In questi tempi di guerra non deve essere un crimine parlare di pace

Lashkar Gah (provincia di Helmand, Afghanistan) - Siamo al quarto giorno di detenzione dei prigionieri politici Marco Garatti, Matteo Dell'Aira e Matteo Pagani, i tre operatori di Emergency rapiti - perché di rapimento si tratta - sabato 10 da forze afghane e britanniche dell'Isaf (International Security Assistance Force) di cui ancora nessuno è riuscito ad avere notizie certe fino ad ora.

L'unica cosa certa, per adesso, è il modo alquanto clownesco con il quale tutta la faccenda sembra essere stata gestita sia in loco, dove il governo ha prontamente smentito una fantomatica "confessione" dei tre a poche ore dal sequestro, sia da parte di tre dei principali esponenti del nostro Governo, la cui ormai consueta propaganda anti-Emergency risulta ancora una volta inutile e stucchevole e non fa altro che evidenziare, come se ce ne fosse ulteriore bisogno, l'inadeguatezza della nostra classe politica.

Prima di cominciare con il post però, devo rettificare quel che ho scritto nel precedente articolo ("Prigionieri politici"): i fermati totali sono nove, di cui solo uno risulta non essere italiano: oltre ai tre ancora in stato di fermo, infatti, ci sono un logista, un anestesista e tre infermiere italiane ed un fisioterapista indiano, tutti trasferiti quasi subito a Kabul dove - nonostante la propaganda guerrafondaia dica altro - con il ritiro dei loro passaporti risultano, in qualche modo, prigionieri anche loro.

Ma il punto principale, che a mio modo di vedere cambia un po' le cose, è un altro: come più volte ha ribadito Gino Strada in queste ore, per quella che gli stessi militari delle forze di invasione definiscono la più grande offensiva nella zona dell'ultimo decennio non c'è personale che possa testimoniarlo. Cioè non ci sono giornalisti, neanche i c.d. "embedded", cioè quelle persone che - con una penna in mano - vengono ingaggiate dagli eserciti per raccontare quanto sono forti e come esportano la pace casa per casa, aggirandosi in posti di cui non conoscono la lingua, entrando nelle abitazioni a suon di bombe e, se c'è tempo, stuprando o ferendone gli abitanti. Quel che è strano è proprio il fatto che, nel momento in cui viene annunciata una delle operazioni in cui maggiore dovrà essere il risalto dell'onore delle proprie truppe, non c'è nessuno, a parte i militari ed i civili naturalmente, che ne fissi gli accadimenti per il futuro. Che si nasconda una motivazione "politica" dietro la decisione di tacere il 100% dell'operazione?

A dircelo potrebbe
essere Jerome Starkey, il giornalista del Times inviato in Afghanistan che per primo ha lanciato la notizia, poi smentita, della confessione dei tre operatori di Emergency. Già, perché anche Jerome ha avuto un piccolo "incidente diplomatico" (se così vogliamo chiamarlo) con i militari britannici.

Come riporta il sito PeaceReporter, Starkey mette il bastone tra le ruote alle forze alleate per la prima volta nello scorso dicembre, denunciando una delle tante ed ormai note operazioni dei militari in cui sono stati giustiziati otto ragazzini innocenti, spacciati per “membri di una cellula terroristica che fabbricava esplosivi artigianali”. Certo, se dei soldati scambiano delle macchine fotografiche per degli Ak-47, come nell'ormai famoso video pubblicato dal sito Wikileaks nelle settimane scorse, il dubbio che quel che dicono le fonti ufficiali dell'esercito internazionale di invasione sia spesso frutto della propria fantasia – meglio nota come propaganda – è più che legittimo, ed avvalorato dal fatto che pochi giorni dopo la pubblicazione dell'articolo, gli stessi corpi d'assalto sono stati costretti ad ammettere che effettivamente era stato commesso un errore. Le inchieste condotte dalle autorità locali, infatti, dimostrarono come i “pericolosi terroristi” altro non fossero che Abdul Khaliq, il padrone della casa in cui i militari erano entrati sparando a sangue freddo e otto ragazzi tra i 12 ed i 17 anni mai coinvolti in alcuna attività di tipo insurrezionale. Ma non finisce qui.
Il 13 marzo, infatti, il Times esce con un'altra inchiesta – o forse sarebbe meglio dire un'altra contro-inchiesta – di Starkey, il quale accusa la Nato di aver insabbiato un'altra strage di civili innocenti. Questa volta era andata così: durante una ricognizione notturna tenutasi nel mese di febbraio, un commando Isaf era stato attaccato da diversi insorti, uccisi poi durante uno scontro a fuoco dopo il quale erano stati scoperti i corpi di tre donne vittime di un delitto d'onore. La contro-inchiesta di Starkey, invece, ha dimostrato come le forze speciali siano entrate non in un covo di pericolosissimi terroristi, bensì in casa di un noto ufficiale di polizia – il comandante Daud – intento a festeggiare, con la propria famiglia, la nascita dell'ultimo figlio. Le tre donne, due delle quali incinte ed una 18enne, con molta probabilità erano nient'altro che familiari del comandante.
Come risarcimento, il contingente ha offerto 2.000 dollari per ogni vittima. Naturalmente troppo poco. Ma qualunque cifra sarebbe stata inferiore al costo di cinque vite innocenti.
Questa volta però parte la contro-offensiva: Starkey è accusato di aver falsificato le dichiarazioni che dovrebbero servire ad avvalorare la sua tesi.

Psychological Operation (o psyops per contrazione): si chiama così il tipo di guerra psicologica che gli eserciti stanno portando a chi – come Starkey e come Emergency – denuncia il vero volto della guerra. Quello dove, lontano dalle telecamere, i contadini non possono più coltivare i loro campi, in quanto questi sono disseminati di mine, oppure quello per cui migliaia e migliaia di bambini in tutto il mondo vengono quotidianamente mutilati e privati della loro infanzia perché attirati da mine antiuomo che, per via delle forme e dei colori, appaiono loro come giocattoli. È anche di loro che si occupa Emergency, forse soprattutto di loro: dei bambini, perché il 40% di loro – nel solo Afghanistan – è vittima innocente di chi ha deciso di muovere guerra per interessi che in questi casi vincono sempre, qualunque ne sia il fronte e qualunque sia il nome che gli viene dato.

Tiziano Terzani diceva: «Dipende da quel che noi faremo, da come reagiremo a questa orribile provocazione, da come vedremo la nostra storia di ora nella scala della storia dell'umanità, il tipo di futuro che ci aspetta. Il problema è che fino a quando penseremo di avere il monopolio del «bene», fino a che parleremo della nostra come la civiltà, ignorando le altre, non saremo sulla buona strada».
Dobbiamo iniziare non tanto a pensare, ma a pretendere di non avere più questo monopolio. E tantomeno di poterlo esportare a suon di bombe. «In questi tempi di guerra non deve essere un crimine parlare di pace».