APOlogia di un leader

Amed/Diyar-i Bekr (Kurdewarî/Kurdistan) - «Definire la democrazia è importante perché stabilisce cosa ci aspettiamo dalla democrazia. Al limite, se andiamo a definire la democrazia «irrealmente» non troveremo mai  «realtà democratiche». E quando dichiariamo, di volta in volta, «questa è democrazia», oppure che non lo è, è chiaro che il giudizio dipende dalla definizione, o comunque dalla nostra idea di cosa la democrazia sia, possa essere o debba essere. Se definire la democrazia è spiegare che cosa vuol dire il vocabolo, il problema è presto risolto: basta sapere un po’ di greco. La parola significa, alla lettere, potere (kratos) del popolo (demos). Ma così abbiamo solo risolto un problema verbale: si è soltanto spiegato un nome. Il problema di definire la democrazia è assai più complesso. Il termine democrazia sta per qualcosa.  Che cosa? Che la parola democrazia abbia un preciso significato letterale o etimologico non ci aiuta affatto a capire quale realtà vi corrisponda e come sono costruite e funzionano le democrazie possibili. Non ci aiuta perché tra la parola e il suo referente, tra il nome e la cosa, il passo è lunghissimo.»

[Giovanni Sartori, “Cos’è la Democrazia”]

Già, cos’è la Democrazia? Come funziona? Quali parametri la regolano?

  Potremmo definire con questa etichetta uno Stato, o comunque una comunità, in cui vigono le principali libertà, individuali e collettive (come quelle sancite dall’art.3 della nostra carta costituzionale)? Sicuramente. E potremmo definire “Democrazia” anche – e forse ancor di più – quello Stato o quella comunità nella quale ampia è la partecipazione dei cittadini alla vita pubblica della propria comunità di riferimento.

Fermandoci a questo punto, accettando questi parametri come pilastri di quella che definiamo “Democrazia” rimarremmo nel campo della pura teoria.

Perché a me ad esempio di parametri ne vengono in mente altri, forse un po’ meno “aulici” e più ancorati alla realtà, ma che non per questo sono meno interessanti. Tra questi voglio citare la libertà – e dunque la possibilità – al dissenso, alla libera critica (come può essere quella che possiamo leggere nel dibattito aperto intorno alla figura dell’”eroe” - o meno - Roberto Saviano sulle pagine de Il Manifesto) ed il modo in cui chi ha il compito di tutelare questa “Democrazia” – cioè il Potere – tratta i propri carcerati, che spesso altro non sono che persone le quali, per volontà o necessità, non accettano il sistema (di valori, di leggi et alia) su cui tale Democrazia si basa
. Basti guardare al fatto che le carceri italiane sono piene di immigrati (definiti “clandestini” dalla necessità del Potere che ci governa di identificare un nemico da eliminare…), ladri di galline e molte altre persone la cui unica colpa è quella di essere in situazione di non-privilegio nel sistema capitalista. Ed in questo trovo facile appiglio in una considerazione vecchia forse più di Matusalemme: il Potere nelle carceri lo si trova sempre in funzione repressiva, mai dal lato dei repressi.

Ne abbiamo un triste esempio guardando alle nostre carceri, nelle quali i detenuti sono trattati in una maniera che definire disumana è un eufemismo, e qui mi verrebbe da chiedermi – da ateo – dove siano tutti quelli che la domenica mattina si battono il petto in quegli opulenti luoghi (di culto) pieni d’oro che poco servono al culto divino e tanto al culto – tutto terreno e politico – dell’entità ecclesiale. Ma non è questo di cui voglio scrivere in questa sede…

Ne abbiamo esempi se guardiamo all’estero: Guantánamo Bay è sicuramente il primo inferno che ci viene in mente, dove la principale democrazia occidentale ha rinchiuso in gabbie simili a quelle delle galline persone prendendole dal mucchio in base ad una discriminante razzial-religiosa che niente ha da invidiare al regime nazista. Ma di questo, sui media, si parla poco. Non sia mai che a qualcuno venga in mente di spostare quel famoso tappeto per vedere quanta polvere c’è sotto.

Ne abbiamo un altro esempio – di cui si parla ancor meno – probabilmente ancor peggiore ad Imrali, una piccola isola ad ovest della penisola turca – nazione di cui batte bandiera – e che è una riedizione, in chiave semi-europea, del carcere di Alcatraz: dal 1999, infatti vi è detenuto Abdullah “Apo” Öcalan, leader del Partito dei Lavoratori Kurdi (Partîya Karkerén Kurdîstan, P.K.K.) che, per 11 anni, è stato l’unico detenuto sull’isola. Ma quanti ricordano la storia dell’uomo che prima dell’11/9 è stato rappresentato per un biennio, insieme al suo partito, una sorta di Al Quaeda ante-litteram?

È per questo che, leggendo le cronache sui fatti intorno alla Freedom Flotilla, da una parte mi viene da ridere e dall’altra provo un profondo senso di indignazione quando si parla di Recep Tayyip Erdoğan, il leader turco innalzato(si) a difensore dei diritti della flottiglia e del popolo palestinese e per il quale ci si è dimenticati del trattamento – in puro stile israeliano – riservato ai kurdi.

È il 15 febbraio 1999. Il mondo “civile e democratico” festeggia l’arresto, avvenuto in Kenya, del leader del PKK, la cui colpa era quella di essere venuto in Europa – facendo tappa anche nel nostro paese – con l’intento di far conoscere la situazione del popolo kurdo nell’Europa occidentale (per un dossier sul Kurdistan vi rimando qui: http://docs.google.com/View?id=df9bk2zx_70hntx2qcx). Da quel 15 febbraio 1999 quel sistema internazionale che si riempie la bocca – ed in alcuni casi la pancia – di quelle parole che vanno tanto di moda in questi ultimi anni come “democrazia”, “diritti civili” e consimili si rende quotidianamente artefice del genocidio che da oltre 20 anni la Turchia mette in atto verso il popolo kurdo.
  • Ma cosa vogliono i kurdi?
«La rivoluzione ha due aspetti, è nazionale e democratica. La rivoluzione nazionale insedierà un nuovo potere politico, militare e culturale. A questo succederà la seconda fase: la rivoluzione democratica, che punterà a superare le contraddizioni derivanti dal passato feudale, cioè sfruttamento feudale, struttura per clan, settarismo religioso, dipendenza semischiavistica della donna.(…)È compito della rivoluzione mettere fine a tutte le forme di dominio del colonialismo turco, avviare un’economia nazionale e puntare del Kurdistan». È questo il manifesto fondativo del Partîya Karkerén Kurdîstan, il partito dei lavoratori kurdi fondato il 27 novembre 1978 ad Ankara da Abdullah Öcalan e che adotta come testo di base  quel manifesto – di cui sono riportati alcuni punti qui sopra – scritto dopo il ritorno dall’esilio (1975) dallo stesso Apo – come i compagni kurdi chiamano Öcalan – Mazlum Dogan e Mehmet Ali Durmus. Da quel 1975 il gruppo inizia a girare le regioni kurde per far conoscere le proprie idee, facendo breccia in particolare nel cuore delle masse proletarie (contadini e giovani su tutti) pur potendo contare su una ampia base interclassista. Un partito – anche se agli inizi è forse meglio parlare di movimento – di questo tipo non è mai entrato però nel cuore del governo, che inizia quella che diventerà la “caccia al kurdo” il 18 maggio 1978 con l’uccisione ad Antep (città oggi conosciuta come Gaziantep, nell’Anatolia sud-orientale) di Haki Karer, uno dei fondatori del gruppo. Un anno dopo, nel 1979, Öcalan si sposta in Libano dopo che nel 1978 – a seguito dei sanguinosi scontri tra turchi e kurdi seguiti all’uccisione di due militanti di estrema destra – il governo turco aveva reintrodotto nell’ordinamento la legge marziale. Sulle montagne libanesi Öcalan ed il gruppo dirigente del P.K.K. organizzano la lotta partigiana, che dal 1982 affronterà il nemico turco sul campo, dopo che in quell’anno era stato deciso – durante il secondo congresso del partito, di cui Apo era Segretario generale – di fare ritorno dapprima in Turchia e poi nuovamente in Kurdistan. La lotta civile kurda inizia “ufficialmente” nel 1984, con la fondazione delle Unità di Liberazione del Kurdistan (HRK) e dando il via alla lotta contro il colonialismo turco occupando due piccole città – Eruh e Shemdinli – nel sud della Turchia. Dalla metà degli anni ‘70 fino alla metà degli anni ‘90 la lotta del popolo kurdo aveva un solo volto: quello di Abdullah “Apo” Öcalan.

Nato nel 1948 da una povera e numerosa famiglia contadina nel villaggio di Ömerli, Öcalan si avvicina alla politica militante ai tempi dell’università, quando ad Ankara frequenta la facoltà di scienze politiche. All’età di 24 anni viene arrestato per attività sovversiva (cioè a favore dei kurdi) per 7 mesi, per poi emigrare – come abbiamo visto – in Libano, dal quale costruirà la resistenza con la quale si ripresenterà in Kurdistan nella metà degli anni ‘70, dando origine al P.K.K..

«Insieme al popolo kurdo, combatto non solo per la nostra identità e la nostra esistenza. La nostra battaglia è rivolta anche contro l’ideologia dominante dello spirito moderno capitalista e cerca di portare dalla Mesopotamia, la culla dell’umanità, un contributo per la creazione di un’alternativa, che noi chiamiamo «spirito moderno democratico», scrive di suo pugno in “Una pace giusta per noi kurdi”, il primo di una serie di articoli scritti in esclusiva per il quotidiano comunista Il Manifesto (sul quale domani comparirà un suo nuovo scritto) il 9 gennaio di quest’anno [e che tra qualche giorno potrete trovare disponibile anche sul blog…]. Nonostante questo, e nonostante tutti i tentativi di togliersi di dosso quell’etichetta infame “terrorista”, affibbiatagli da chi terrorista lo è davvero in quanto genocida (e qui l’elenco si estende dalla Turchia agli Stati Uniti fino ai 3/4 dell’Occidente) e per essere legittimato agli occhi della comunità internazionale come il principale referente del grido degli autonomisti kurdi: dai tentativi di “istituzionalizzare” il partito-movimento mettendo ai margini le figure più violente (come Şemdin Sakik, uno dei principali capi militari del P.K.K., un “falco”, e che veniva descritto come il braccio destro dello stesso Apo) fino ai tentativi – plurimi – di arrivare ad una situazione non bellicosa tramite l’annuncio di cessate il fuoco unilaterali, dei quali i governi turco – da Bülent Ecevit a Recep Tayyip Erdoğan passando per il breve interludio di Abdullah Gül – hanno sempre fatto carta straccia.

È difficile etichettare con il termine “terrorista” chi si batte per ottenere uno stato “democratico” e che non chiede la distruzione di etnie e/o sistemi sociali ma riempie i suoi scritti di idee quali “civile convivenza”, “uguaglianza”, “tolleranza” e, soprattutto “pace”. Ma ben sappiamo che un sistema basato sulla guerra come strumento di politica estera (come ebbe a scrivere Carl von Clausewitz nel suo “Della guerra”: “La guerra non è che la continuazione della politica con altri mezzi”) chi parla di pace diventa un sovversivo, un “terrorista” appunto.

Ed è esattamente così che viene presentato al popolo europeo, quando – nell’ottobre 1998 – inizia il suo viaggio per la “democratica” Europa, Prima la Grecia, poi la Russia ed infine il nostro paese, al quale chiede – oltre ad un aiuto per il suo popolo – anche l’asilo politico. Ed è proprio qui, nella nostra bella capitale, che avviene il primo tradimento della Democrazia per Apo: l’allora esecutivo D’Alema, incapace – come qualunque governo – di slacciarsi dal giogo dei poteri NATOunitensi chiede in maniera neanche tanto velata al leader del P.K.K. di pernottare il meno possibile sul nostro territorio, invitandolo a spostarsi in una più accogliente (visto l’alto numero di kurdi…) Germania. Ma il ruolo più infame viene fatto giocare alla Grecia che – stando ad alcuni giornali turchi – vende Öcalan ai turchi recapitandoglielo in Kenya ottenendo come contropartita la possibilità di installare a Creta dei missili SS-300 di marca sovietica.

Quel che è certo è che con quella ormai famosa immagine del leader del P.K.K. sedato, con gli occhi bendato ed ammanettato (che, qualche anno dopo, verrà ripresa nelle fattezze del leader iracheno Saddam Hussein) Abdullah Öcalan diventa un prigioniero politico. Della Turchia, naturalmente, che da 11 anni lo segrega, in quasi completa solitudine, nel carcere di Imrali. Della Turchia ma non solo: perché quando parli di pace in un sistema di guerra diventi prigioniero politico anche verso quegli individui, quelle comunità, quegli Stati e quelle organizzazioni che questo sistema lo fortificano e lo legittimano quotidianamente. E naturalmente Apo diventa prigioniero politico di quello “spirito moderno capitalista” – come lo definisce nei suoi libri - per il quale paesi che si definiscono “democrazie”, uno dei quali ha anche avuto una lunga, famosa e spesso presa ad esempio lotta per la liberazione, gli hanno voltato le spalle nel momento del bisogno, innalzandosi così al ruolo di “dittature della pluralità” più che di democrazie.

«Fin dall'inizio ho sempre sottolineato l'importanza del progetto del gasdotto chiamato Blue Stream, sul quale bisognerebbe fare chiarezza e che fa parte di questa rete di intrecci economici. Blue Stream è un grande gasdotto che trasporta il gas russo in Turchia passando sotto il Mar Nero. Di recente attraverso i miei avvocati sono venuto a conoscenza di un articolo apparso su un giornale turco, nel quale uno dei funzionari allora in servizio afferma che questo progetto, inizialmente bloccato a causa delle condizioni svantaggiose per la Turchia, dopo la mia espulsione dalla Russia il 12 novembre 1998 venne improvvisamente ripristinato su richiesta del governo turco. Ciò avrebbe cambiato il destino del progetto. Il funzionario continua dicendo che dopo la mia partenza dall'Italia il gruppo italiano Eni entrò a far parte del progetto. Questo esempio da solo basta a mostrare come, in collegamento con la mia persona, si stringono accordi economici alle spalle del popolo kurdo. Queste losche relazioni vanno ben più in profondità di quanto ad oggi non si sia potuto scoprire. Gli stati europei affermano ripetutamente di rappresentare la democrazia ed i diritti umani. Tuttavia mi chiusero tutte le porte e non fecero alcun vero tentativo di giocare un ruolo costruttivo nella soluzione della questione kurda. Al contrario si inchinarono ancor di più al volere degli USA e della Nato e, accettando di divenire il palcoscenico della congiura, si assunsero una parte infelice e drammatica. Ecco il vero volto del sistema europeo».
  • La burla
Il processo che viene fatto al prigioniero politico Öcalan è una vera e propria farsa, arrivato dopo un dibattito internazionale su quale dovesse essere il modo di rappresentare una decisione presa già da tempo: Apo doveva essere messo fuori gioco. C’era chi chiedeva la Corte Internazionale, sulla falsariga di quello che avvenne per il leader serbo Slobodan Milošević; chi – come la Farnesina – auspicava l’intervento di un paese terzo (purché firmatario della Convenzione per il trasferimento dei processi pensali) per improntare una “soluzione a democrazia europea” sul caso e chi ne auspicava un processo proprio in Italia. La verità la conosciamo, sappiamo su cosa è ricaduta la scelta della democratica Europa: lavarsene pilatescamente le mani.

Alto tradimento.  È questa la condanna – scontata – al leader kurdo da parte dei turchi che, stando all’art.125 del codice penale, avrebbero dovuto mettere a morte il prigioniero. Ma è proprio l’Unione Europea, seppur in maniera indiretta e trasversale, perché nel processo di avvicinamento della Turchia all’ingresso nel consesso continentale, questa si è vista costretta a fare a meno della pena di morte, portando così vantaggi – parola da prendere con le molle – anche al leader kurdo.

Ma il processo viene contestato: il 12 maggio 2005, infatti, la Corte Europea di Giustizia per i Diritti Umani si pronuncia sul caso, dicendo che il processo al leader kurdo non è corretto, che il suo diritto alla difesa è stato limitato e a causa della proclamazione della sentenza di morte ha subito un trattamento disumano. Trattamento che il leader kurdo ha continuato a ricevere lungo questi 11 anni, dove oltre alle percosse ricevute dalle forze dell’”ordine” turche si trova ad “abitare” in una cella di circa sei metri quadrati e mezzo in cui, però, l’aerazione è difficoltosa. Cella che gli è stata regalata dal Comitato europeo per la Prevenzione della Tortura (dall’inquietante acronimo di CPT). Ma per i democratici occidentali quella del leader kurdo è una sistemazione di extra-lusso, considerando la situazione delle carceri italiane.

Pur non essendo più in regime di isolamento totale (dal novembre dello scorso anno è infatti carcerato insieme ad altri otto esponenti del P.K.K.), il regime repressivo turco vuole tappargli la bocca, imponendo al quotidiano comunista italiano “Il Manifesto” di interrompere il rapporto epistolare. «Per noi sono i leader di movimenti di liberazione che lottano per i diritti elementari della loro gente. Per tutti comunque arriva un momento in cui devono essere riconosciuti come interlocutori politici se davvero il primo interesse è la pace».  È questa la risposta dalla redazione del quotidiano.

Evidentemente non sono l’unico a pormi la questione sul cosa sia “terrorista” e cosa non lo sia.

BIJI SEROK APO!

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Note a margine: apprendo mentre scrivo – a proposito di chi o cosa possa etichettarsi come “terrorista” – che dopo circa 25 anni è stata finalmente posta la parola fine sul processo alla Union Carbide che, dal 1984, ha ucciso più di 20.000 persone per i tagli alla sicurezza nella filiale di Bhopal (India) [per chi volesse saperne di più: http://senorbabylon.blogspot.com/2010/01/terroristi-sulla-rotta-bhopal-porto.html] Peccato che la pena prevista per questo reato non vada oltre i due anni. Ma si sa: anche volendo, il Potere è sempre dalla parte del repressore, mai del represso.

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