Guerra in affitto

«e mentre marciavi con l'anima in spalle
vedesti un uomo in fondo alla valle
che aveva il tuo stesso identico umore
ma la divisa di un altro colore»
[Fabrizio De André – La guerra di Piero]

Che la guerra sia parte integrante della vita umana non è certo una novità. L'ha cantata magistralmente De André in pezzi come “La guerra di Piero”, “La ballata dell'eroe” o in “Fiume Sand Creek”. Prima di lui tanti e tanti, in ogni tempo e ad ogni latitudine, hanno scritto, cantato e raccontato la guerra: da Omero con i suoi poemi a Guccini passando per John Lennon, Patti Smith e Bob Dylan. Probabilmente a questi nomi se ne aggiungeranno tanti altri in futuro, e questo non perché – probabilmente – la guerra terminerà con l'uomo, ma perché c'è chi, con le guerre, ci fa un mucchio di soldi, e quindi non ha alcuna intenzione di vederne la fine.

Niente signori della guerra africani o venditori di morte alla Viktor Bout – il trafficante di armi magistralmente interpretato da Nicolas Cage in “Lord of war”: trattasi, più banalmente, di mercenari.
Si può dire che questo particolare tipo di soldato, quello senza bandiera e dalla divisa di un colore imprecisato, per citare nuovamente De André, sia nato il giorno stesso in cui – nella notte dei tempi – qualcuno decise di muovere guerra verso qualcun altro, per tutelare i propri interessi: dall'Impero romano ai popoli d'Oriente passando per il periodo della colonizzazione, ogni guerra ha avuto la sua buona dose di mercenari; anzi: prima dell'avvento degli Stati-nazione, la componente privata degli eserciti era di gran lunga superiore a quella “istituzionale” ed istituzionalizzata sotto una bandiera o una divisa comune.
E proprio dalle guerre di colonizzazione ci viene la concezione di “mercenario” che più o meno tutti abbiamo in testa: quella di tagliagole senza padrone il cui unico scopo nella vita è quello di uccidere per denaro.
Che si chiamino Lanzichenecchi, Capitani di ventura o – appunto – mercenari, i discendenti di Bob Denard, uno tra i più celebri mercenari che la storia ricordi, hanno segnato, e continuano a segnare tutt'oggi, la storia bellica dell'umanità.

«Le truppe statunitensi, britanniche e degli altri paesi della coalizione sono in Afghanistan per vincere la guerra. Per noi, più la situazione più si deteriora meglio è». A parlare non è qualche capo locale di Al Qaeda ma uno dei tanti contractors a cui oggi gli stati “democratici” hanno delegato gran parte del lavoro di retroguardia (e non solo) all'interno della gestione di un conflitto bellico.

Consulenza, addestramento e supporto logistico sono i tre ambiti in cui questi mercenari del XXI secolo vengono utilizzati maggiormente, perché oggi la guerra richiede
qualcosa di diverso dal soldato classico, quello che si limitava a sparare a qualunque cosa gli si muovesse davanti. Oggi ai militari – quelli inseriti negli eserciti regolari e quelli “per procura”- si chiede qualcosa di più globale, e cioè che oltre alla semplice operazione militare propriamente detta si sia a proprio agio tra connessioni satellitari, pianificazione e, negli ultimi anni, anche operazioni di peacekeeping, cioè di sostentamento alle popolazioni. Certo: che poi decidano di difendere sempre l'interesse di multinazionali, di politici o di personale “invasore” è solamente un dettaglio. D'altronde bisogna pur giustificare una paga che oscilla tra i 1.000 ed i 1.500 dollari al giorno...Ma scordatevi la figura – per certi versi anche romantica – del lupo solitario: anche questo settore – così come la guerra “tout court” - ha subito l'influenza della globalizzazione ed è andato incontro alla privatizzazione.

Blackwater (oggi Xe Services Llc); DynCorp; Aegis Private Security. Tre nomi che difficilmente troviamo sugli organi di informazione mainstream dietro ai quali si nascondono delle agenzie – le Società militari private – alle quali oggi la classe politica che legittimiamo con il consenso ha demandato il controllo degli interessi geo-politici del mondo. Perché se è vero che gran parte di queste società – che però sono giuridicamente inquadrate sotto la dicitura “Società di sicurezza private” - si occupano perlopiù di tutte quelle operazioni che non riguardano il contatto armato (dalla logistica e l'addestramento delle forze in loco allo sminamento e la ricostruzione), le Smp propriamente dette sono dei veri e propri corpi di élite, spesso composti da ex appartenenti alle truppe regolari, capaci di inviare personale altamente addestrato per la risoluzione – anche violenta – di conflitti e crisi politiche.
Che si occupino di logistica o che siano direttamente utilizzate negli scontri, ad ambedue le tipologie sono affidati compiti di “black ops”, cioè quelle operazioni che, se scoperte, porterebbero disonore alle forze militari regolari ed ai governi ai quali rispondono: le operazioni clandestine, insomma.

La trasformazione dei mercenari in società private inizia negli anni dell'apartheid, quando – con la creazione dell'Executive Outcomes – i sudafricani iniziano a considerare l'idea che l'aspetto economico delle guerre non debba essere appannaggio esclusivo degli stati ricchi e/o del mercato delle armi. Da quel momento, infatti, il sangue che scorrerà nel continente sarà spesso versato da milizie “in subappalto”. Peraltro la EO è una vecchia conoscenza del nostro paese: con il nome di Aegis Defense Services è infatti la principale destinataria degli oltre tre milioni di euro del “famoso” rifinanziamento che l'allora governo Prodi – siamo nel febbraio 2007 – aveva stanziato per la difesa degli interessi degli imprenditori che erano andati ad investire nell'Iraq della ricostruzione e che “leggenda vuole” siano stati la causa della caduta del governo.

Ma cosa spinge – o spingerebbe – oggi a diventare “contractor”?
Per rispondere a questa domanda bisogna allargare il focus, e partire da un'altra domanda: cosa spinge oggi, in paesi in cui il servizio di leva non è più obbligatorio (in Italia dal 2005), ad andare in guerra?
Per quanto riguarda il nostro paese la risposta è, per certi versi, banale ed atavica: lavorare. Molti dei nostri giovani infatti, in particolare quelli cresciuti nel Meridione, antepongono a considerazioni di natura etica considerazioni più “caserecce” ma di certo non meno importanti: cioè la possibilità, in mancanza di altro, di avere una paga sicura. E visti i tempi di crisi difficilmente si può denunciare un modo di pensare alla guerra in questi termini, come vero e proprio ammortizzatore sociale laddove il lavoro – al Sud come nel resto del Paese – diventa sempre più un'utopia.
Ed il mercato della “guerra in appalto”, sia che si scelga il ruolo di novelli opliti sia che si scelgano ruoli più “manageriali” è decisamente fruttuoso: 100 miliardi di dollari è infatti il giro d'affari del delle Smp, mercato che ha visto un vero e proprio decollo a partire dagli inizi del nuovo millennio, quando l'allora Segretario alla Difesa americano Donald Rumsfeld decise di “razionalizzare” l'esercito statunitense, dando in outsourcing la gestione di gran parte delle questioni “laterali” di uno scenario bellico quali approvvigionamento, logistica et alia.
Nel momento in cui, in un mondo governato dalle lobby economiche, la guerra perde la totalità della sua funzione etica, sostituita dal mero profitto economico, esternalizzare è diventato il nuovo credo di chi ha il potere reale di decidere verso chi e con quali mezzi muovere guerra: i consigli di amministrazione delle principali aziende internazionali. Basti pensare che una delle principali multinazionali petrolifere – la Halliburton – vedeva il presidente ed amministratore delegato, Dick Cheney, come vice-presidente degli Stati Uniti nel governo di George W. Bush.

Se non bastasse questo dato non solo a capire che oggi, come ieri, le guerre vengono fatte al solo scopo economico – ma anche per capire quanto sostanzialmente inutili siano lotte contro questo o quell'esponente politico quando tutti rispondono ad interessi economici più grandi di loro – altri due dati: secondo il Ministero della Difesa francese, il bilancio assegnato alla Military Professional Ressources Inc., un'altra società militare privata, per tutto ciò che concerne l'addestramento dell'esercito nazionale afghano (Ana) ammonta a circa 1,8 miliardi di euro; il 20% (cioè intorno agli 83 miliardi di dollari) della spesa statunitense nel periodo 2003-2007 per la guerra in Iraq è finito nelle tasche di questi figuri, dalla moralità – e dalla giurisdizione – alquanto vaga. Un paio di tacche sotto quella di un maniaco sessuale, come direbbe Woody Allen.

Naturalmente tutto questo profluvio di denaro che arriva nelle tasche di società che fanno capo a Wall Street parte direttamente dalle tasche del contribuente. Ma questo è solo il giro d'affari del mercato legale. Perché, come per quasi tutti i mercati, alla versione legale se ne aggiunge un'altra, ben più ampia, completamente illegale.

Al mercato di guerra.
Angola e Repubblica Democratica del Congo. Sono questi i due paesi in cui, negli ultimi anni, si è assistito maggiormente alla saldatura tra contractors, Smp e traffici illegali, in particolare quello delle armi e delle materie prime pregiate (leggasi alla voce: diamanti ed altre risorse minerarie in genere).

Il c.d. “Angolagate” è uno scandalo che nel 2008 era su tutte le prime pagine dei quotidiani francesi in cui Jean-Christophe Mitterand – figlio dell'ex presidente francese – e l'ex ministro degli Interni, il neogollista Charles Pasqua, sono stati condannati per il loro ruolo nell'illegale vendita di armamenti (carri armati, elicotteri e munizioni per artiglieria per un valore di 800 milioni di dollari) all'Angola durante la guerra civile, anche se il processo vedeva sul banco degli imputati il miliardario russo-israeliano Arkadji Gaydamak e l'uomo d'affari francese Pierre Falcone, mentre Pasqua e Mitterand Jr erano accusati “solo” di tangenti. Con questo processo – che ha portato a due anni di reclusione con la condizionale e al pagamento di 375 mila euro per Mitterand Jr e 3 anni, di cui due sospesi, più il pagamento di 100 mila euro per Pasqua – la Francia e quell'Europa borghese che si erge a paladina dei diritti del mondo si sono svegliate nel bel mezzo di un traffico illegale che tra classe politica, criminalità organizzata ed altri personaggi di vario tipo e natura ha assistito alla sovrapposizione tra il mercato delle armi, delle materie prime e della sicurezza.
Ma l'esempio più evidente si ha nella Repubblica Democratica del Congo, dove vari studi delle Nazioni Unite, di enti governativi locali e di organizzazioni internazionali indipendenti hanno portato alla scoperta di una fitta rete di accordi tra mercenari (in singolo o tramite le Smp) e personalità di spicco dei mercati illegali quali i già citati Viktor Bout ed Arkadji Gaydamak, in cui sia gli uni che gli altri erano attori principali dell'instabilità sociale necessaria per ruberie di varia natura. È questo il fenomeno del “commercial war”, di un vero e proprio mercato della guerra in cui sfruttamento e mercati legali non sono altro che la veste pulita di ben altri commerci.

Si capisce dunque limpidamente quanto mercati – legali o meno – di tali grandezze, e con possibilità di ampliamento infinite, attirino più del miele personaggi i cui scrupoli non sono pervenuti.
Si stima, infatti, che nel solo Afghanistan ci siano tra le 130.000 e le 160.000 unità che rispondono esclusivamente alle società che ingaggiano questo tipo di personale, la cui esperienza diventa sempre più importante per le forze regolari in particolare per il know-how di cui dispongono, forti di operazioni sul campo che vanno dai 2 ai 4 anni (le forze regolari hanno in media un ricambio semestrale). Afghanistan ed Iraq sono gli scenari di azione principali per questo tipo di soldato “globale”, spesso usato ufficialmente con compiti di guardia del corpo (tant'è vero che molti sono definiti “body-guard”) per personaggi di spicco o per installazioni logistico-economiche di una certa rilevanza, ma se ne trova traccia in qualunque fronte di guerra aperto: dal conflitto israelo-palestinese al Sud America passando per il Sud-est asiatico.

Se dal punto di vista economico tutto sembra lapalissianamente chiaro, ben altro discorso bisogna fare qualora si intenda analizzare questo fenomeno dal punto di vista giuridico:

«Chiunque, nel territorio dello Stato e senza approvazione del Governo arruola o arma cittadini, perché militino al servizio o a favore dello straniero, e' punito con la reclusione da tre a sei anni. La pena e' aumentata se fra gli arruolati sono militari in servizio, o persone tuttora soggette agli obblighi del servizio militare».

Questo articolo è l'unica cosa chiara della faccenda, sia perché non esiste un “Codice per contractors” e sia perché – agendo su quel sottile limite tra legalità ed illegalità che piace tanto agli amanti delle storie di intelligence – non si sa come inquadrarli giuridicamente: devono essere assimilati alle truppe regolari? Come ci si comporta in caso di eventuale cattura? Quale giurisdizione va considerata competente: quella del loro paese di nascita, del paese per il quale sono assoldati o quello in cui operano?

Stando alla Terza Convenzione di Ginevra del 1949 tutti i contractors, sia che agiscano come fornitori o come prestatore d'opera, rientrano in una stessa fattispecie definita genericamente “supply contractors”. Se tali operatori sono muniti dagli eserciti con i quali lavorano di un valido documento identificativo hanno diritto allo status di prigioniero di guerra in caso di cattura (art.4.1.4). Qualora però il contractor partecipi attivamente agli scontri può essere classificato come mercenario (Protocollo addizionale I art. 47.c) e quindi essere considerato giuridicamente un “combattente illegittimo”, perdendo così il “beneficio” di essere tutelati in caso di cattura, a meno che lo stesso non ricada in una esenzione presente nello stesso art.47.
Per cui, come è facilmente intuibile, le domande di cui sopra rimangono ancora senza risposta.

In conclusione ci sarebbe poi il problema dell'etica di questo tipo di soggetti che, svincolati dal controllo degli Stati, agiscono nella più totale libertà, nel bene e nel male.
Ma la stessa concezione della guerra come mezzo di risoluzione delle controversie con la quale il vincitore (o i vincitori) dettano le regole ai vinti, considerandosi come dominazione dell'uomo da parte dell'uomo diventa il problema etico principale. Un problema che, forse, verrà risolto solo con la fine dell'uomo.