La terza via della Fiat


Torino - Il messaggio è arrivato forte e chiaro: se al referendum in programma giovedì e venerdì a Mirafiori non dovessero vincere i sì – cioè non dovesse passare la linea patronale – la FIAT non investirà più nello stabilimento e farà un passo ulteriore verso la dipartita dall'Italia.
Ma sarebbe davvero una perdita così devastante? Davvero non c'è alternativa al diktat di Marchionne?
A me sembra che un'alternativa, concreta e funzionante, a volerla vedere sia sotto gli occhi di tutti. Ma prima di arrivare a capire quale sia questa eventuale “terza via” bisogna porsi un'altra domanda, forse ancor più importante del dibattito “lavoro o diritti?” di questi giorni: la FIAT è ancora utile all'Italia o stiamo continuando a foraggiare (con 500 milioni di aiuti pubblici all'anno, checché ne dicano gli annunci della dirigenza) una zavorra i cui investimenti potrebbero essere usati in maniera diversa?

Se guardiamo al mercato – quanto meno a quello europeo – c'è un'unica risposta che si possa dare: la FIAT ormai da tempo ha perso in termini di competitività ed i numeri sparati – letteralmente – dall'amministratore delegato sono destinati a rimanere puro fumo negli occhi: non ci saranno né i 6 milioni di autovetture del mercato globale né quel milione e 600mila veicoli destinati al solo mercato italiano (da ciò se ne dovrebbe dedurre senza troppe difficoltà che non ci saranno neanche quei 20 miliardi in investimenti promessi e di cui, al momento, se ne sono visti a malapena un paio...).
Tutti questi numeri saranno destinati a non avere riscontro nella realtà per la conformazione stessa del mercato dove, ad un'offerta su cui sarebbe bene iniziare seriamente ad interrogarsi, non corrisponde una domanda tale – in termini quantitativi – da poter sopperire all'evidente surplus dell'offerta, attestato su livelli del +30-40% (cioè quasi mezzo mercato in più) in Europa e negli Stati Uniti e dove, come scriveva il Sole 24 Ore qualche giorno fa, anche il mercato cinese sembra andare nella stessa direzione, con una previsione nel prossimo quinquennio di una sovrapproduzione prevista intorno a quote del 20%.
È evidente, dunque, come a queste condizioni il mercato dell'auto non sia più un “mercato-rifugio” per il nostro paese.

Ma, come dice il famoso proverbio, le sciagure viaggiano in coppia e dunque ad una sempre maggior saturazione del mercato dobbiamo aggiungere anche la totale assenza di un progetto per il futuro del Lingotto. A parziale giustificazione, comunque, bisogna sottolineare come l'assenza di un piano industriale sia una evidente scelta politica che arriva direttamente dalla classe dirigente (e l'aver tenuto un ministero – quello dello Sviluppo Economico – vacante per mesi ne è un chiaro ed eloquente indizio).

La FIAT non investe più nel proprio futuro. Né in quello a breve termine (ed il diktat di Marchionne: «o così o ce ne andiamo» è lì a ricordarcelo) né in quello a medio-lungo periodo. Mentre i concorrenti apportano migliorie e si aprono alla sempre maggior necessità di fare i conti con l'impatto ambientale, la casa di Torino investe quote irrisorie in tali campi (ignorando quasi completamente quest'ultimo) e, per far fronte alle ovvie perdite (che comunque permettono all'a.d. di guadagnare qualcosa come 1037 volte lo stipendio di un operaio...) decide di disfarsi di alcuni comparti – Alfa Romeo, parte della Ferrari – creando al contempo le “bad company” utili solo a ripulire la parte appetibile al fine di poterla vendere (o svendere, dipende dai punti di vista) meglio.

Arriviamo così alla seconda domanda: cos'è, oggi, la FIAT? È ancora un'industria che produce automobili (e non solo) oppure si è trasformata in una mera attività finanziaria utile solo alla speculazione?
Per rispondere a tale quesito bisogna guardare le carte attualmente sul tavolo, ricordando come Marchionne – per sua stessa ammissione – si senta responsabile solo verso gli azionisti (ovviamente quelli con quote di una certa consistenza).
In tal senso bisogna fare un plauso alla bravura dell'a.d. Italo-canadese. Nel primo semestre del 2010 infatti – come scrive la rivista “Automotive News” - la società torinese è leader della classifica della redditività per gli azionisti, con un ritorno complessivo sul capitale del 32,9% (seguono BMW 28,4%; Renault al 22,6%; Volkswagen al 15,5% e Daimler a 10,7%). Che poi, nello stesso momento in cui gli azionisti guadagnavano, la FIAT guidasse anche la classifica relativa alle perdite di quote nel mercato continentale (con un -36,4% ad ottobre, cifra che peraltro ha subito incrementi fino allo scorso dicembre) sembra non interessare né all'amministratore delegato né alla proprietà. Va anche detto, comunque, che le perdite si registrano solo nel comparto automobilistico, mentre si registra una forte ripresa – ad esempio – nel settore dei veicoli industriali e delle macchine movimento terra e agricole.
In tal senso, dunque, sembra evidenziarsi quantomeno la necessità di aprire un dibattito – per FIAT e, ovviamente, per il paese tutto – in merito all'eventualità di stoppare ogni velleità del Lingotto nel mercato automobilistico per rivolgersi a mercati in cui l'azienda possa ancora avere qualcosa da dire.

È poi necessario fare un breve excursus sulla “fuga di cervelli” avvenuta in casa FIAT: dal 2007 Walter de Silva – ideatore dell'Alfa 147 e della 156 – oggi disegna per Audi, Lamborghini, Volkswagen, Bentley, Bugatti, Skoda e Seat (tutte riferibili al gruppo Volkswagen); Chris Bangle (Fiat Coupé e Alfa 145) è stato fino a febbraio 2009 a capo del centro stile BMW ed anche Luca de Meo – ex responsabile marketing del Lingotto – oggi è a capo del marketing della sezione autovetture del gruppo Volkswagen. Anche in questo caso, comunque, il gruppo torinese ha una notevole – e conosciutissima – giustificazione.
A volerne tener conto, a questo punto, bisognerebbe chiedersi se il vero problema in casa FIAT non sia una dirigenza sempre meno capace di stare al passo con tempi e sfide del nuovo millennio, chiedendosi dunque se il modello gestionale del Lingotto sia ancora applicabile.

Arriviamo così alla “terza via”.
«Noi sappiamo fare le auto, le facciamo da oltre cento anni!» diceva un operaio durante un servizio della puntata di ieri de “L'Infedele”. Già, gli operai. Ho volutamente lasciato per ultimo chi – in ogni caso – subisce e, probabilmente, continuerà a subire gli effetti della “rivoluzione dall'alto” (come l'ha definita ieri sera Gad Lerner) di Marchionne per un semplice motivo: credo siano la soluzione migliore per risolvere al meglio la situazione. Perché per quanto sia vero che sono i “padroni” a metterci i soldi, è altrettanto vero che sono gli operai con il loro lavoro a fare la grandezza di un marchio, per cui chi meglio degli operai può rappresentare il futuro dell'azienda? Avrebbero peraltro tutto l'interesse non solo a lavorare nel migliore dei modi, ma anche a tenere il livello dell'azienda su standard il più possibile elevati lavorando in costante aggiornamento e, diventando anche proprietari, avrebbero tutto l'interesse a non tralasciare aspetti fondamentali come la sicurezza (voce che, invece, è la prima ad essere tagliata in un sistema dove i padroni sono solo proprietà e non anche forza lavoro, come ha purtroppo insegnato l'”incidente” della Thyssen-Krupp del dicembre 2007).
In un sistema simile, ovviamente, bisognerebbe attraversare un periodo di amministrazione controllata/nazionalizzazione (chissà cosa succederebbe se il controllore divenisse la Fiom?), ma in Argentina qualche anno fa, applicando questo sistema trovarono il modo di uscire dalla crisi economica in cui l'aveva gettata il Fondo Monetario Internazionale .


E poi lo diceva anche Mario Monicelli già nel 1963 che la fabbrica è di chi ci lavora...