Da che parte sta Dio?

Quando mi si sente parlare di tematiche religiose, io che mi professo convintamente ateo ed ancor più convintamente anticlericale, molta gente si stupisce. Si stupisce del fatto che io, che credo solo negli uomini e non in eventuali “entità terze ed immateriali” sia curioso ugualmente di sapere, di conoscere. Ed è forse proprio seguendo questa curiosità che mi affascina molto quella “corrente” - parola molto di moda in questi giorni – della professione della Fede che prende il nome di Teologia della Liberazione [ne ho parlato qui: http://senorbabylon.blogspot.com/2010/04/portando-la-crocee-che-guevara.html]

Piccolo riassunto delle puntate precedenti: la c.d. Teologia della Liberazione è un diverso modo di vivere la vita ecclesiastica che alcuni appartenenti alla Chiesa – in particolare in America Latina – hanno scelto di osservare. È un tipo di operato che si discosta moltissimo dall'operato “classico” della Chiesa, quello cioè fatto di chiese ed abiti pieni d'oro e tutto ciò che è ostentazione di un Potere che di “sacro” non ha assolutamente niente.

La caratteristica principale della TdL, infatti, è quella di essere in qualche modo una concezione “sociale” della religione, in cui il ministro della Fede non è – come capita molto spesso in Europa – una persona avulsa dalla comunità nella quale è chiamato ad operare ma, anzi, coloro che osservano questo tipo di “corrente” religiosa (so che il termine non è esatto, ma non sono un grande esperto di linguaggio ecclesiale...) sono fortemente radicati alla comunità in cui lavorano. La stessa TdL trova il suo principale fondamento nel radicamento storico-sociale nelle comunità (vi rimando comunque all'altro articolo, dove ho analizzato in maniera più approfondita la questione).

È quindi in base a questa attrazione – termine che in questo periodo non è esattamente il migliore da accostare a questioni ecclesiastiche, lo so – che mi ha colpito molto la storia di padre Carlo, il “prete clandestino” di cui si occupa l'ultimo numero del settimanale Carta a firma Sarah Di Nella.
Perché ciò che fa padre Carlo è esattamente quello che la Teologia della Liberazione professa. Ma procediamo per gradi.

Siamo a Siracusa, quartiere di Bosco Minniti, uno dei tanti quartieri “difficili” del nostro paese, dove da oltre 20 anni padre Carlo si occupa della parrocchia di Santa Maria Madre Chiesa, che più che una chiesa sembra un porto di mare. Dal 1988, infatti, dalle 15.000 alle 18.000 persone sono transitate da quelle parti.
Ed a tutti padre Carlo ha dato ospitalità. Sì, perché ognuna di quelle persone che si ritrova dietro a quelle due cifre è un migrante, una di quelle persone nate in posti creati dai paesi ricchi per legittimare la ricchezza, l'opulenza e – in molti casi – l'ignoranza del mondo Occidentale e che, per colpa di una concezione dicotomica della civiltà – quella che definisce un “noi” bello, buono, giusto e portatore di valori buoni antitetico ad un “loro” fatto di barbari senza legge e dalla cultura alquanto approssimativa – ci porta ad avere paura del nostro prossimo solo perché ha il colore della pelle diverso dal nostro, parla con un accento “straniero” e così via, come la cronaca mainstream di questi giorni ci ha più volte annunciato nelle “brevi”.

«La chiesa è un portone aperto sulla strada, e chi passa ha il diritto di entrare. Sennò serve gli idoli, non le persone» è una delle massime che padre Carlo ripete spesso, lui che – a 56 anni – sembra essere l'antitesi della figura ecclesiastica che campeggia sulle prime pagine dei giornali in queste settimane. Non tanto perché i suoi abiti talari sono un maglione e pantaloni di velluto, neanche il fatto che fumi (di nascosto) o che lo si possa sentire camminare fischiettando l'Internazionale e tanto meno il fatto che casa sua – dove ospita i migranti – sia una babilonia di lingue, odori e sapori tra disegni africani e preghiere affisse ai muri in tutte le lingue del mondo, quel mondo che qualcuno si ostina a definire di “serie B”. No, non è per questo.

«A me non interessa chi sia Dio. Mi interessa da che parte sta». Una concezione abbastanza rivoluzionaria della spiritualità, e per questo malvista da tanti (fedeli ed alte sfere). È proprio per questa concezione, per quella concezione che don Tonino Bello definiva “Chiesa del grembiule” che a padre Carlo tra il 9 febbraio ed il 17 marzo di quest'anno sono stati dati gli arresti domiciliari. Perché il suo operato non è gradito, in quanto pone l'accento sul potere evangelico propriamente detto, e perché ospita “quelli”, quelli che vengono a toglierci lavori che non vogliamo più fare ma che rivendichiamo con finto onore; quelli che vengono a minare le fondamenta culturali di una nazione che – dopo 150 anni dalla sua unità – è forse ancor più divisa di quanto non lo fosse nel 1861; di quelli che accusiamo di stuprare le “nostre” donne – come se ci fosse un qualche diritto di proprietà sugli esseri umani – quando le violenze di genere sono compiute per lo più tra le mura di casa e tra consanguinei; quelli...e potrei continuare più o meno all'infinito.

Associazione finalizzata al favoreggiamento della permanenza degli stranieri nel territorio e delitti di falso, al fine di fare ottenere a cittadini extracomunitari permessi di soggiorno per asilo politico e lo status di rifugiato: è questa la dicitura esatta del reato di cui è accusato padre Carlo. Tradotto dal burocratese il suo reato è quello di offrire ospitalità a chi ne ha bisogno, come qualunque “buon cristiano” dovrebbe fare – anche se sappiamo bene che coloro che la domenica si battono il petto al grido di “mea culpa, mea culpa, mea maxima culpa” spesso sono i primi a non osservare i precetti del Vangelo – e che al Potere politico ed a quello ecclesiale rimangono indigesti, nonostante persino il Dipartimento per le libertà civili e l'immigrazione del Ministero degli Interni abbia più volte ribadito che è lecito fornire un indirizzo a chi percorre la rotta del lavoro stagionale tutto l'anno.

«Continuo a ricevere da parte dell'Ufficio stranieri della questura di Siracusa, nella persona del dirigente dottore Calafiore, comunicazioni che si configurano come un atteggiamento vessatorio e persecutorio nei confronti delle persone di provenienza extracomunitaria che nella parrocchia (…) trovano un punto di riferimento per essere accolte ed accompagnate dal punto di vista civico, morale, sanitario, giuridico e legale» scrive padre Carlo in un esposto alla questura di Siracusa del 8 febbraio. 
È normale, comunque, che in un paese dove le cose girano al contrario come il nostro, chi si prodiga a fare del bene venga tacciato di essere un malfattore. Lo abbiamo visto nei giorni scorsi con la questione – fortunatamente risoltasi per il meglio – dei tre cooperanti di Emergency arrestati in terra afghana, verso i quali nelle prime ore tutto l'arco parlamentare di centrodestra si prodigava per ribadire come “magari qualcuno che fa il doppio gioco collabora con noi senza che ce ne accorgiamo”. È il Potere: il Potere che per autenticarsi ha bisogno di definire un “diverso” che sia nemico. Che si chiami “talebano”, “clandestino” o come verrà etichettato il prossimo. Magari saranno proprio i “cristiani” i prossimi da mettere all'indice. Perché – come dice Ernesto Balducci, prete e docente universitario di storia e filosofia – il termine è stato inventato dai militari romani e dai burocrati dell'Impero nella metà del primo secolo, quando questi avevano bisogno di identificare individui e gruppi poco obbedienti. Un'invenzione del Potere per questioni di ordine pubblico. Non so a voi, ma a me sembra un refrain già sentito.

Costruire un posto dove «sia possibile costruire una città bella usando pietre di scarto», come avrebbe detto don Tonino. È questo il progetto che ha in mente padre Carlo: costruire un laboratorio che metta in rete istituzioni, chiesa, sindacati e lavoratori agricoli (che vorrebbe chiamare Solare: Solidarietà Lavoro Rete), nel quale creare cooperative di lavoratori migranti e stimoli culturali là dove non ci sono.
Perché il vero problema di una società in regressione come la nostra è proprio questa: non avere stimoli, in particolare per i giovani. Una società ormai abituata a fare  professione di noia.