Da Sakineh ad Omar Khadr: c'è un uso (geo)politico dietro le campagne per i diritti umani?

Nelle scorse settimane il mondo occidentale era pronto a mobilitarsi per Sakineh, la donna iraniana che – accusata di omicidio – sarebbe stata lapidata se non fosse intervenuta la c.d. “opinione pubblica internazionale”. Poi, come succede solitamente quando anche l'agenda setting dei diritti umani viene decisa in base a ragioni geopolitiche, la sua storia è caduta nel dimenticatoio...

Quella specifica situazione – che ha avuto un nuovo passaggio infinitamente meno “strillato” sui nostri media nei giorni scorsi – può avere due chiavi di lettura: quella di una donna che, accusata di omicidio, viene messa a morte secondo le leggi in vigore in Iran, oppure la si può leggere come l'ennesima vetrina utile per descrivere la teocrazia iraniana nella sua forma mefistofelica, operazione che si rende necessaria a livello geopolitico per creare nell'opinione pubblica occidentale (non ho modo di verificare se la stessa cosa avvenga anche nel resto del mondo...) le basi per un futuro attacco – più o meno celato – al regime degli ayatollah.
Da qui la domanda: non è questo, forse, un uso politico – e geo-politico – dei diritti umani? Quanti “casi-Sakineh” (o forse sarebbe meglio dire quanti “casi-Teresa Lewis”) ci sono quotidianamente? E di quanti di essi veniamo realmente informati?

Non ho intenzione di aprire il casellario di “nera” e citarvi quello che credo sarebbe un lungo elenco (anche perché quando nasci nel paese in cui la cronaca nera è usata come peep show con cui intrattenere il pubblico ne sviluppi una certa idiosincrasia...) . Per rispondere a queste domande, però, dobbiamo fare un salto all'indietro:

Afghanistan, 27 luglio 2002. Durante uno degli innumerevoli scontro tra le forze della Coalizione ed i taleban, avvenuto a seguito dell'omicidio di un soldato americano di nome Speers viene arrestato Omar Khadr, di anni 15. Omicidio, tentato omicidio, cospirazione, affiliazione terroristica e spionaggio sono i cinque capi di accusa che costano al giovane (sangue pakistano e cittadinanza canadese) il soggiorno presso il carcere di Guantánamo Bay, Cuba, dove ha trascorso gli ultimi sette anni della sua vita.

«Io ho l'obbligo di mostrare al mondo ciò che succede quaggiù. Sembra che quanto fatto finora non sia bastato, ma forse funzionerà se il mondo vedrà gli Usa condannare un bambino al carcere a vita. E se nessuno dovesse accorgersi di nulla, in quale mondo verrei rimesso in libertà? In un mondo fatto di odio e di discriminazione».

Sono le parole pronunciate dallo stesso Khadr il 13 ottobre scorso, quando gli Stati Uniti d'America – grazie anche al profluvio di parole del giudice Patrick Parrish, uno di quei giudici contro cui tante volte ci siamo scagliati cantando De André – hanno assicurato alla giustizia un altro “terrorista”. In quella data, infatti, si è arrivati ad un accordo tra l'ex “ospite” della base di Bagram prima e di quella cubana poi e la procura militare americana (leggere alla voce: Pentagono). Accordo che non prevedeva la sconfitta del “sistema” americano: dichiararsi colpevole o scontare l'ergastolo. Erano queste le due scelte possibili. Scelte che avrebbero avuto modo di esistere se fossero reali le condizioni di partenza, visto che non solo quei cinque capi d'accusa di cui sopra sono fasulli, ma anche la “confessione” di Omar Khadr è completamente falsa, estorta con la violenza – fisica, verbale e psicologica – che costituisce la base della “Dottrina Cheney” (qui: http://it.peacereporter.net/videogallery/video/12283 il video di PeaceReporter in cui Khadr confessa di aver subito violenza).

Qui potremmo aprire un altro capitolo della lunga saga della “Guerra al Terrore” e parlare delle carceri segrete, esattamente come quella di Bagram – a nord di Kabul – dove è stato rinchiuso anche Khadr. «Venivamo confinati senza motivo in celle solitarie, dove subivamo abusi e violenze di ogni genere e ci veniva impedito di assolvere ai nostri riti religiosi. Oltre a questo venivamo privati pure del cibo e della luce del giorno. Era come dormire in un frigo», dice uno degli ex detenuti. Ma per gli Stati Uniti tutto procedeva regolarmente ed il trattamento riservato agli “ospiti” (termine con il quale si è soliti indicare i detenuti di Bagram come quelli di Guantánamo Bay) era assolutamente umano. Rimane il dubbio, però, di quale sia lo standard americano per definire cosa è “umano” e cosa non lo è.
Ne è esempio emblematico quello che avviene in un sobborgo di Ghazni (capoluogo dell'omonima provincia nell'est dell'Afghanistan) circa un anno fa, il 19 novembre 2009: sono le ore 3.15 del mattino, le forze speciali americane – alla ricerca di infiltrati della rete di Al Quaeda – hanno appena fatto saltare il cancello della casa di Mujidullah Qarar, portavoce del ministero dell'Agricoltura. Hamidullah, uno dei parenti del portavoce – che in quei giorni è a Kabul – corre fuori per vedere cosa sia successo. Appena varcata la soglia i G.I. americani gli sparano addosso, così come faranno con Azim, cugino di Hamidullah. Mentre i due muoiono dissanguati, i soldati iniziano la perquisizione dell'edificio finché non arrivano al loro obiettivo: Habib-ur-Rahman, un giovane informatico che lavora per il governo traducendo in paʂto – la lingua ufficiale afghana - le applicazioni di Windows. Evidentemente questo per gli americani è considerato “terrorismo”, in quanto lo step successivo alla ricerca è il “prelevamento”: Rahman e suo fratello vengono legati, portati fuori e caricati su un elicottero per poi essere incarcerati in una piccola base militare, dove il trattamento loro accordato non è certo quello dell'Hilton.

Mujidullah Quarar, informato dell'accaduto, fa quello che chiunque di noi farebbe: sfrutta la sua posizione gerarchica per chiedere il rilascio di Rahman (suo fratello è stato rilasciato dopo due giorni di reclusione) e per chiedere giustizia per l'uccisione immotivata degli altri due cugini. Probabilmente i santi nel cielo afghano si distraggono facilmente, visto che Quarar non riesce ad ottenere né giustizia né informazioni sull'accaduto. «Che bisogno c'era di uccidere due miei cugini? Tutti sanno che lavoriamo per il governo!» - ha dichiarato Qarar alla stampa - «Sono sempre andato in televisione a dire alla nostra gente di sostenere il governo e gli stranieri: mi sbagliavo! Perché mai dovremmo farlo? Mi licenzino pure, ma la verità è questa!». Se un giorno qualcuno deciderà di scrivere un manuale su “Come creare un terrorista in 10 mosse” questo episodio dovrebbe essere inseritovi di diritto. Ma questa è un'altra storia...

Torniamo ad Omar Khadr ed a quello che dovrebbe essere un caso emblematico di difesa dei diritti umani in cui attivarsi a livello globale: se – come abbiamo visto in precedenza – le accuse a Khadr sono false, come giustificare i sette anni già scontati e gli otto (uno in America e gli altri sette in Canada) comminatigli dall'accordo che gli eviterà il carcere a vita? Non sarà che forse una delle cause della carcerazione è Ahmed Said Khadr (il padre di Omar) sospettato di essere stato finanziatore di al-Quaeda?

L'Unicef ha espresso forti dubbi sulla legalità del procedimento, in quanto i paesi firmatari del “Protocollo opzionale sul coinvolgimento dei bambini nei conflitti armati” - tra cui gli Stati Uniti – hanno l'obbligo di assistere i bambini-soldato, in particolare nella fase immediatamente successiva alla loro liberazione dal contesto di guerra. Secondo la stessa organizzazione internazionale peraltro, in questo modo l'amministrazione Obama (che ha vinto il Premio Nobel per la Pace anche per aver promesso la chiusura della base di Guantánamo Bay entro gennaio 2010...) starebbe creando un pericolosissimo precedente che mette a rischio le migliaia e migliaia di bambini-soldato attualmente coinvolti nei conflitti in giro per il mondo. Qui, però, credo si debba fare un po' di chiarezza semantica: se – come comprovato anche dalla “contro-confessione” video – ad Omar Khadr non si può attribuire nemmeno uno dei capi d'imputazione con cui gli Stati Uniti lo stanno processando, è giusto parlare di lui come di un bambino-soldato? C'è una differenza abissale tra la vicenda di Omar Khadr e quella di Ishmael Beah, che il bambino-soldato l'ha fatto davvero (tanto da scriverci un libro sopra: http://senorbabylon.blogspot.com/2010/02/e-voi-divertirvi-andate-un-po-piu-in-la.html), quindi per come la vedo io è sbagliato anche presentare la notizia del processo-Khadr come il processo ad un “bambino-soldato”.

Ma, indipendentemente da quelle che sono mie considerazioni personali sulla terminologia utilizzata la domanda rimane: quanto ha influito nella vicenda di Sakineh il fatto che l'Iran sia il prossimo obiettivo nella guerra geo-strategica americana e quanto sta influendo nel nostro disinteresse (e quello, preventivo, dei media mainstream) il fatto che Khadr stia testimoniando che «gli Usa condannano un bambino al carcere a vita»? Quante campagne di solidarietà e per la difesa dei diritti umani sarebbero state fatte se Omar Khadr si fosse chiamato John Smith e invece che in America fosse stato processato in Iran o in qualche altra parte del mondo "brutto, sporco e cattivo"?


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