A cambiare il mondo, con il telecomando

C'è una frase di Gandhi, probabilmente la più famosa, che dice: «Sii il cambiamento che vuoi vedere avvenire nel mondo». Una delle più famose e, ancor più probabilmente, una delle più difficili da perseguire.
Il libro che ho appena finito di leggere, questione di pochi secondi prima di iniziare a scrivere questa “recensione” (ho sempre delle remore a definire tali le mie, che solitamente sono solo delle riflessioni...) ad un libro al quale mi ero ripromesso di trovare quante più critiche potessi, così come ogni buon recensore fa, in particolare se è quello il compito che gli viene richiesto. Ma ne ho trovate davvero pochissime, forse perché questo libro mi è – in alcuni punti – piaciuto ancor di più del video che lo ha anticipato più o meno un anno fa.

Il libro è “Il Corpo delle Donne” di Lorella Zanardo, che viene ad integrare – ma non solo – il lavoro fatto con il video, ed il relativo blog, che il 4 maggio 2009 Gad Lerner presentava dagli studi de “L'Infedele”. Dico integrare perché questo libro, naturalmente, spiega anche il lungo e faticoso lavoro che c'è stato dietro al video, ma se si limitasse a questo probabilmente non sarebbe un libro poi così interessante. Invece si va oltre, molto oltre.
Innanzitutto perché quel documentario è stato necessario per aprire un dibattito che – nonostante sia sparito dall'agenda principale dei mezzi di informazione, cosa che non è detto sia da considerare negativa – è ancora vivo ed attualissimo: il ruolo della donna in televisione e, naturalmente, il ruolo della donna all'interno della società occidentale, in particolare nella sua declinazione italiana. Un dibattito di cui chi, come me, crede che per migliorare questo mondo ci sia bisogno che a governarlo siano le donne – non certo tramite le quote rosa – sentiva la necessità anche per tentare di ritrovare la rotta giusta verso quell'altro mondo possibile che da Porto Alegre è diventato la meta (utopistica?) per molti di noi.

Ecco: una delle cose che mi piace di più di questo libro è che non è un libro di risposte. Non è un libro da leggere per chi cerca “la” ricetta di una televisione in cui veline, letterine, schedine etc siano solo un lontano ricordo. Ne “I dilemmi della speranza”, Nichi Vendola usa una frase che a me piace molto, e che in qualche modo cerco sempre più di far mia: «Ovviamente non sono la persona deputata alle risposte. Posso solo allargare l'ambito delle domande», ed il libro di Lorella Zanardo va proprio in questo senso: non cercare per forza le risposte, ma allargare le domande.
Allargarle in particolare allargando l'obiettivo, non limitandosi solo al mondo televisivo – come naturalmente era necessario fare per il documentario – ma ponendo domande sia, ovviamente, sulla televisione e sul suo ruolo (pseudo)educativo, ma anche – ed è questo che per me ne fa un gran bel libro – cercando di immaginare quale ruolo possa avere la donna diverso da quella che ci propina la televisione.

Il libro, forse più del documentario, è un libro che non ha paura di accusare. Non le persone che, come direbbe Goffman, sono le “maschere” di quello che è un vero e proprio sistema di pensiero.  Un sistema di pensiero, come quello che ha spinto sempre più donne a ragionare “da maschi”, sia nel proporsi “come (presunto) desiderio maschile”, sia nel diventare per certi versi “squali” nel mondo del lavoro.

«È come violentare il proprio pensiero costringendolo a vivere in un “mondo” non suo. È come i piedi delle bambine cinesi, compressi in strettissime fasciature che ne impedivano la crescita naturale: quelle bambine, diventate donne, riuscivano comunque a camminare su quei piedini deformati, troppo piccoli per sostenerle agevolmente, ma sarebbero state scomode e a disagio per tutta la vita. A quante corse avrebbero rinunciato? Quanti luoghi sconosciuti non avrebbero visitato? Quanti sentieri avventurosi non avrebbero percorso' tutte esperienze rese impossibili da piedi atrofizzati. Alcune di noi, guidate da ottime maestre, stanno faticosamente cercando di uscire dalle “scarpe” del pensiero dominante. Su piedi-pensieri impacciati dal non utilizzo, provano ad avventurarsi incontro al mondo espressivo con un nuovo approccio: partire da noi, dal nostro vissuto e dalle nostre esperienze per capire il mondo e offrire questa comprensione a donne e a uomini. Chiedendo a questi ultimi che, per una volta, si affidino a noi e al nostro modo».

È un'accusa al sistema maschilista – che non vuol dire solo maschile - di leggere il mondo, ma è anche un'accusa a chi spegne la televisione come atto rivoluzionario, per dire no a quel che i palinsesti propongono. Ma basta, semplicemente, premere il tasto “off” per considerare risolto il problema?

«Tutte le volte che inizia il dibattito, la mia preoccupazione principale NON è rispondere alle domande sulle motivazioni che spingono le veline a fare le veline, le escort a prostituirsi per ottenere denaro e favori, Cristina a comprarsi due seni di plastica sesta misura, la Gregoraci a farsi dare il microfono in testa da Mammucari.(…)A me preme capire perché c'è una tv che dà spazio a soggetti non interessanti, che offrono un'immagine degradante delle donne. A me preme capire perché c'è un sistema di politico che sceglie le candidate in base alla taglia e non alla competenza».

Il problema su cui probabilmente più sul libro ci si concentra, dunque, non è tanto di chi fa cosa. Non è della ragazza uscita dal Grande Fratello che fa parlare di sé per essersi rimodellata il corpo, o la signora di una certa età che “per combattere il corso del tempo” ricorrono alla chirurgia estetica eliminando la propria personalità da sé – vi rimando al libro per questo ambito, in quanto magistralmente definito – perché devono essere ancora “appetibili” per una società in cui tutto è governato dalle logiche di mercato, anche il proprio stare nella società, la propria socialità nel quotidiano.
Il problema è educativo, principalmente. È educativo perché quando – come sappiamo – l'80 per cento della popolazione si fa educare dalla televisione il primo problema è di individuare quali modelli questo strumento offre, e modificare quelli che influenzano negativamente bambini e ragazzi, cioè coloro che – per definizione – non hanno ancora gli strumenti per schermirsi dai danni dello schermo televisivo. Servono, come il titolo del capitolo 2 del libro (ed il corso di formazione presente sul blog) ci suggerisce, nuovi occhi per la tv.
Serve un modo diverso di stare davanti alla televisione, un modo più critico e consapevole. Ma per far questo c'è bisogno di una serie di passaggi come la possibilità di avere alternative, educative e non, da offrire che ci portino ad una televisione, e dunque ad una società, diversa e migliore.

Abbiamo detto che il libro, forse più e meglio che il documentario, è un'accusa al sistema. Ma è anche una chiamata “alle armi”, che innanzitutto preveda la “depassivizzazione”, cioè il non porsi verso la rappresentazione mercificata del corpo delle donne (ma anche nel porsi in maniera attiva verso i problemi di genere in toto) come semplici spettatori. Bisogna attivarsi, in prima persona, iniziando dalla destrutturazione degli stereotipi che ognuno di noi può fare. Non servono abilità o competenze particolari: basta semplicemente avere voglia di farlo.

«Mettersi alla ricerca della propria verità. Accettare di non sapere; avendo fiducia che nuove consapevolezze emergeranno durante il viaggio, senza preoccuparsi di sapere tutto e convincendoci che i dubbi possono essere utili».
Solo così, solo abbattendo gli stereotipi, possiamo tentare di migliorare la società nella quale ci è toccato di abitare. Anche partendo dalla televisione. Quella stessa televisione che molti di noi hanno spento e che, probabilmente, sarà il caso di riaccendere.