Qualcuno era terrorista

Teheran (Repubblica Islamica dell'Iran) - In questi giorni, tra le (tante) altre cose, ho ripreso in mano un po' di materiale di e su Tiziano Terzani, la cui rilettura non fa mai male. C'è un passaggio di “Lettera da Firenze”, l'articolo che scrisse l'8 ottobre del 2001 per il Corriere della Sera come lettera ad Oriana Fallaci al fine di rispondere alla di lei invettiva anti-islamica post-11/09:

«I gerarchi nazisti furono portati dinanzi al Tribunale di Norimberga; quelli giapponesi responsabili di tutte le atrocità commesse in Asia, furono portati dinanzi al Tribunale i Tokyo prima di essere, gli uni e gli altri, dovutamente impiccati. Le prove contro ognuno di loro erano schiaccianti. Ma quelle contro Osama Bin Laden?»

«Noi abbiamo tutte le prove contro Warren Anderson, presidente della Union Carbide, aspettiamo che ce lo estradiate» [per chi non ricorda cos'è la U.C. ne ho parlato qui: http://senorbabylon.blogspot.com/2010/01/terroristi-sulla-rotta-bhopal-porto.html].

Quest'ultima frase è della giornalista ed attivista anti-globalizzazione Arundhati Roy. Ma la questione non cambia di molto. Anzi.

Come più o meno dovreste sapere tutti – per lo meno tutti quelli che non si sono appassionati ai funerali di Vianello o all'ennesima lite Berlusconi-Fini – nei giorni scorsi sono stati firmati gli accordi Start2, nei quali Usa e Russia promettono di ridurre le testate nucleari. Per adesso però, visto che gli accordi sembrano essere stati firmati a decorrere dal 2018, anche gli Start2 vanno ad aggiungersi alle cartacce presenti nell'ormai affollatissimo cassetto delle “promesse propagandistiche”. Quel che però mi ha colpito di più in questa faccenda sono state le dichiarazioni del Presidente Usa Barack Obama, che ci ha tenuto a ribadire per l'ennesima volta che «gruppi terroristici come Al Qaeda hanno tentato di acquistare materiali nucleari per adoperarli in maniera devastante, questa minaccia è una delle più gravi per la nostra sicurezza collettiva».
La prima domanda che mi è venuta in mente riguarda proprio il c.d. “network terroristico” di Osama Bin Laden, il cui fantasma – vero o presunto – è buono per tutte le stagioni, in particolare quelle nelle quali bisogna trovare un “nemico pubblico numero uno” per coprire le proprie nefandezze: perché bisognerebbe aver paura delle eventuali testate atomiche in mano a Bin Laden e soci? Voglio dire: le testate nucleari ci sono a tutt'oggi in giro, perché quelle (eventuali) di Al Qaeda dovrebbero fare più paura di quelle
che, ad esempio, hanno paesi come Israele, l'India o gli stessi Stati Uniti? Forse perché Israele – a cui Henry Kissinger, non proprio l'ultimo arrivato, assegnò qualche anno fa circa 100-150 testate già funzionanti – è considerato paese amico e dunque il nucleare israeliano è un nucleare “bello, buono, giusto e democratico”?
Non so voi, ma se io se mi trovassi di fronte ad una testata nucleare con l'effigie di Bin Laden ed una con la Stella di David disegnata sopra, francamente, non saprei riconoscerne i motivi per cui una deve essere una terrorista e l'altra no, ma forse è perché io di testate nucleari non ci capisco granché.
In questo modo di vedere le cose, in questa ideologia “talebana” di definire chi sono i buoni e chi i cattivi - per citare nuovamente l'articolo di Terzani –  probabilmente è quello che sta alla base del “problema” del nucleare iraniano, per il quale lo stesso Segretario alla Difesa Usa Robert Gates ha parlato di incapacità.
Da qui la seconda domanda: se – come gli stessi americani dicono – la “minaccia iraniana” tanto minaccia non è, di cosa stiamo parlando?

In realtà più che di una minaccia nucleare che avvertono gli Stati Uniti stiamo parlando di una minaccia politica (anzi, geo-politica) e culturale, perché la vera minaccia agli Stati Uniti non riguarda attacchi fisici al territorio, ma attacchi culturali alla sua egemonia.

Ma sospendiamo il discorso ed immergiamoci nella più stretta attualità.
Tra oggi e domani a Teheran si tiene la “Conferenza sul disarmo e la non proliferazione”, come risposta all'identica iniziativa tenutasi a Washington il 12 e 13 aprile scorsi. Alla conferenza dovrebbero partecipare Venezuela e Cuba – cioè i partner storici della Repubblica iraniana – India, Cina, Brasile più un'altra settantina di nazioni nonché i rappresentanti di otto organizzazioni internazionali. Le intenzioni di tale conferenza sono molteplici: se da una parte, stando alle parole del Ministro degli Esteri iraniano Manouchehr Mottaki, c'è l'intenzione di produrre una serie di documenti che attestino il diritto di ogni nazione all'energia nucleare mettendo al contempo Israele sul principale banco degli imputati, dall'altro lato c'è un'intenzione forse ancora più importante, cioè quella di misurare le forze di una sorta di “fronte antimperialista” che spezzi l'egemonia dell'Impero americano, in cui l'Iran vorrebbe giocare il ruolo di leader. Ruolo che, per adesso – visto il sistema geopolitico come lo conosciamo adesso – gioca però la Cina, che ha accolto favorevolmente l'invito iraniano a partecipare alla conferenza e che, nel caso di eventuali decisioni favorevoli ad una sanzione all'Iran da parte dell'Onu, vi si opporrebbe tramite il suo diritto di veto, cosa che farebbe saltare il banco e che per questo manda su tutte le furie Washington. È proprio in quest'ottica che devono dunque interpretarsi i nuovi contatti Obama-Hu Jintao dove, tramontata ormai (definitivamente?) l'epoca – comunque brevissima – del G2, gli americani stanno cercando di comprare il silenzio cinese sulla fantomatica pericolosità del nucleare iraniano (comunque tutta da confermare) tramite la vendita di tecnologie da usare sia in campo civile che militare sia nell'ammorbidimento sulla questione del cambio yuan-dollaro. Ma non crediate che la posizione “filo-iraniana” - definizione che va naturalmente presa con le molle – sia da attribuirsi ad una qualche forma di antimperialismo cinese. In realtà tale posizione è suffragata dal fatto che l'11% del fabbisogno energetico cinese è
colmato proprio dalla Repubblica Islamica, per cui avallarne le eventuali sanzioni sarebbe come tirarsi la zappa sui piedi.

Quel che Washington ed i paesi alleati (o asserviti, dipende dai punti di vista) stanno cercando di fare con l'Iran non è altro che un revival di quel che nel 1953 fecero con la c.d. “Operazione Ajax” e la deposizione del Primo Ministro Mohammad Mossadeq: eliminare – fisicamente o solo politicamente – un leader inviso agli americani (Mossadeq ieri, Mahmud Ahmadinejad oggi) per sostituirlo con un governante-fantoccio utile solo agli interessi americani. È d'altronde la solita politica che l'America porta avanti ormai dagli anni '50 e che ha avuto il suo periodo di massimo splendore un ventennio dopo, quando agenti americani fecero cadere gli aerei del Presidente di Panama Omar Torrjios e di quello dell'Ecuador Jaime Roldós nonché dell'italiano Enrico Mattei – sulle cui responsabilità, dopo oltre mezzo secolo, ancora siamo alle supposizioni - descritta da John Perkins nel suo “Confessioni di un killer dell'economia”.
Paesi e leader “amici” sono gli unici modi con cui la politica statunitense può continuare a giocare il suo ruolo di egemone indiscusso nello scacchiere geopolitico mondiale, perché solo tenendo al guinzaglio gli amici (e considerando “canaglie” tutti coloro che non accettano tale egemonia) può permettersi un potere tanto imponente quanto flebile.
Anche questo modo di fare, quello di definire “buoni” gli amici degli americani e “cattivi” tutti gli altri, è ormai una consuetudine atavica degli Stati Uniti: prima c'erano i comunisti, poi vennero Cuba ed i khmer rossi di Pol Pot, gli iracheni di Saddam Hussein e vari “dittatori” di staterelli in giro per il globo; oggi sono Al Qaeda e l'Iran di Ahmadinejad i “terroristi”. E domani? Chi sarà etichettato come “terrorista” in un prossimo futuro?
Perché la politica egemonica degli Stati Uniti, oltre che sulla ridefinizione degli standard politici, sociali e valoriali occidentali si basa anche su di un altro – fondamentale – aspetto: la definizione di un nemico. Che sia un Paese straniero, un network terroristico o qualunque altra cosa vi venga in mente, agli States il “nemico” serve più dell'”alleato”. Altrimenti in molti si renderebbero conto che il gioco – cioè questa specie di ricostituzione dei due blocchi, dove al blocco sovietico si sta tentando di sostituire il blocco orientale – non vale la candela, naturalmente in questo remake non deve essere commesso lo stesso errore fatto precedentemente: attendere la formazione di un blocco altrettanto forte ed egemone come fu quello sovietico fino al 1989. È per questo che tutti i leader dei paesi contrari all'egemonia americana sono etichettati come “non democratici” e, dunque, da combattere. Ma come si può considerare valido lo standard di democraticità di uno stato che, anche in questo caso da ormai mezzo secolo (1962) tiene in scacco la vita di circa 11 milioni di persone? Prima di “El bloqueo”, Cuba e gli States erano in pratica una cosa sola: il 74% delle esportazioni ed il 65% delle importazioni cubane viaggiavano da e verso le coste statunitensi. Poi arrivarono Fidel Castro ed Ernesto Che Guevara, ed ogni bambino – per la prima volta – poté festeggiare il Natale con un giocattolo, cosa che prima toccava solo ad una parte (e non c'è bisogno di dire quale).  

«L'immagine del terrorista che ora ci viene additata come quella del “nemico” da abbattere è il miliardario saudita che, da una tana nelle montagne dell'Afghanistan, ordina l'attacco alle Torri Gemelle; è l'ingegnere-pilota, islamista fanatico, che in nome di Allah uccide se stesso e migliaia di innocenti; è il ragazzo palestinese che con una borsetta imbottita di dinamite si fa esplodere in mezzo ad una folla. Dobbiamo però accettare che per altri il “terrorista” possa essere l'uomo d'affari che arriva in un paese povero del Terzo Mondo con nella borsetta non una bomba, ma i piani per la costruzione di una fabbrica chimica che, a causa di rischi di esplosione ed inquinamento, non potrebbe mai essere costruita in un paese ricco del Primo Mondo. E la centrale nucleare che fa ammalare di cancro la gente che ci vive vicino? E la diga che disloca decine di migliaia di famiglie? O semplicemente la costruzione di tante piccole industrie che cementificano risaie secolari, trasformando migliaia di contadini in operai per produrre scarpe da ginnastica o radioline, fino al giorno in cui è più conveniente portare quelle lavorazioni altrove e le fabbriche chiudono, gli operai restano senza lavoro e non essendoci più i campi per far crescere il riso, muoiono di fame? Questo non è relativismo. Voglio solo dire che il terrorismo, come modo di usare la violenza, può esprimersi in varie forme, a volte anche economiche, e che sarà difficile arrivare ad una definizione comune del nemico da debellare» dice ancora Terzani nel già citato articolo.
È esattamente questo il punto: non tanto quello di dover “definire un nemico comune da debellare”, quanto definire in base a quali valori definire cosa è giusto e cosa è sbagliato, cosa è buono e cosa è cattivo. Noi occidentali, noi che ci definiamo i “fondatori della civiltà civile e civilizzata”, abbiamo col tempo accettato questa sorta di complesso di superiorità per il quale i “nostri” valori sono i Valori, quelli che per forza devono essere accettati da tutti, e dunque anche esportati a chi non li ha. Questo non vuol dire giustificare o “tifare” per i cattivi, tanto meno giustificarli. Vuole semplicemente dire tentare di capire se, in tutto quello che ci viene presentato come “il Male” (naturalmente classificandolo in base ai valori occidentali) ci sia qualcosa di buono, perché come c'è qualcosa di fortemente negativo in quello che i nostri organi di informazione e la nostra cultura hanno etichettato come “il Bene” (guerre per l'esportazione della pace e della democrazia, finanza criminale et alia) ci deve per forza essere qualcosa di bene nel “Male”. È come il simbolo cinese dello Yin&Yang, dove in ambedue le parti c'è il seme del proprio opposto (il punto bianco nella parte nera ed il punto nero nella parte bianca), dove nessuna delle due parti può essere totalmente Yin o totalmente Yang. Così è per il “Bene” ed il “Male”. Magari per trovare questi semi c'è bisogno di guardare bene, di scavare a fondo e destrutturare tutto l'insieme cultural-propagandistico in cui siamo cresciuti. D'altronde anche uomini della nostra cultura “buona”, un giorno, si presentarono davanti alle telecamere sostenendo che Saddam Hussein possedesse le armi di distruzione di massa.