Sangue chiama sangue…

«Il cielo era diventato improvvisamente di piombo, una cappa opprimente calò all'improvviso sulla città. Mentre lascavamo la piazza, a occidente si stagliarono lingue rosse di fuoco...». Sembra l’incipit di un film hollywoodiano, di quelli catastrofici che vanno tanto di moda in questi ultimi anni. Invece è la descrizione di chi il 7 luglio 1960 era in piazza, a Reggio Emilia, a manifestare con i sindacati nell’ambito di uno sciopero cittadino proclamato per protestare contro la deriva fascista che il governo-lampo (25 marzo-26 luglio 1960) del democristiano Fernando Tambroni.

Un governo che di tempo per legiferare non ne avrà avuto molto, ma per insanguinare le strade italiane ne ha avuto anche troppo: il 30 giugno, infatti, c’era stata la “rivolta delle magliette a strisce” a Genova, dove molti giovani scesero in piazza per protestare contro il tentativo di portare un congresso del Movimento Sociale Italiano in quella che è la capitale dell’antifascismo italiano; il 5 luglio a Licata, durante una manifestazione contro il carovita, la polizia aveva sparato uccidendo Vincenzo Napoli un ragazzo di 25 anni che stava difendendo un bambino tenuto fermo al muro e picchiato dai celerini e ferendo altre ventiquattro persone; il giorno seguente a Roma c’era stata la carica della cavalleria contro un corteo antifascista; poi arrivò il 7 luglio.

«Compagno cittadino, fratello partigiano,
teniamoci per mano in questi giorni tristi:
di nuovo a Reggio Emilia, di nuovo là in Sicilia
son morti dei dei compagni per mano dei fascisti.»

Sono le parole iniziali di “Per i morti di Reggio Emilia” di Fausto Amodei (qui nella versione degli Stormy Six), canzone che tramanda i nomi dei cinque militanti del Partito Comunista uccisi dai celerini:

Afro Tondelli Lauro Farioli Marino Serri Ovidio Franchi
  • Afro Tondelli: operaio di 35 anni. Quinto di otto figli di una famiglia contadina di Gavasseto. Sposato, è stato partigiano della 76esima Sap (Squadre di Azione Patriottica, nome di battaglia “Bobi”) e, al tempo, segretario locale dell’Anpi. Viene volontariamente ucciso da Orlando Celani in piazza della Libertà. Vedendo Tondelli in mezzo alla piazza (da solo…) Celani estrae la pistola, s’inginocchia, prende la mira e spara a colpo sicuro;
  • Lauro Farioli: 22 anni, orfano di padre, sposato e padre di un bambino. È uscito di casa in sandali, pantaloncini e maglietta rossa “di ordinanza”. Per i celerini quella deve essere una divisa “da terrorista”, visto che mentre Lauro gli si fa incontro per fermarli, una raffica di mitra lo colpisce in pieno petto, uccidendolo;
  • Marino Serri: 41 anni, di estrazione contadina e montanara (cosa che non gli permette di frequentare neanche le scuole elementari…) fin da bambino viene destinato al lavoro agricolo, fino alla chiamata di leva a 20 anni che lo porta in Jugoslavia. A quel tempo faceva l’operaio. Si è affacciato in piazza gridando “Assassini!”. Viene immediatamente colpito da una ferale scarica di mitra. Lascia moglie e figli;
  • Ovidio Franchi: 19 anni, operaio. Figlio di un operaio delle Officine Meccaniche Reggiane, dopo la scuola di avviamento industriale era entrato come apprendista in una piccola officina della zona aveva da poco conseguito il diploma come disegnatore meccanico. Viene colpito da un proiettile all’addome ma non muore subito. Cerca di tenersi su aggrappandosi ad una serranda e tenendosi ad un compagno che lo stava soccorrendo, fino all’arrivo di uno dei “servi della legge” che spara ad ambedue. Ovidio morirà poco dopo per le ferite riportate;
  • Emilio Reverberi: 39 anni, operaio. Garibaldino nella 144esima Brigata in Val d’Enza (commissario politico nel distaccamento Amendola) era stato licenziato dalle Officine Meccaniche Reggiane nel 1951, dopo 14 anni di servizio. Il motivo? Essere comunista. Morirà in ospedale, lasciando moglie e due figli.

«Sembrava uno scenario di guerra», testimoniò il chirurgo Riccardo Motta all’epoca. «Ricordo nitidamente quelle terribili ore, ne passammo dodici di fila in sala operatoria, arrivava gente in condizioni disperate. Mentre cercavamo di fare il possibile avvertivamo, pesantissimi, l’apprensione ed il dolore dei parenti».

Cinque morti e centinaia di feriti. Fu questo il “bollettino” che si registrò quel 7 luglio a Reggio Emilia. Fu un episodio da guerra civile, quella guerra civile (perché combattuta dalle masse proletarie contro il sistema padronale) che di lì a qualche anno avrebbe portato prima alla contestazione del ‘68 e poi alla scelta di molti giovani di abbandonare la “via democratica e civile” di un dialogo che sempre più appariva un monologo abbracciando la ben più forte voce delle armi.

 

Sono passati esattamente 50 anni ma in questo momento, mentre scrivo, quella stessa scena del luglio 1960 si sta ripetendo in Piazza Venezia, dove migliaia di aquilani stanno manifestando perché le barzellette del governo non portano né lavoro né pane sulle tavole di case che, laddove esistenti, sono comunque provvisorie. Passano gli anni, ma la risposta del Potere è sempre la stessa: manganelli, divise e caschi. E, naturalmente, tasse assurde alla povera gente: come chi si trova a pagare mutui od oboli vari su appartamenti e beni che non ha più. Ma, se non bastassero le barzellette del governo, da oggi potremo aggiungere anche quelle di questa finta opposizione parlamentare che tra qualche tempo avrà sicuramente ministeri nel nuovo governo berlusconiano: il “leader” del PD, il quale non solo ha il timore dell’arrivo di un “Chávez de noantri” (tante volte facesse vedere cosa vuol dire essere “di sinistra”…), ma ha anche l’ardore – dall’alto del suo stipendio da parlamentare – di invocare una nuova tassa “pro-aquilani”: una tassa che, naturalmente, lui e la “specie” alla quale appartiene non pagheranno.

Il sangue sparso nelle piazze in quel caldo – non solo per il clima – luglio 1960 portò al ‘68 ed alla lotta armata. Questo a cosa porterà? Perché il tempo delle barzellette sta per finire, ed il sangue chiama sempre altro sangue…