War on (T)Errorism: la guerra in Iraq e l'esilio vietato a Saddam Hussein

[http://www.youtube.com/watch?v=KwfDHXT7RBM per chi non riuscisse a visualizzare il video]

Baghdad (Iraq) - È il 30 dicembre 2006. Il leader iracheno Saddām Husayn ʿAbd al-Majīd al-Tikrītī viene giustiziato per impiccagione dalle forze alleate che ormai da tre anni gli danno la caccia.

Con quell'impiccagione il mondo vedeva uno dei suoi peggiori incubi – il regime iracheno e le armi di distruzione di massa in suo possesso – definitivamente concluso. Il cittadino medio poteva finalmente tornare a dormire sonni tranquilli perché, come nelle migliori produzioni hollywoodiane, il bene aveva trionfato di nuovo. O forse no?

Siamo ai primi di febbraio del 2003: Colin Powell – allora Segretario di Stato del primo governo di George W. Bush – presenta in sede ONU le incontrovertibili prove in possesso degli americani che testimoniavano non solo le innumerevoli violazioni della risoluzione 1441 [http://www.un.org/News/Press/docs/2002/SC7564.doc.htm] ma anche la presenza delle armi di distruzione di massa che, si diceva, in breve periodo il leader iracheno avrebbe di certo venduto ad Al Quaeda, con la quale certe erano le connivenze.

«Saddam ha scorte per armare almeno 16.000 testate con agenti chimici o biologici. L'iraq ha già testato le armi chimiche sulle persone utilizzando dei condannati a morte come cavie e non ha giustificato neanche un cucchiaio dell'antrace che ha prodotto» disse Powell durante la sua “deposizione”. Già, l'antrace. In quel periodo c'era una vera e propria psicosi (ovviamente ben alimentata dal sistema mediatico mainstream) ed ogni giorno si potevano leggere notizie di casi in cui anonime buste da lettere erano riempite con questa strana polverina dall'altrettanto anonimo – almeno in termini mediatici – passato. «Ogni mia affermazione è suffragata da prove», ebbe anche l'ardore di dire il Segretario di Stato prima che – dovrà comunque passare qualche anno – il mondo si accorgesse che tutto quello che dall'11 Settembre 2001 fino a quella data era stato “trovato” in merito ai rapporti Iraq-Al Quaeda era una bufala, costruita ad arte con l'unico scopo di togliere di mezzo il leader iracheno. Di lì ad un mese – con l'appoggio di un'opinione pubblica messa all'angolo dalla “Strategia della tensionea stelle e strisce – sarebbe partito il conflitto iracheno che portò alla deposizione di Saddam Hussein, ma che di armi di distruzione di massa non ne trovò neanche mezza! D'altronde Hans Blix e Mohamed El Baradei, allora responsabili del programma di ispezione dell'ONU per accertare la presenza di tali ordigni erano stati più che chiari: l'Iraq, almeno sotto questo aspetto, era pulito.


Sarebbe interessante fare uno studio approfondito su una costante della politica estera americana: cambiano i governi ma se un “amico” non serve più diventa automaticamente il principale terrorista del proscenio internazionale. È successo agli inizi degli anni '90, quando Manuel Noriega – sul libro paga della C.I.A. fin dai tempi della presidenza Ford (1974-1977) – divenne di colpo un terrorista perché aveva osato disobbedire agli ordini di Washington. Nel 1992 venne processato e condannato a 40 anni di carcere per spaccio di droga e violazione dei diritti umani. Accusa – quest'ultima – che quando a giudicare sono gli Stati Uniti non manca mai. Ma questa è un'altra storia...

Un altro amico diventato nemico è stato, appunto, Saddam Hussein, assoldato nel 1982 in funzione anti-iraniana (che allora vedeva la forte leadership dell'ayatollah Ruhollah Khomeyni) e diventato terrorista nel 1991, quando gli Stati Uniti invadono l'Iraq che aveva mosso guerra al Kuwait qualche mese prima (peraltro con armi che provenivano proprio dagli Stati Uniti). È successo e sta succedendo con Osama Bin Laden. Oltre ad essere stato addestrato dagli americani negli anni '80 come forza di opposizione ai sovietici – la C.I.A. dette ad Al Quaeda ben 3 miliardi di dollari – lo “Sceicco del Terrore” ha un corposo rapporto di affari con la famiglia Bush, ben evidenziati da Michael Moore in Farenheit 9/11. Così come – ce lo dice sempre il regista, ma questa volta in “Bowling for Columbine” - prima dell'11 Settembre 2001 i talebani erano finanziati con 245 milioni di dollari di “aiuti”. Poi gli americani decisero di chiudere anche questa pratica e ci fu il 9/11.

Ma torniamo all'Iraq...

Mentre gli Stati Uniti, la Gran Bretagna ed il “fronte della democrazia” si prodigavano a montare il caso iracheno per giustificarne la successiva invasione, cosa avveniva nella realtà? Quali erano le vere intenzioni delle parti in causa?

Il Partito Radicale ha aperto un sito [http://bushblaircontrosicurapacefeceroguerrairakimpedendoesilioasaddam.it probabilmente il link più lungo che esista...] per presentare all'opinione pubblica una verità che al tempo fu sovrastata dai tamburi di guerra: Saddam Hussein aveva scelto l'esilio.

Un miliardo di dollari e tutte le informazioni in suo possesso sulle armi di distruzione di massa. Erano queste le richieste fatte dal leader iracheno per porre fine al suo governo. Siamo a sole tre settimane dal conflitto. Le armi irachene non sono ancora state trovate, ma uno dei motivi principali con cui i media avevano di fatto instillato nella società civile internazionale la necessità del conflitto – cioè la decapitazione del regime iracheno – stava saltando. Tutto, dunque, stava volgendo ad una veloce soluzione. Ma qualcosa andò storto. Cosa? E soprattutto chi impedì la risoluzione pacifica del conflitto?
Per rispondere a queste due domande è necessario fare un passo indietro e tornare al gennaio di quello stesso anno, quando Marco Pannella lancia un appello per la risoluzione non-violenta del conflitto: «Ci rivolgiamo alla Comunità internazionale, alle Nazioni Unite in primo luogo, perché facciano proprie, immediatamente, le affermazioni secondo cui l'esilio del dittatore Saddam Hussein cancellerebbe, per gli Stati Uniti stessi, la necessità della guerra, costituendo il punto di partenza per una soluzione politica della questione irachena». Oltre a ciò, il leader radicale si augurava la sostituzione del regime iracheno con un'Amministrazione fiduciaria internazionale controllata dall'ONU il cui compito fosse quello di traghettare la popolazione irachena dalla dittatura alla democrazia. In un mese l'appello fu sottoscritto da 27.344 cittadini di 171 nazioni, 46 membri del Parlamento Europeo e da ben 501 parlamentari italiani (su un totale di 945).

Mentre Pannella si prodigava a salvare la vita di Saddam ad altre latitudini la Libia dava il suo assenso ad ospitare l'esiliato. Proprio il leader libico - “croce e delizia” del nostro Paese – sarà l'artefice principale di un episodio molto particolare e che in qualche modo modifica gli equilibri delle forze in campo: secondo la testimonianza del Presidente egiziano Hosni Mubarak il primo marzo era stato concordato un Vertice della Lega araba proprio per ufficializzare la risoluzione diplomatica e non-violenta dell'”era” di Saddam Hussein. In quella sede, infatti, il Presidente degli Emirati Arabi Uniti Zayed al-Nahyan avrebbe annunciato che l'unica condizione posta dall'ormai ex leader iracheno per l'esilio era che la proposta arrivasse proprio dalla Lega e non direttamente dagli americani. Tra l'altro – come verrà reso noto il 18 marzo – in un sondaggio datato 25 gennaio la maggioranza degli americani (il 62%) si era detta d'accordo con la soluzione non-violenta pur di evitare l'ennesima guerra.
È a questo punto che avviene il colpo di scena: Mu'ammar Gheddafi, infatti, riesce a mandare a monte il Vertice, chiudendo ogni possibile tentativo di soluzione non-violenta. Se i repentini cambi di umore del leader libico non sono certo una novità, è interessante interrogarsi – per quanto una risposta certa non ci sia – sui motivi che lo hanno spinto prima a dirsi disponibile ad ospitare il leader iracheno e poi, di colpo, ad essere de facto il “casus belli” per dare il là alla guerra.

Ed a proposito di “casus belli” - veri o presunti – bisogna notare, di nuovo, la poca originalità dei governi yanquis: così come nel 1964 l'allora presidente Lyndon B. Johnson mosse guerra al Vietnam dopo l'incidente del Tonchino (fu poi l'allora Segretario alla Difesa Robert McNamara a svelarne il bluff) così la “strana coppia” Bush-Blair ha utilizzato un evento – il massacro di Halabja – come uno degli esempi presentati alla opinione pubblica per dimostrare la ferocia del regime iracheno. Anche in questo caso, però, la verità non era esattamente quella presentata. Ma facciamo un altro passo indietro:

Siamo nel marzo 1988 – in piena guerra tra Iraq ed Iran – quando avviene il massacro di Halabja (una cittadina nel nord iracheno), più comunemente conosciuto come “la strage dei curdi”. Attribuito ad Ali Hassan al-Majid, più comunemente noto come “Alì il chimico” si è poi scoperto che gli iracheni niente avevano a che fare con questa vicenda. Come infatti rivela Stephen C. Pelletiere, senor analist durante il conflitto nonché ufficiale della Central Intelligence Agency: «Entrambe le fazioni in guerra avevano fatto uso di armi chimiche le une contro le altre durante la battaglia di Halabja. Le condizioni dei cadaveri curdi presentavano però caratteristiche tali da far supporre che il gas letale fosse un coagulante del sangue – cioè un gas a base di cianuro – che l'Iran era solito utilizzare. Gli iracheni all'epoca non erano in possesso di gas coagulanti».

Mancando le armi di distruzione di massa e caduto il “casus belli” presentato all'opinione pubblica rimane una domanda: perché allora muovere guerra al regime iracheno? E qual'è stato il vero ruolo di Gheddafi? Quanto ha inciso il voltafaccia del leader libico sull'apertura che – proprio da quell'anno – il nostro paese ha attuato nei suoi confronti?


A tutte queste domande una risposta certa, incontrovertibile e suffragata da prove non fabbricate ad arte non è ancora stata data, e probabilmente dovremo aspettare ancora molto tempo prima di ottenerle. L'unica certezza, comunque, è che Saddam Hussein poteva essere salvato da una “giustizia” che, oltre a basarsi – lo abbiamo visto – su prove completamente fasulle, si trasforma in mera vendetta. Confondendo i ruoli di vittima e carnefice.