Di spirito di servizio, giornalisti-giornalisti e giornalisti-impiegati.

Prendo spunto da quel che si legge nei commenti su facebook alla notizia per la quale Michele Santoro starebbe per lasciare la Rai. A parte il fatto che la faccenda non sta esattamente nei termini descritti, visto che si tratta solo di un cambio di collaborazione – da dipendente a collaboratore esterno – necessario per il fatto che a Santoro era permesso di andare in onda non dai seppur notevoli ascolti, ma da una sentenza di tribunale, caso credo più unico che raro in tutto il panorama dell’informazione mondiale, la gente – che ormai ha perso l’abitudine a farsi domande e ad andare più in là dei titoloni sui giornali – ha subito urlato le solite e noiose parole: “attentato alla democrazia”, “dittatura” et alia, visto che al centro di tale notizia c’è uno dei loro beniamini preferiti, che allieta(va) gli invernali giovedì sera del popolo televisivo che crede di informarsi con due ore a settimana di teatrino degli orrori in cui si urla, si sbraita, ci si dà – a seconda – del “fascista” o del “comunista” ma dal quale non si ricava alcunché di utile. Ma d’altronde, se così non fosse, saremmo in un paese con un’informazione seria (non dico obiettiva perché non sono della “scuola” che pretende l’obiettività giornalistica, mera utopia finché saranno gli uomini a fare informazione).
A parte il fatto che è evidente che nel momento in cui arriverà davvero la dittatura neanche ce ne accorgeremo (considerato che Berlusconi e la sua cricca sono personaggi troppo piccoli per poter contare davvero qualcosa) e che molto probabilmente faremo la fine di quella nota pecorella che, a forza di gridare “al lupo!” quando s’è trovata di fronte al lupo vero, in carne ossa e frattaglie varie non è stata creduta, vi voglio raccontare una storia. Una storia che, naturalmente, non compare sui giornali e che non viene raccontata da queste trasmissioni di pseudo-approfondimento. Perché se, come meriterebbe, fosse quotidianamente sulle prime pagine di tutti i giornali questo sarebbe finalmente un Paese decente. Ma siamo ancora in Italia.
«Gianni Lannes è uno di quei giornalisti che fa nomi e cognomi. A giugno ha aperto un giornale online di informazione, con sede a Orta Nova, in provincia di Foggia. [Ha subito] minacce e tre attentati: il 29 giugno (del 2009,ndr), a due settimane dall’apertura, la prima lettera di minacce. Poi, a inizio luglio, un’esplosione fa saltare in aria la sua automobile. Il 23 luglio vengono manomessi i freni della sua auto. I primi di novembre, ancora, un attentato incendiario gli distrugge l’ennesima automobile», scriveva Il Fatto Quotidiano nell’edizione del 28 novembre del 2009.


  • Chi è Gianni Lannes?
Di giornalisti in questo paese ce ne sono tantissimi (probabilmente solo di politici e scrittori ne abbiamo in maggior numero…), e come espresso in una delle più belle scene di Fortàpasc, il film di Marco Risi dello scorso anno su Giancarlo Siani, l’unico giornalista ucciso dalla camorra (altro che Saviano…) molti di questi svolgono l’ignobile ruolo di giornalista-impiegato. Quella stessa scena, però, ci parla anche dei giornalisti-giornalisti. Quelli cioè per cui scrivere, raccontare fatti e storie, fare giornalismo insomma non è un mestiere ma una missione. Fortunatamente anche in questo campo ce ne sono stati parecchi: penso ad Ilaria Alpi, a Maria Grazia Cutuli, a Walter Tobagi o – per rimanere tra i vivi – Maurizio Torrealta di RaiNews24 (autore, oltre che di una contro-inchiesta sull’omicidio di Ilaria Alpi anche di inchieste sull’uranio impoverito, sulle armi chimiche in Iraq e un sacco di altre cose) e, appunto, Gianni Lannes.
Anche Lannes – stando a quello che dice Wikipedia, visto che non ho trovato altre fonti che ne riportassero un po’ di note biografiche – collabora, o comunque ha collaborato con la Rai, evidentemente quando la Rai era una cosa seria e di cui andar fieri. Si è occupato – e si occupa - di un sacco di inchieste scottanti: dal traffico di esseri umani a quello di armi passando per quello di rifiuti tossici. E proprio indagando su quest’ultimo traffico si è imbattuto in quella che è l’inchiesta che più lo ha reso “famoso”: quella sulle c.d. “navi dei veleni”. Quando scoppiò il caso, qualche mese fa, me ne occupai anch’io (che ovviamente non ho velleità di paragonarmi a cotanto giornalista), dunque per rispondere alla domanda “di cosa stiamo parlando?” potete tranquillamente leggere qui: http://senorbabylon.blogspot.com/2009/10/scorie-perdere.html.
Lannes fa giornalismo d’inchiesta vero, quello per il quale la fatica, il tempo – e nella maggior parte dei casi – il denaro spesi per produrre qualcosa di buono ed interessante raggiungono livelli altissimi (in particolare se lavori come freelance), ma nel paese che gira al contrario a tanta fatica non viene corrisposta la notorietà che si dovrebbe – quantomeno ai fatti raccontati - visto che non esistono programmi del giovedì sera, giornali, telegiornali o “programmi d’approfondimento” che lo abbiano ospitato in questi mesi. Perché le inchieste vere, quelle che si occupano dei veri problemi e del marcio vero che pervade ogni singolo millimetro quadrato di questa terra è bene tenerle a tacere, metterle all’angolo. Non sia mai che la gente si accorga che quel che gli viene propinato in tali programmi è solo materiale utile al mantenimento del sistema.
Questo lavoro di indagine, però, se è schifato dalla televisione e dagli organi di informazione mainstream, è giudicato decisamente interessante da chi sta tentando – anzi, sta attentando – alla vita dello stesso Lannes, della sua famiglia e dei collaboratori di “Italia Terra Nostra”, il giornale on-line di cui è direttore e sul quale può pubblicare inchieste che gli altri organi informativi non hanno il coraggio di pubblicare (si pensi a quella che smaschera le vere intenzioni del Berlusconi de noantri, alias Nichi Vendola).
La domanda da porsi a questo punto – considerando ovvia la risposta del perché – è chi. La mafia? Gli ‘ndranghetisti? La criminalità organizzata in genere che, come spesso ci viene raccontato, non vuole ficcanaso nei propri affari? Se vivessimo nel mondo delle fiction la risposta sarebbe sì. Ma in questo paese, dove la mafia delle lupare è diventata ormai il volto mediatico della criminalità (tant’è vero che vengono arrestati sempre presunti “capi” della mafia e della camorra – quasi mai della ‘ndrangheta – ma mai i banchieri che finanziano le famiglie o i politici che seggono in Parlamento o nei consigli regionali/provinciali/comunali che ne sono diretta espressione…) c’è un’altra mafia, ben nascosta tra i “notabili”, le persone di spicco e quelle che – con stipendi milionari – stanno comodamente a sedere nei c.d.a. al fine di tutelare interessi molto più in alto di quello che viene quotidianamente scritto sui giornali. E poi c’è sempre quella peculiarità italiana, quella dei “servizi segreti deviati” che – con o senza devianza – in questa storia di navi e scorie affondate ci sono dentro fino alla gola.
C’è una cosa che non riuscirò mai a capire di questo paese: perché si osannino personaggi che, per quanto possano fare bene il proprio mestiere, o non vanno al di là del limite di pericolo oppure vivono sugli allori per uno “scoop” o un libro andato particolarmente bene. Se qualcuno si stesse chiedendo se mi sto riferendo al già citato Michele Santoro e a Roberto Saviano (dando dunque, in parte, ragione ad Emilio Fede…) la risposta è sì. Mi sto riferendo esattamente a loro.
Chi mi conosce sa cosa penso a proposito di Gomorra, e credo di averlo scritto anche da qualche parte nel blog. Un buon libro, ottimo probabilmente per chi non ha la più pallida idea di cosa sia la camorra. Ma per noi gente del Sud? Per noi che la camorra, la mafia, la ‘ndrangheta, la sacra corona unita, la stidda e tutto il profluvio di picciotti e uomini d’onore lo vediamo o l’abbiamo visto passare tutti i giorni sotto casa, noi che quel tipo di criminalità la conosciamo fin nei minimi particolari? Per noi è stato davvero un libro così sconvolgente? Io ho iniziato a studiare i fenomeni mafiosi già in tenera età, folgorato da una pagina del libro di storia su cui era riportata l’effigie di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino e per la quale nessuno dei “grandi” voleva dirmi perché erano morti, considerando che a 7-8 anni se ti dicono “mafia” non hai la cognizione di sapere a cosa si stiano riferendo, e posso dirvi che a me non ha né scandalizzato né creato una coscienza in merito alla questione maggiore di quella che già avevo prima di approcciare questo libro. E poi penso ai tanti che scrivono quotidianamente di criminalità organizzata senza poter disporre di una scorta perché “dottò, qua non ci stanno manco i soldi per le fotocopie come volete che vi assegno la scorta” o quelli che non possono scrivere articoli su Repubblica dicendo quanto rimpiangono la vita che facevano prima. Io ribadirò sempre un concetto: se vuoi occuparti di fenomeni mafiosi – a qualsiasi livello ed in qualsiasi modo – devi anche essere ben cosciente che non puoi, un bel giorno mettere un punto a quello che stai facendo e tornare alla tua vita precedente, quando magari i giornali nemmeno li leggevi. Perché ci sono delle strade che una volta imboccate non possono essere percorse nel senso opposto. Non ti è permesso. So che molti, mentre leggeranno queste righe, staranno dicendo che sono uno dei tanti “denigratori”. Ma trovatemi una risposta plausibile alla domanda sul perché Saviano sì e giornalisti come Lirio Abbate o come i tanti che stanno nelle redazioni dei giornali locali di cui mai conosceremo i nomi no. Perché io, esclusa la risposta: “Perché certi salotti hanno adottato lo scrittore napoletano” non sono riuscito a trovarla.
Perché non credo che persone come Peppino Impastato, Pippo Fava, Cosimo Cristina, Mauro De Mauro abbiano mai scritto nei loro articoli o nei loro libri che gli mancava “una passeggiata al chiaro di luna” o “un gelato in riva al mare”. Loro sapevano che queste cose le avrebbero ottenute solo quando in questo paese sarebbe tornato quel fresco profumo di libertà di cui spesso parlava il giudice Paolo Borsellino.
Ed a proposito di giudici anti-mafia, allorquando – durante un’intervista – a Giovanni Falcone venne posta la domanda sul cosa continuasse a spingerlo ad occuparsi di quelle tematiche, con la più naturale delle espressioni rispose con tre semplici parole: “spirito di servizio”.
Ecco: forse se queste “stelle mediatiche” ritrovassero un po’ di questo spirito – posto che ne abbiano almeno un po’ – forse l’Italia si sveglierebbe e si renderebbe conto che le vere inchieste, quelle capaci davvero di cambiare il corso di Mafiopoli – per citare Peppino Impastato – sono quelle che non stanno sotto i riflettori. Perché a chi sta sotto i riflettori, di spostarsi (e dunque di cambiare le cose) poco gliene cale. Perché quei giornalisti che davvero compiono la loro missione, che davvero fanno i conti con le inchieste “pesanti” devono trovare il modo di scampare all’ennesimo attentato tutti i giorni. Altro che passeggiate al chiaro di luna…

p.s...nei documenti trovate, tra gli altri, alcuni articoli - ripresi da ItaliaTerraNostra - sul lavoro che, nel silenzio più totale, stanno svolgendo Lannes ed i collaboratori di questo giornale on-line. Poi fatemi sapere quanto di questo materiale compare sui quotidiani o nei programmi di "approfondimento"...

Documenti:

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