Contro le gabbie

Immagine troppo bella per lasciarla nelle mani del Tg5 di ieri (adattata dal video...)
«Ho sempre dato molto poco peso alla virtù e non ho mai capito bene perché si debba trovare tanta colpa nell’errore. Anche perché non sono ancora riuscito a capire, dopo cinquanta anni di vita, cosa sia esattamente la virtù e a cosa corrisponda l'errore».

[Fabrizio Cristiano De André]

Siamo circondati da gabbie. In ogni singolo momento la nostra esistenza ne è racchiusa.

Da piccoli ci insegnano quali siano le cose “buone” e le cose “cattive”, cosa è “giusto” e cosa è “sbagliato”. Ci insegnano cioè qual è la gabbia nella quale rinchiudersi e quale quella da evitare. Cresciamo in una società che si basa sugli stereotipi, cioè sulle gabbie mentali più pericolose – e difficili da abbattere – che la modernità abbia potuto ideare e, nello stesso tempo, la nostra identità sociale esiste solo se si basa su di essi (che, in alcuni ambiti, vengono declinati sotto forma di –ismi).

Uno degli stereotipi più assurdi che la società borghese nella quale viviamo ci ha inculcato nella testa per decenni è quello per cui chi sbaglia e finisce in un istituto carcerario viene automaticamente etichettato come “relitto sociale” per tutta la vita, anche se nel frattempo ha capito il proprio errore e, come si suol dire, pagato il proprio conto con la giustizia borghese.

Già, il carcere: uno dei più grandi stereotipi materiali che l’anima repressiva delle nostre società abbia potuto ideare e realizzare. Io ho iniziato ad interessarmene per puro caso – o forse per la mia insanabile curiosità – quando da quello splendido blog che è “Polvere da Sparo” (che è per me il miglior blog attualmente esistente sulla rete…) ho letto che negli anni del regime di Videla in Argentina (1974 - 1983) le donne e le ragazze incinte rimanevano all’interno dei lager ideati per la “pulizia anti-comunista” (come l’ESMA o il “Pozo” di Banfield) insieme ai loro figli appena nati. Ma, d’altronde, per definizione una dittatura non si comporta tenendo conto del galateo. Ma siamo così sicuri che quel che accadde in quella dittatura è rimasta una mera, seppur tristissima, pagina di storia?

Cosa succede, oggi, in questi grandi regimi oligarchici e classisti che qualcuno si ostina ancora a chiamare “democrazie”? Nelle nostre belle società “civili”, “giuste” e “democratiche” succede questo: http://senorbabylon.blogspot.com/2010/06/cadra-linverno-anche-sopra-il-suo-viso.html. Succede, almeno nel nostro paese – che qualche anno fa si vantò della moratoria contro la pena di morte in sede O.N.U. – che i bambini da 0 a 3 anni siano costretti a crescere nelle carceri insieme alle loro madri.


E questo, per me, è disumano tanto quanto quello che successe ai desaparecidos. Ma almeno Videla&Soci avevano la scusa di essere una dittatura. Noi no, noi tutti i giorni ci riempiamo la bocca – e la testa – di parole come “democrazia”, “pace” e a forza di invocarle ci siamo convinti che ci ruotino intorno, così come fanno le gabbie di cui all’inizio.


Già, il carcere. Mi chiedo quante persone di quella famosa “società civile” di cui sempre più stancamente sentiamo parlare, sappiano cosa succede lì dentro. Mi chiedo quanta gente sappia come vivono quelli che un giustizialismo di morte (leggasi alle voci: Stefano Cucchi, Aldo Bianzino, Federico Aldrovandi e troppi altri che quotidianamente si aggiungono alla lista…) inneggiato in prima serata sulla seconda rete Rai il giovedì sera vuole per forza “delinquenti nell’anima”. Durante il regime nazi-fascista si diceva che tutti quelli che non appartenevano alla razza “eletta” non erano degni di vita, oggi lo stesso ragionamento viene fatto con chi non si conforma alla società. C’è chi non si conforma per scelta, certo, ma c’è anche chi è non conforme per necessità, perché – semplicemente – viene espulso dalla società stessa. Niente di più niente di meno di quello che succedeva ad Auschwit, a Buchenwald, a Dachau o nei tantissimi lager di cui la Storia – quella scritta solitamente dai vincitori – è disseminata.

Ma nel nuovo millennio, naturalmente, non si poteva certo riprendere quell’idea. Per cui nella nostra civile inciviltà abbiamo ideato una cosa che è ancor più disumana sia dei campi di concentramento nazi-fascisti che dei voli della morte del regime argentino. Si chiama carcere ostativo e la “società civile” ha imparato a conoscerlo con l’espressione “fine pena mai”. Cosa c’è di più disumano del rinchiudere una persona in un luogo – un qualsiasi luogo – ed ucciderl@ così, lentamente, giorno per giorno, minuto per minuto, attimo per attimo. È un lento genocidio di cui le cronache e gli organi di stampa principali non si occupano, impegnati come sono a denunciare un bavaglio utile solo a mantenere il proprio potere di opinion-makers sulla cittadinanza. Per questo non dovete credere a chi vi dice che qualora passasse la legge sulle intercettazioni (la “legge-bavaglio” appunto) il minuto successivo alla sua promulgazione inizierebbero i funerali della “società democratica” e della “libertà di stampa ed informazione”. Anzi, provocatoriamente potrei anche dire che sarebbe un bene che questa legge passasse il prima possibile, perché così i giornalisti, non potendo più occuparsi di intercettazioni, ritornerebbero a quel ruolo sociale che compete, o dovrebbe competere, alla categoria. In un'intervista sul senso dello scrivere Pasolini ebbe a dire: «Ci sono degli scopi che uno si pone come cittadino più che come scrittore e allora qui rientrano i pesanti concetti di impegno eccetera eccetera». Ecco, con l’impossibilità di scrivere di intercettazioni, forse, i giornalisti italiani (espressione poetica e suggestiva, per dirla alla Gaber de “La Democrazia”) riuscirebbero a disintossicarsi da quell’irrefrenabile istinto che li porta a raccontare tutti gli aspetti di quattro o cinque questioni dimenticando tutto il resto. Forse, con l’avvento della legge sulle intercettazioni noi comuni mortali potremmo tornare ad avere notizie dalle carceri, dai Centri di Identificazione ed Espulsione; potremmo avere un’informazione degna di tale nome sulle lotte operaie non solo quando succedono eventi “da prima pagina” come il falso referendum della FIAT di Pomigliano. Potremmo ricominciare ad essere informati di quello che succede nella società vera, quella delle classi operaie e di tutti gli sfruttati, sottopagati, cassintegrati e quelli che non prendono centinaia di migliaia di euro per “portare in alto il nome dell’azienda” a suon di licenziamenti politici.

Magari, se i giornalisti si ricordassero ogni tanto che esiste tutto un mondo che non comprende Berlusconi, Bersani, Dell’Utri e la solita cricca, sui giornali principali si potrebbero leggere parole come queste: «La persona viene identificata con il reato e non più scollegabile dalla sua condanna. Resta attaccata a quel quadro, prigioniero di quella cornice, che si materializza in sbarre. Non si tiene più conto di un percorso. E non penso a un percorso di meriti. No. Penso a un percorso personale. Etico. Quello dei meriti è un falso percorso. Non si possono dare sconti a scadenze o promozioni per meriti che possono essere anche conseguiti per favori e opportunismi o anche inganni. Intendo un percorso personale. Di un tempo proprio. Non è uguale per tutti, perché il tempo non passa allo stesso modo per tutti. l’innocenza si perde e colpevoli si diventa. Sempre si diventa colpevoli, ma è possibile invertire la linea e da colpevoli si può diventare innocenti quando si riguadagna la propria interiore verità al presente della propria storia. Un carcere che curvi verso la restituzione della società all’individuo e dell’individuo alla società deve tener conto delle relazioni come condizione di liberazione. Se solo ci fossero più scambi tra il carcere e la città, se solo il carcere non fosse un luogo fuori della città, come i cimiteri, se solo ci fosse scambio tra scuola e carcere, con incontri organizzati su argomenti, se solo ci fosse conoscenza e relazione con i luoghi di lavoro. (…)Vedere la sofferenza altrui induce anche il violento ad aiutare, vivere al chiuso la sofferenza, pure meritata, per un gesto violento, rende ancora più violenti. Trattiene, reprime, non libera altri gesti, non libera altri pensieri. Una società è libera quando rende liberi di vivere nelle sue regole».

[Giuseppe Ferraro, lettera a Carmelo Musumeci n°16]

Invece, per scovarle, bisogna andare su un altro interessantissimo sito (e, per questo, pubblicizzato poco dal circuito principale): Le urla dal Silenzio, un blog creato appositamente per far conoscere ai non addetti ai lavori l’idiozia e l’incostituzionalità (art.27: «Le pene devono tendere alla rieducazione del condannato» ) del “fine pena mai”. C’è un carteggio, arrivato ieri al diciottesimo scambio, che trovo decisamente interessante: gli interlocutori sono il professor Giuseppe Ferraro, docente di filosofia presso il dipartimento di filosofia della Federico II di Napoli al Philosophisces Seminar della Ludwigs Universitaet di Freiburgo e autori di testi quali "La filosofia spiegata ai bambini" e "filosofia in carcere" e Carmelo Musumeci, catanese classe 1955 e detenuto in regime ostativo nel carcere di Spoleto. Laureato in giurisprudenza durante la condanna (ha prima terminato gli studi superiori e poi intrapreso la triennale in giurisprudenza) ha girato molti degli istituti penitenziari di questo paese. Pericoloso? Sì, sicuramente. Pericoloso di quel pericolo che nonostante gli anni passati in carcere non ti fa abbassare la testa, non ti ammansisce come invece vorrebbe il potere repressivo. Ha sempre lottato per i suoi diritti, per i suoi e per quelli degli altri detenuti. Ha scritto lettere praticamente a chiunque, ha coordinato il periodico "Liberarsi dalla necessità del carcere" insieme a Giuliano Capecchi e partecipa al progetto Informacarcere. Ha scritto poesie ("Le avventure di Zanna Blu" il libro che le racchiude), ha realizzato calendari, spesso censurati per comprovata anti-berlusconità. E proprio per tutti questi motivi lo Stato repressivo gli nega ogni volta la libertà. Non solo la libertà di uscire - nel regime ostativo non esistono benefici, non esistono giorni di permesso - ma anche, in maniera forse ancor più infame, gli è stato negato il permesso di portare con sé un libro di fiabe per leggerne qualcuna a suo nipote durante un colloquio con i suoi familiari.

Vorrei poter mettere per intero il carteggio tra loro due, non solo perché è una di quelle vicende di cui non si trova una riga nel circuito mainstream, ma anche – e soprattutto – perché leggere quel che questi due Uomini (la maiuscola non è un refuso) si scrivono e si dicono dà un senso diverso a tutto quello che in questi anni ci hanno insegnato sul carcere e sulle persone che per propria scelta o per “disegni diversi” sono costretti a guardare il sole da dietro le sbarre. Ma vista la lunghezza del carteggio (arrivato al diciottesimo scambio) mi limito a elencarvene i link:


Questi sono documenti che vanno letti. Perché la “società civile” certe cose non le conosce, perché i giornali, semplicemente, non ne parlano: il carcere, i c.i.e. e tantissimi altri argomenti. E vanno letti perché se davvero vogliamo considerarci società “civile”, se davvero vogliamo dire che l’Italia è un paese “democratico” dobbiamo iniziare a fare qualcosa per cambiare la situazione. Innanzitutto iniziando a fare la cosa più semplice del mondo: informandoci.

C’è un passaggio, nell’ultima lettera, che mi è rimasto in testa più di tanti altri. «Se gli ergastolani avranno il coraggio di mettersi in discussione, la gente là fuori avrà il coraggio di farci delle domande e di ascoltare le nostre risposte?»

Già, siamo davvero così civili da essere in grado di rispondere “” a questa domanda?

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