Free(dom) Palestine!


«Non appena la notizia ha cominciato a circolare, i malati che attendevano medicine hanno cominciato a piangere, assieme a centinaia di famiglie che vivono nelle baracche e speravano che avrebbero avuto una piccola casa prefabbricata».
È forse questa una delle frasi che più mi hanno colpito nelle tante cose che sto leggendo in queste ore in merito all’assalto israeliano al convoglio della Freedom Flotilla dei giorni scorsi. Forse perché questa domanda mi fa tornare in mente quel che mi sono chiesto fin da piccolissimo, fin da quando ho iniziato ad avere familiarità con parole come “Palestina”, “Israele”, “Intifada” ecc, e cioè come sia la vita sotto le bombe. Io mi ritengo un ragazzo fortunatissimo: sono nato e vivo in un paese che, per quanto mi faccia schifo, non ha città divise nettamente tra quartieri ricchi e quartieri poveri come Puerto Príncipe, la capitale haitiana colpita qualche mese fa da un terremoto – devastante – che sembra aver fatto danni solo nella zona povera; sono nato in un paese in cui non mi tocca uccidere i miei fratelli come avvenne nei “cento giorni che sconvolsero il Rwanda” tra l’aprile ed il luglio 1994; sono nato in un paese in cui non sento, quasi incessante, il suono delle sirene anti-missile con le quali il popolo palestinese viene avvertito dell’ennesimo attacco israeliano, costringendo donne, uomini, bambini e anziani a stare ore ed ore in bunker sotterranei in cui l’espressione “luce del sole” diventa un lontano ricordo.
Quello che è successo nei giorni scorsi mi lascia dentro più rabbia del solito. Perché nonostante questa volta nessuno possa girarsi dall’altra parte e dire che è una faccenda tra palestinesi ed israeliani, è esattamente quello che avviene in queste ore, quando quella cosa strana che qualcuno si ostina a definire “comunità internazionale” si prodiga nel solito teatrino filo-israeliano. Non voglio rientrare di nuovo in polemiche sul più classico dei dibattiti, cioè sul chi abbia ragione e chi torto, considerando anche che – mentre scrivo – dietro di me c’è una bandiera palestinese di dimensioni giganti. Ma questa volta, rispetto agli attacchi quotidiani subiti dai palestinesi, c’è qualcosa di diverso. Perché sì, le navi trasportavano qualcosa come 10.000 tonnellate di aiuti umanitari della più disparata specie, ma quel blitz non è un blitz contro i palestinesi. O meglio: non solo quello.
È la definitiva distruzione di un sogno per cui il popolo che non ha nazione (o meglio: ce l’avrebbe ma gliel’hanno scippata ormai decenni fa…) lotta ormai da generazioni.
Ma questa volta è anche un attacco – diretto – a quella stessa comunità internazionale che, col corpo o solo con la mente ed il cuore, si è imbarcato in quel viaggio della speranza bloccato nel sangue a circa 120 km dai confini marittimi israeliani.
Le ricostruzioni dell’accaduto, poi, sono a dir poco nauseabonde nella loro difesa della Stella di David. Si è arrivati a sostenere – dalle pagine de La Stampa – che gli israeliani fossero forniti di fucili con proiettili di vernice…ma evidentemente perché avevano terminato quelle che quando spari esce la bandierina con scritto “BANG!”. Sicuramente è questa la cosa che più mi rivolta lo stomaco. Perché chi, come me, vede nel giornalismo l’unico strumento che ha la Verità per essere conosciuta, a leggere queste cose si chiede se sia più utile investire quell’euro/euro e venti centesimi in attività diverse, come giocare alle slot machine o destinarlo alla Chiesa Cattolica per mezzo dell’8x1000. Sarebbe sicuramente un investimento migliore. Evito direttamente di commentare le dichiarazioni dei nostri politici perché ho smesso di crederci più o meno da quando si è sciolta Democrazia Proletaria (e io sono nato nel 1986…).

Ma torniamo ai fatti.
Mentre scrivo sui media mainstream c’è ancora un vuoto quasi totale sull’identità sia dei morti che dei feriti, e a malapena si sa qualcosa dei cinque italiani che del convoglio facevano parte. Innanzitutto si tratta del free lance Manuel Zani, 30enne di Longiano (Fc) che ha rifiutato il rimpatrio per continuare la sua lotta contro il blocco di Gaza; Joe Fallisi, anarchico milanese di professione tenore e Manolo Luppichini, 47enne romano free lance e regista che ha collaborato con “Presa Diretta” - il programma di Riccardo Iacona – proprio con un reportage da Gaza. Gli altri due italiani, che non si sono imbarcati sulle navi, sono Monia Bonini e Fernando Rossi, intervistato sull’accaduto dal blogger Claudio Messora sul suo Byoblu, entrambi dell’associazione “Per il bene comune”. In tutto, il blitz – oltre a costare la vita di circa una ventina di attivisti – ha portato 480 persone nella prigione di Ashdod, nel sud di Israele, ed altre 48 all’aeroporto internazionale di Ben Gurion per essere espulse. Per altri 45, quasi tutti di nazionalità turca, è stato necessario il ricovero ospedaliero. Si dice anche – per amor di cronaca – che ci siano stati sei feriti dalla parte degli aggressori, ma le fonti sono gli stessi militari israeliani, per cui lascio al lettore definire attendibile o meno tale informazione. 
«Donne, uomini, invalidi con le stampelle sono scesi in strada ed ora, come in un pellegrinaggio, si dirigono al porto tenendo in mano bandiere egiziane, turche, palestinesi, algerine, per fare le condoglianze e dire grazie ai volontari della Pace che stavano arrivando via mare, per portare un po’ di sollievo a questa crisi umanitaria. Credimi è una scena commovente». A dirlo è Sawfat Kahlout, corrispondente Ansa e collaboratore del giornale israeliano Maariv, intervistato da “Il Fatto Quotidiano”.
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Questa è la prima pagina di oggi di quell’ignobile de Il Giornale (che spero almeno sia fatto con carta riciclata, ma ne dubito…). Anche in questo caso non so se prendermela o mettermi a ridere. La storia è sempre la stessa: se prendete la prima pagina del quotidiano nei giorni dell’arresto in Afghanistan dei tre cooperanti di Emergency potrete leggere anche lì termini come “amici dei terroristi”, che – nell’immaginario feltriniano – è un gruppo composto più o meno dal 99,9[periodico]per cento della popolazione mondiale; più o meno tutti coloro che non la pensano come il direttore della testata che fu di Montanelli. C’è però una cosa che mi lascia perplesso: ad un certo punto si parla del rispetto della “sovranità nazionale” che con il blitz Israele voleva imporre. Qui siamo davanti ad un falso storico da manuale: quale “sovranità nazionale”? Quella dei 120 km di distanza dai confini marittimi israeliani, che dunque – per il diritto internazionale – fanno ricadere l’assalto sotto la fattispecie di “atto di guerra” (furto delle navi e del carico, sequestro di persona, omicidi intenzionali…). Dicono fonti turche, che dunque prendete – come quelle israeliane – con beneficio del dubbio, che gli uomini del commando avessero una lista di personalità da uccidere, come lo sceicco Raed Salah, capo del Movimento islamico nei territori palestinesi (che nei media nostrani diventa “movimento islamico radicale”, tanto per instillare lo spettro di Al Quaeda nell’ignaro spettatore…) che sembra essere rimasto gravemente ferito.
Se c’è però un aspetto per certi versi positivo in tutta questa storia, è che grazie al “pretesto” (e non fraintendete l’uso di questo termine…) del blitz, si può riprendere un dibattito che da troppo tempo si ignora, nonostante ogni minuto in cui ci giriamo dall’altra parte venga pagato a carissimo prezzo sulla pelle dei palestinesi (e qualche volta, anche se in maniera decisamente inferiore – basti guardare al rapporto tra le due parti alla voce “vittime”- degli israeliani), e cioè quello che porterà ad una risoluzione definitiva di un conflitto che il mondo che si definisce “democratico” non può più rimandare.
Io intanto, voglio fare una cosa, voglio lanciare una sorta di “soccorso internazionale” dalle pagine del blog (ok, non sarò agli stessi livelli di Grillo o dei grandi blogger italiani, ma qualcuno che capita da queste parti c’è sempre…) sia verso i palestinesi che verso i militanti ancora tenuti nelle prigioni israeliane, che non credo abbiano bisogno di alcuna presentazione: voglio vedere se davvero questa “comunità internazionale” esiste o è frutto della fantasia dei giornalisti. L’idea è quella di una “mailbombing” – in attesa di qualcosa di più sostanzioso – da fare alle ambasciate israeliane. Il testo – per il quale sto cercando traduttori, in particolare in inglese, arabo ed ebraico – più o meno dovrebbe essere:

"I bambini palestinesi hanno bisogno di latte, di cibo e di poter vivere come tutti i bambini del mondo: in libertà. L'assalto alla Freedom Flotilla non è tanto un atto contro un gruppo di manifestanti, quanto contro il futuro stesso dei bambini palestinesi, che cresceranno nell'odio verso lo Stato d'Israele, così che gli effetti di questo atto si riverseranno anche sul futuro dei vostri figli.
Liberate i detenuti della Freedom Flottilla.
Permettete agli aiuti di arrivare alle popolazioni palestinesi.
Stop all'embargo unilaterale verso la Palestina."

Che fate, me la date una mano?

السلام عليكم