La geopolitica del gas


In una delle più famose frasi attribuitegli, Albert Einstein sostiene di non sapere con cosa sarà combattuta la Terza Guerra Mondiale, ma di essere sicuro che la quarta si combatterà con bastoni e pietre.
Sarebbe stato interessante anche sapere se fosse a conoscenza dei motivi per cui le guerre future verranno combattute.
Escludendo i “fattori umanitari”, spesso usati come paravento di ben altre – e decisamente meno nobili – motivazioni, sicuramente le guerre future verranno combattute per il controllo delle risorse energetiche. I prodromi per il futuro conflitto per il controllo di gas e petrolio – cioè le nuove chiavi di volta della geopolitica internazionale e dei suoi equilibri – sono già evidenti.
  • Eni: il cane con le zampe in pasta ovunque.

È il 1953, siamo nell'Italia che tenta di ricostruire se stessa dopo il secondo conflitto mondiale. La parola chiave dell'allora governo De Gasperi VII è una sola: liquidare i vecchi carrozzoni che costano e non danno rendimenti, prima tra tutte l'AGIP, l'Azienda Generale Italiana Petroli, istituita per regio decreto nel 1926 per lo svolgimento d'ogni attività relativa all'industria e al commercio dei prodotti petroliferi. Ad occuparsi della pratica viene chiamato l'imprenditore marchigiano, partigiano e - dal 1948 al 1953 - parlamentare in quota Democrazia Cristiana Enrico Mattei, che non solo non seguì le direttive governative, ma addirittura riuscì a portare il neo-nato Ente Nazionale Idrocarburi (ENI) a sfidare le grandi multinazionali petrolifere (le c.d. “7 sorelle”) sfruttando un atteggiamento politico per certi versi post-ideologico che permise a Mattei in patria di non avere un referente fisso nell'emiciclo parlamentare – è rimasta celebre la sua concezione dei partiti politici come taxi “sui quali salire, farsi portare a destinazione, pagare la corsa e scendere”- ed a livello internazionale di diventare sempre più interlocutore favorito per quei paesi che, uscenti dall'esperienza colonialista, stavano creandosi il proprio spazio nello scacchiere globale.

Di tempo dal “metodo Mattei” e dall'attentato che ne uccise l'ideatore mentre con il suo velivolo era in volo sui cieli di Bascapè (Pavia) il 27 ottobre 1962 ne è passato tantissimo, così come la natura stessa dell'ENI non è più quella con la quale Mattei l'aveva pensata. Divenuta ormai una delle principali compagnie mondiali, tanto da poter interloquire alla pari con colossi del calibro di Exxon, Royal Dutch Shell e Chevron, si distingue per un ancor più accentuato menefreghismo delle regole e delle leggi nei paesi ove si trova ad operare.
Oltre ad una serie innumerevole di procedimenti aperti in Italia infatti, l'ENI sale agli onori della cronaca (non certo quella del circuito mediatico mainstream, naturalmente...) principalmente su due fronti: Iraq e Nigeria.

  • Iraq: un dossier preparato dal Ministero delle Attività Produttive risalente a sei mesi prima dell'aggressione (avvenuta nel marzo 2003) parlava esplicitamente di un affare petrolifero da 300 miliardi di dollari per il cane a sei zampe che, a livello societario, vede lo Stato Italiano come proprietario di una quota pari al 30% delle azioni. «La presenza italiana in Iraq, al di là dei presupposti ufficialmente dichiarati, è motivata dal desiderio di non essere assenti dal tavolo della ricostruzione e degli affari. Questi ultimi riguardano soprattutto lo sfruttamento dei ricchi campi petroliferi. Non a caso il nostro contingente si è attestato nella zona di Nassiriya, dove agli italiani dell'ENI il governo iracheno, pensando alla fine dell'embargo, aveva concesso tra il 1995 ed il 2000 lo sfruttamento di un giacimento petrolifero con 2,5-3 miliardi di barili di riserve». A dirlo è Benito Li Vigni, ex dirigente ENI. Ed assume dunque una particolare rilevanza sapere che la prima base dei nostri militari in loco fosse proprio di fronte alla raffineria dell'ENI.

  • Nigeria: se i nostri militari sono stati inviati in terra irachena non per “esportare la pace” ma solo ed esclusivamente per difendere gli interessi – privati – della holding di San Donato Milanese, la sua avventura nel nord-Africa è decisamente più importante, sia in termini economici che sociali, tanto da essere esclusa dagli indici borsistici di “investimento sociale responsabile”, indici cioè che misurano l'attenzione delle imprese ai problemi sociali ed ambientali legati alle loro attività. Il 7 dicembre 2006 un attacco ad una stazione AGIP a Brass, un'isola nello stato meridionale di Bayelsa, porta alla distruzione dell'impianto ed al sequestro di tre operatori italiani: Francesco Arena, 55enne di Gela, Cosma Russo 55enne di Bernalda (Matera), Roberto Dieghi, 64enne ternano e del libanese Imad S. Abed. I sequestratori sono uomini del MEND, il Movimento per l'Emancipazione del Delta del Niger, che combatte per liberare la zona dal degrado e dallo sfruttamento delle multinazionali coinvolte nello sfruttamento del sottosuolo per estrarne petrolio. Checché ne abbiano scritto e detto i media italiani – che spesso tacciano di “terrorismo” tutto ciò che va a contrastare con gli interessi economici dei potentati che li sovvenzionano – l'intento del MEND è semplicemente quello di fare in modo che anche la popolazione locale possa ricavare vantaggi dall'oro nero e non solo sfruttamento, omicidi (come quelli derivanti dalle rappresaglie dell'esercito nigeriano, al soldo delle grandi multinazionali). Amnesty International si è spesso prodigata nella denuncia di quella che definisce una vera e propria “tragedia dei diritti umani”, appelli che – come nella maggior parte dei casi – vengono trascurati da giornali e tv. Negli stessi giorni in cui sui nostri quotidiani si poteva leggere del sequestro, l'esplosione di un oleodotto nel quartiere Abule Egba a Lagos provocava una carneficina che si sarebbe conclusa solo dopo 280 persone arse vive, gettatesi su una perdita delle tubazioni per recuperare un po' di quel petrolio che è una delle poche fonti di sostentamento per la popolazione. Vistasi già sotto i riflettori, l'ENI annunciava l'invio di aiuti umanitari sotto forma di materiale e personale medico per permettere alle istituzioni locali di fronteggiare l'emergenza. 


Ma gli interessi italiani in Nigeria non si limitano solo al petrolio: gas naturale (con la costituzione di una joint-venture con NNPC, Shell e Total, la costruzione di un impianto di liquefazione a Bonny Island, nei pressi di Port Harcourt e la pressione sull'opinione pubblica italiana per la costruzione di rigassificatori nel nostro paese necessari ad ottenere il gas non solo da Russia e Algeria ma anche da paesi come la stessa Nigeria, l'Angola, l'Egitto o il Quatar) e armi: l'Alenia – società del settore aeronautico civile e militare facente capo a Finmeccanica e dunque al Ministero dell'Economia che ne è l'azionista di riferimento – nel 2006 ha stipulato un contratto di 84 milioni di dollari riguardante la manutenzione ed alla fornitura di pezzi di ricambio ed assistenza di dodici aerei MB-339 forniti negli anni Ottanta alla Nigeria. Agli inizi dello scorso anno, peraltro, il Ministro degli Esteri Frattini ha avuto un incontro con l'allora presidente Umaru Yar'Adua (deceduto nel maggio scorso a seguito di una lunga malattia) in merito alla sicurezza delle nostre imprese nel paese africano. Per mantenere alta la “sicurezza” sono stati offerti – così come denuncia il MEND – tecnologie, navi leggere, veicoli speciali, blindati Lince, aerei, tecnologie radar e controlli satellitari all'esercito regolare per fronteggiare i ribelli. Nella speranza che Jonathan Goodluck Ebele, l'attuale presidente, non prenda esempio da Mu'ammar Gheddafi.
  • Dalla Nigeria all'Afghanistan: una politica del tubo.

Quella che possiamo tranquillamente definire una vera e propria “geopolitica” delle risorse naturali – dove gas e petrolio la fanno da padroni – si arricchisce di un'interessante, quanto sottaciuto, capitolo se dalla Nigeria ci spostiamo ad un altro dei fronti caldi di quest'ultimo decennio: l'Afghanistan. In questi giorni – commentando l'ultimo attentato contro le forze di occupazione con l'effigie tricolore sulla divisa – sembra essersi riaperto il dibattito sull'utilità del conflitto. Già, a distanza di 9 anni qual è la vera utilità dell'occupazione occidentale in Afghanistan, dando per decadute motivazioni fasulle come “introdurre un regime democratico” e consimili? Stando a quanto riporta PeaceReporter una delle motivazioni principali riguarda il traffico di droga o, per essere più precisi, il controllo sul traffico mondiale dell'eroina. Da sempre classificato tra i business più redditizi del pianeta (con un giro d'affari – annuo – che si attesta intorno ai 150 miliardi di dollari) è sempre stato uno degli strumenti più utilizzati nella politica estera degli Stati Uniti d'America: negli anni '70, infatti, i proventi derivanti dall'oppio e dall'eroina venivano utilizzati in paesi come la Cambogia, lo stesso Afghanistan o nell'area latinoamericana per finanziare la guerriglia anti-comunista, così come oggi gli States hanno trasformato l'Afghanistan in un narco-stato per continuare a detenerne, quasi indisturbati, il monopolio e gestendone direttamente la distribuzione attraverso i canali del Pakistan, del Tajikistan e di quell'Iran che sempre più sta diventando il prossimo obiettivo da abbattere per l'amministrazione yanqui. Ma non è certo questo il motivo principale per cui siamo in guerra.

Il motivo principale si chiama TAPI, sta per Turkmenistan, Afghanistan, Pakistan ed India ed indica i 1680 chilometri di gasdotto con il quale il governo turkmeno (uno dei più repressivi al mondo), al ritmo di 90 miliardi di litri al giorno, trasporterà il gas naturale dalle riserve di Daulatabad (la “città della prosperità” in lingua farsi) attraverso l'Afghanistan occidentale e meridionale (in particolare lungo la direttrice Herat-Farah-Kandahar) per giungere in Pakistan ed India. Data di fine lavori prevista: 2014, che qualcuno paventa essere anche la data in cui si ritireranno effettivamente le truppe di occupazione. A differenza di quanto prospettato nel piano iniziale questo gasdotto non interesserà l'Occidente, perché il gas che quotidianamente circolerà nei tubi sarà redistribuito esclusivamente tra i quattro paesi firmatari anche se inizialmente il progetto della compagnia californiana Unocal prevedeva che il gasdotto terminasse nel porto pachistano di Gwadar (nel sud-ovest) e da lì il gas venisse trasportato via mare, tenendo così fuori dai giochi l'India.
Se le popolazioni occidentali non potranno godere dei vantaggi di Tapi, la stessa cosa non può certo dirsi per le compagnie petrolifere, che parteciperanno alla costruzione ed alla gestione del gasdotto – il cui sponsor principe è la Adb, la Banca per lo sviluppo dell'Asia controllato da Stati Uniti e Giappone – per un costo totale che si aggira sugli 8 miliardi di dollari ed al quale è più che probabile il coinvolgimento dell'ENI, sia perché quella che fu – come abbiamo visto in precedenza – la compagnia di Enrico Mattei è il principale partner energetico in Occidente del Turkmenistan sia perché buona parte del gasdotto – stando al disegno originario – passerà per Herat, la provincia militarmente controllata dal nostro contingente.
C'è però un “piccolo” particolare: i territori afghani sui quali dovrebbero passare materialmente i tubi sono tra i più instabili di tutto l'Afghanistan, e quindi solo l'eventuale stabilizzazione (cioè l'assenza della “minaccia” talebana) renderebbe possibile trasformare il progetto in realtà. Ed ecco quindi spiegati i motivi per i quali il governo-fantoccio di Hamid Karzai (e dunque gli Stati Uniti) si stanno prodigando per creare un governo in cui i talebani – quelli che fino a ieri sera erano i “terroristi” da eliminare – abbiano un ruolo di spicco (tanto che, come il solito PeaceReporter riportava in un articolo del 13 ottobre, l'amministrazione Obama è pronta a spostare una quantità indefinita di talebani dalla black list alla lista degli “amici per la vita...e per gli affari”).
Gli accordi di Aşgabat - capitale del Turkmenistan – peraltro, permetteranno al Pakistan di risolvere la crisi energetica di cui è vittima senza dover passare per il gasdotto Iran-Pakistan, che dunque non sarà più costretto a rivedere la propria fedeltà allo Zio Sam (almeno quella di facciata).
  • L'Iran: nemico della democrazia o degli affari americani?

Il senatore democratico John Forbes Kerry – nel 2004 sfidante di George W. Bush alle presidenziali e presidente dell'influente Commissione per le Relazioni Estere del Senato americano – lo ha detto chiaramente: «Esiste una relazione strettissima tra la situazione delle risorse energetiche mondiali e le fonti di instabilità politica, e noi dobbiamo considerare molto attentamente questo aspetto. Iran, Iraq, Sudan, Russia, Caucaso, Nigeria e Venezuela rappresentano i nostri problemi principali per l'approvvigionamento energetico e, quindi, sono i punti cruciali della nostra geopolitica». Sarà solo un caso che in almeno tre dei paesi appena citati gli Stati Uniti si sono adoperati – in maniera neanche troppo velata - per sovvertire il regime politico in carica? È la riedizione dell'”operazione Mossadeq”, quando l'allora leader iraniano – reo di aver nazionalizzato l'Anglo-Iranian Oil Company – si mise di traverso alle politiche anglo-statunitensi nell'area e fu sostituito, dopo regolare golpe (l'”operazione Ajax”), dallo Scià Mohammad Reza Pahlavi, ben più disponibile verso i due paesi. Il paese degli ayatollah, peraltro, ricopre sempre più un ruolo strategico negli equilibri della geopolitica del gas (insieme alla Turchia): essendo il secondo bacino di gas naturale al mondo dopo la Russia, un suo eventuale spostamento a favore degli americani permetterebbe a questi ultimi di contrastare la rinnovata potenza russa sull'area, portando quanto meno in pareggio la partita tra Nabucco e South Stream, cioè i gasdotti con i quali America e Russia stanno riproponendo una versione ancor più raffreddata della Guerra Fredda.

La Russia ormai da tempo ha impostato la propria politica estera (e la propria ricerca di rinnovata egemonia nell'area degli ex satelliti) proprio sul gas, si pensi alle innumerevoli minacce di tagliare le forniture che arrivavano in Europa attraverso l'Ucraina della “Rivoluzione arancione” (anno 2004) e che solo lo scorso anno – con la sconfitta del filo-americano Jushenko a favore del filo-russo Janukovic – ha visto la distensione tra i due paesi...
  • Nabucco, Tapi, South Stream: tra i due litiganti il terzo gode.
Il tracciato del gasdotto "South Stream"

In tutto questo l'Italia sembra ritagliarsi un ruolo se non di primo piano quanto meno di interlocutore prediletto dei russi. Meriti dei buoni rapporti sull'asse Berlusconi-Putin? Probabile, ma sicuramente merito maggiore va alla South Stream AG, joint-venture tra il colosso russo Gazprom e l'onnipresente Eni grazie alla quale l'Europa si assicura 30 miliardi di metri cubi di gas all'anno. Joint-venture che prende il nome dall'omonimo gasdotto che, più che un mezzo con il quale assicurare all'Europa il gas russo, costituisce l'assicurazione sulla vita per la Russia, che in questo modo si garantisce un ruolo da protagonista (o quanto meno da co-protagonista) sullo scacchiere internazionale.

Il percorso del South Stream non è ancora ufficialmente definito. L'unica cosa certa è che sarà costituito per circa 900 km dal tratto che attraverserà il Mar Nero e che dovrebbe partire dal porto russo di Beregovaya per arrivare a quello bulgaro di Varna. Non è stata ancora decisa invece l'ultima parte del tracciato, per la quale sono in corsa due soluzioni: o il passaggio dalla penisola balcanica – in particolare la Serbia - e dall'Austria oppure quello attraverso la Grecia ed il nostro paese (da qui i ripetuti viaggi del premier dall'”amico” Putin).

Ma nel “gioco” delle potenze alla mossa russa non può certo mancare la risposta americana (e viceversa). Anche gli Stati Uniti infatti sono scesi nel campo dei gasdotti, dando vita a Nabucco che – con la partnership dell'Unione Europea – dovrebbe permettere al Vecchio Continente di assicurarsi il gas in maniera meno “turbolenta” di quanto non avverrebbe con South Stream (o di quanto non avvenuto sino ad ora, come l'esperienza dell'Ucraina di Jushenko insegna) andando ad intaccare le riserve provenienti dal quadrante dell'Asia centrale. Il progetto prevede il trasporto di gas proveniente dal Caucaso e dal Medio Oriente attraverso Turchia, Bulgaria, Romania, Ungheria ed Austria per poi raggiungere il mercato europeo centro-occidentale. La lunghezza prevista è di 3.300 km con snodi principali sul confine georgiano-turco (da qui l'interesse qualche anno fa per i rapporti Georgia-Russia) e turco-iraniano per arrivare a Baumgarten, nella zona orientale dell'Austria e che vede – oltre che l'importanza strategica della Turchia, per la quale diventa dunque fondamentale in tal senso l'eventuale ingresso nell'UE – Azerbaijan, Uzbekistan, Turkmenistan, Iran ed Iraq come possibili bacini per la fornitura di materia prima. Ma qui sorgono i problemi principali per gli U.S.A.

Il tracciato del gasdotto "Nabucco"

Il problema principale è che il “progetto Nabucco” rischia seriamente di abortire ancor prima di nascere. È più che probabile infatti la creazione di un gasdotto senza gas, visto che non più del 2% delle riserve mondiali sarebbero disponibili. Senza considerare che i paesi dell'area – in particolare Azerbaijan, Turkmenistan e Kazakistan – non hanno ancora deciso se schierarsi con gli americani o con i russi, dando così ancor più instabilità al progetto. A ciò si aggiungono problemi prettamente materiali: dati per evidenti quelli con l'Iran di Ahmadinejad (a meno di un colpo di stato che rimetta in sella qualche “delfino” americano), l'unico fornitore ufficiale per Nabucco sarebbero gli azeri, che però già adoperano quella stessa riserva (quella di Shah Deniz) con i russi con i quali hanno firmato un accordo che prevede che la Gazprom sia partner quasi esclusiva degli azeri, e chi volesse entrare in quelle quote di mercato dovrebbe fare un'offerta superiore - non di poco - a quella russa, ma anche a fronte di un'eventuale mega-offerta da parte statunitense, il gas azero non risolverebbe certo la questione. Rimarrebbe il gas iracheno, sul quale però esistono due questioni più o meno irrisolvibili: innanzitutto, così come per l'Afghanistan, il gasdotto dovrebbe passare su territori sicuri, e sappiamo che allo stato attuale l'Iraq non è di certo un paese pacificato, ma anche in questo caso l'eventuale pacificazione non risolverebbe il problema, perché il tracciato passerebbe per il Kurdistan, fornendo così alla popolazione locale un'arma fondamentale nei suoi rapporti con il governo di Ankara, che certamente non apprezzerebbe. Peraltro il 6 agosto 2009 il premier turco Recep Tayyip Erdoğan ha firmato – alla presenza del premier italiano Berlusconi e di Paolo Scaroni, amministratore delegato dell'ENI – un accordo con Putin per il passaggio del tracciato del South Stream nella zona del mar Nero battente bandiera turca.

Insomma: la Guerra Fredda non è finita con la caduta del Muro di Berlino, è solamente diventata una guerra ad ancor più bassa intensità.