Musica pesante, musica pensante...

Prima di partire con il post un paio di avvertenze: il video qui sotto non è per bambini (lasciateli illudere ancora un po’ che il mondo sia quello tutto rose&fiori delle favole…) tantomeno è da guardare se avete da poco fatto colazione. Mi interesserebbe, peraltro, che il lettore mi scrivesse anche cosa legge in questo video (così come io ho cercato di fare più sotto), naturalmente prima di leggere la mia disamina, per evitare influenze di giudizio in quanto, da studente di comunicazione quale sono, per me potrebbe essere interessante fonte di studio la sensazione che un video come questo suscita nello spettatore, e capite bene che più persone mi segnalano le loro, più facile è per me il lavoro. Detto questo, buona visione…
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Se lo scopo era quello di far parlare, il nuovo singolo di Mathangi "Maya" Arulpragasam, la 34enne artista nata inglese e cresciuta Tamil (e chi mastica un po’ di storia e politica internazionale sa che questo dice molto…) che il mondo occidentale conosce con il decisamente più semplice nome di M.I.A., lo scopo è raggiunto alla grande. È sicuramente un video pesante, in cui la musica altro non è che una “scusa” per realizzare un vero e proprio cortometraggio il cui scopo – per stessa ammissione dell’artista – è quello di sensibilizzare le persone, in particolare noi occidentali abituati alla tranquillità delle nostre pur caotiche – in termini di traffico – città. Inizialmente vietato ai minori di 18 anni, YouTube ha deciso dopo alcune ore di eliminare definitivamente il video, accusato di essere troppo violento e non consono alle regole “deontologiche” del sito. In rete si è aperto un caso: c’è chi dà ragione al sito, accusando l’artista – e Romain Costa-Gravas che ne è il regista – di aver voluto creare un video sensazionalistico e volutamente estremo solo per fare pubblicità al nuovo disco (“Born Free” è infatti il singolo di lancio del nuovo disco che uscirà il 28 giugno). Ma “Born free”, oltre ad essere un video musicale è molto di più.
È – lo abbiamo detto – un atto d’accusa contro la guerra, e dunque un atto d’accusa contro l’involuzione della specie umana che ormai uccide e fa uccidere poveri cristi per esportare la democrazia o garantire una pace. Una pace che per le vittime dei conflitti – nati tutti da disequilibri, veri o presunti, nei rapporti di potere ed in particolare del potere economico – diventa eterna (è di ieri la notizia della morte dell’ennesimo militare italiano inviato ad “esportare la pace” a suon di sventagliate di mitra…). Ma “born free” è anche qualcos’altro.
Come anticipato all’inizio di questo post, oltre a fare il blogger, chi vi scrive è anche uno studente di comunicazione, ed è quindi per me fonte di interesse personale e di studio l’insieme degli spunti che il video – come l’altro video che vi posterò in seguito, diretto sempre dal figlio di Kostantinos Gravas – ci offre.
Innanzitutto l’ambientazione, che più che uno scenario di guerra come lo possiamo conoscere noi ricorda le strade brasiliane dove si aggirano i militari corrotti di “Tropa de élite”, il film di José Padilha del 2007, ma potrebbero essere le strade de Le Vele di Scampia o dello Zen di Palermo, tanto per rimanere in ambiti conosciuti alla nostra quotidianità, come potrebbe essere qualunque altra periferia – visti anche i palazzi - di qualunque città occidentale.
L’uso della bandiera yanqui sulle divise non deve trarci in inganno: il video non è – come si potrebbe pensare ad una poco attenta visione – un inno antiamericano, ma la bandiera a stelle e strisce può essere usata come metafora dell’Impero, di cui – come ci insegnano Toni Negri e Michael Hardt nel libro omonimo – gli United Snakes of America sono gli attuali tenutari.La prima sensazione che si ha, guardando sia alla dinamica che all’ambientazione, è di quei raid anti-criminalità che spesso vediamo nei film che trattano di mafia, quelli in cui il culmine del pathos è dato dalla caccia all’uomo tra il capo della squadra mobile ed il boss, che solitamente arriva dopo una lunga sequela di arresti di “pesci piccoli” che via via portano – quasi sempre, perché i film devono avere quasi tutti l’happy ending – all’arresto del boss. Nel video invece possiamo vedere la violenza del Potere contro i più deboli ed i considerati “scarti della società” – la donna all’ingresso del palazzo o gli anziani, ad esempio – che potrebbero far pensare ad un’operazione di repressione contro i “non perfetti” (e qui può essere più o meno voluto il riferimento alla purezza della razza di hitleriana memoria), confermata poi dalla scena dell’autobus, dove si scopre che il ragazzo arrestato – che all’inizio poteva ricoprire qualsiasi ruolo, dal piccolo delinquentello all’immigrato clandestino passando per il piccolo spacciatore – fa parte della minoranza da combattere, cioè i ragazzi (è indicativo che non ci siano ragazze nel gruppo…) dai capelli rossi. Su questo aspetto c’è chi dice essere chiaro riferimento al rosso del comunismo, ma guardando il tipo di ragazzi arrestati potrebbe essere benissimo l’Irlanda dell’epoca dell’Irish Republican Army.
È invece evidentissimo il riferimento al conflitto israelo-palestinese nella sequenza successiva, quella cioè del lancio di pietre contro gli autobus, proprio come i bambini palestinesi imparano a fare ancor prima di imparare a camminare o a parlare correttamente (e la kefiah – anch’essa rossa – non fa altro che confermare questa tesi).
Arriviamo così al campo minato: io ci leggo l’arrivo dei treni che durante la II Guerra Mondiale portavano gli ebrei nei campi di concentramento, così come ci leggo le deportazioni degli immigrati nei Centri di Identificazione ed Espulsione qui in Italia, così come la pulizia etnica degli stessi Tamil o quella nelle guerre balcaniche o nelle poco mediatizzate guerre africane. Qui possiamo assistere poi alla violenza più bruta del Potere dei vincitori – perché, come è evidente dal murales che si vede qualche fotogramma prima – la polizia è espressione del sistema di potere al comando, manifestata nell’uso della ritorsione dimostrativa verso il più debole – il colpo alla tempia al bambino più piccolo – che è fondamento di qualunque sistema di potere, così come lo è il “gioco” della corsa nel campo minato che ricorda le torture di Abu Ghraib e delle detenzioni dei prigionieri di guerra.
È importante, infine, la figura del ragazzo che abbiamo visto arrestare qualche minuto prima, al quale è inscritto il ruolo dell’”irriducibile”, con la sua ultima sfida al Potere precostituito e la corsa solitaria – rivelatasi inutile – nella ricerca di una libertà che non arriverà.
Arrivati a questo punto, arrivati alla fine del video, è evidente che lo scopo che M.I.A. e Romain Costa-Gravas avevano all’inizio della realizzazione, cioè quello di denunciare l’abbrutimento della condizione umana (per la quale la guerra è solo la sua forma più evidente) è pienamente raggiunto. Voi che ne dite?

Prima di concludere, come accennato qualche riga fa, ecco l’altro video di Costa-Gravas:
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Questa è “Stress” dei Justice, gruppo parigino di cui ammetto di non aver mai sentito parlare (altro è d’altronde il mio genere musicale di riferimento…). Rispetto a “Born free” probabilmente questo video è meno violento (questione di millesimi, comunque) ma più adrenalinico, con un refrain che scorre quasi identico a sé stesso dall’inizio alla fine. È invece interessantissimo il lavoro che il regista fa sull’immagine, in cui a me appare chiara l’operazione di culture jamming – cioè quell’opera di sovvertimento semantico dei messaggi, spesso usata contro le multinazionali - che assume le sembianze del capo-banda:  se può essere infatti più o meno evidente il richiamo al nazi-fascismo o comunque alla follia di un regime repressivo (il gruppo – indossando una vera e propria divisa – potrebbe tranquillamente identificare le polizie politiche dei regimi dittatoriali) è interessante notare come il capo-banda – l’unico a cui viene affidata una qualche parte di rilievo - sia un ragazzo di colore (cioè una delle comunità più combattute dai regimi, in particolare da quello nazi-fascista), creando così una situazione difficilmente riscontrabile in un gruppo sociale che fa della “purezza” della razza il fulcro del credo politico. Ma d’altronde è evidente – considerando anche che i Justice sono parigini – il richiamo alle banlieues, cioè in quei ghetti in cui la società capitalista ha relegato tutti i “non conformi” e dove l’unica ideologia che esiste è quella della sopravvivenza. Ma questa è un’altra storia…