura rendevano molto difficile la ribellione per le ragazze. Ciò deriva anche dalla struttura sociale di molti dei paesi di origine: nel caso dell'Albania, ad esempio, sulla donna viene esercitato un vero e proprio diritto di proprietà, che viene traslato dal padre (e dai fratelli) al marito e dove si può arrivare addirittura ad esercitare - attenendosi al codice consuetudinario kanuné - il diritto di morte sulla ragazza.
Questa del diritto di proprietà, peraltro, è una storia che a noi dovrebbe ancora suonare familiare, visto che fino a non molto tempo fa nel nostro ordinamento esistevano cose come il "delitto d'onore" o l'adulterio inteso come reato solo se ad esercitarlo era una donna.

Il racket di quest'area è tra quelli più radicati nel nostro territorio, dove sono principalmente esponenti dei clan albanesi a gestire i traffici illeciti (prostituzione, armi, droga e trasporto clandestini le prime voci di guadagno).

Le rotte che da quest'area portano le ragazze sui marciapiede (nei locali o nei centri massaggi) italiani sono molteplici e si sono andate modificando nel tempo: in una prima fase - quando il racket riguardava principalmente ragazze albanesi - tappa obbligata prima di entrare nei confini nostrani era, appunto, l'Albania. Oggi, con "l'apertura" del mercato anche a ragazze di altre nazionalità (rumene, moldave, ucraine e russe su tutte), vengono introdotte sulle vecchie rotte degli sbarchi di cui le cronache ci raccontavano anni fa. Altre volte il tragitto non è così lineare, e le ragazze arrivano in Italia solo dopo lunghi e numerosi viaggi (ed altrettanto numerosi "passaggi di proprietà").

Il volume d'affari annuale oscilla tra i 2,2 ed i 5,6 miliardi di euro all'anno, soldi che in parte ritornano nel paese d'origine sia per essere reinvestiti in altri traffici sia per consolidare il potere dei clan attraverso l'ostentazione della ricchezza.

- il sodalizio calabro-albanese:

«Vi sembra che arrivano gli albanesi e si mettono a comandare? Ma scherziamo? La 'ndrangheta gli taglierebbe la testa subito. Loro sopravvivono e prosperano perché non sono davvero autonomi»

A dirlo è Giuseppe Di Bella, pentito, nel libro "Metastasi" di Gianluigi Nuzzi (autore anche di Vaticano S.p.A.) e Claudio Antonelli di Libero.

Che si possa credere o meno all'utilità del "fenomeno-pentiti", quel che è certo è che le nostre organizzazioni criminali non amano certo la concorrenza, anche se il sodalizio tra la 'ndrangheta e quella che piano piano è diventata la quinta mafia italiana sembra essere evoluzione naturale nei rapporti diplomatici tra le organizzazioni. La struttura della mafia albanese e della 'ndrangheta infatti sono molto simili: l'organizzazione è orizzontale e non verticistica (assenza di una "cupola") in ambedue i casi ed i clan che le compongono sono legati tra loro da legami di sangue. Così come per la 'ndrangheta, peraltro, anche la mafia albanese si regge su un massiccio uso di rituali e tradizioni. Essendo basate su legami di sangue, peraltro, tradire la 'ndrina o il clan pentendosi equivale a tradire la propria famiglia (perdendo così l'onore che è alla base dell'autorità dell'affiliato).

Ma il sodalizio non è solo legato ad aspetti strutturali. Fin dagli anni '70 è infatti attivo un canale preferenziale tra 'ndrangheta (ed in parte camorra) con i clan albanesi per la spartizione degli introiti dei traffici di prostitute, armi e droga di provenienza balcanica, così come risulta dall'inchiesta del 2005 denominata "Harem" che svelò la struttura di una vera e propria holding criminale.

Che si indaghi sul racket cinese, su quello africano o su quello dell'area est-europea, una costante nel mercato del sesso è quello relativo al mercato delle e dei minori.

- Sesso e minori: non solo Ruby

Non esiste un racket specifico per il traffico di minori a scopo di sfruttamento sessuale. Troviamo casi in America Latina, in Asia, Africa e nella "civile" Europa, anche se la caratteristica peculiare è che il transito rispetto alle tratte fin qui analizzate è rovesciato: sono infatti i clienti, tramite la pratica del "turismo" sessuale, ad andare nei paesi d'origine delle e dei minori.

Definire delle cifre esatte è praticamente impossibile, perché in molti casi le età vengono ritoccate aumentandole o diminuendole a seconda delle necessità. Si parla però di un traffico che si aggirerebbe intorno al milione e duecentomila minori rapiti, venduti e comprati per essere impiegati sia nel mercato del sesso sia per altre attività illegali come l'accattonaggio o per il traffico delle adozioni illegali e dell'espianto di organi. Secondo molti ricercatori il fatturato dello sfruttamento sessuale dei minori sarebbe, per le organizzazioni criminali, una voce addirittura più profiqua del mercato della droga. Come denuncia Ecpat-Italia, quello che in un anno viene speso dai governi per contrastare questo traffico equivalgono a quanto i trafficanti riescono a guadagnare in un solo pomeriggio. D'altronde il giro d'affari - stando sempre ai dati Ecpat - è terrificante: ogni anno almeno 600.000 persone si muoverebbero con l'unico scopo di avere rapporti sessuali con minorenni. L'unica certezza è che nelle casse degli sfruttatori entrano per questo traffico poco meno di 5 miliardi di dollari l'anno.

Le forme principali di sfruttamento della prostituzione infantile sono due: l'impiego nei bordelli - metodo utilizzato per lo più nelle zone dell'area asiatica - o la prostituzione di strada, costante dell'America Latina.

Se nel mercato del sesso degli adulti a farla da padrone sono l'area est-europea e nigeriana (ma, come abbiamo visto, forte è la spinta delle organizzazioni criminali cinesi), per quanto concerne il mercato dei minori il centro degli affari è l'Asia: Bangladesh, Cambogia, India, Indonesia, Nepal e Pakistan e Thailandia sono i paesi a più alto tasso di sfruttamento sessuale di minori. Segue a breve distanza l'America Latina, con il primato che spetta al Brasile.

Per quanto riguarda questi mercati, la scelta delle e dei minori è molto selettiva: non hanno terminato le scuole primarie (più della metà neanche ci è mai entrato) e devono sottostare ad una media che varia tra i due ed i sei rapporti sessuali al giorno (nel 95% dei casi non protetti).

Nel nostro paese sono centinaia i minori coinvolti in questo traffico, dove ancora emerge la mano della criminalità albanese a monopolizzare il mercato. Sono circa 2.000 le bambine che formano l'esercito delle baby-prostitute. Età minima 7 anni (a fronte dei 12 di bambine e bambini asiatici).
Nel 2004 è stata presentata la prima relazione sull'applicazione della legge 269 del 1998 (che ha parificato lo sfruttamento sessuale dei minori alla riduzione in schiavitù): l'incremento dei denunciati variava dal +600% al +1000%.

Naturalmente questo traffico - che avviene quotidianamente sotto i nostri occhi - entra nel circuito mediatico solo in casi molto rari. Ma questa è un'altra storia...

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