Si scrive Grecia, si legge (scuola di)Chicago.

Atene (Grecia) - «Potremmo uscire dall'Unione Europea per imporre un vero cambiamento politico al Paese». Sono le parole di Alexandra “Aleka” Papariga, leader del Kke, il partito comunista greco, durante una conferenza stampa a margine degli scontri che si registrano in terra ellenica in questi giorni.

Dicono sia una crisi di natura economica. Dicono che la Grecia abbia “barato” sul deficit, anche se i dati non sembrano poi così allarmanti se paragonati al resto del vecchio continente. Basti pensare che il deficit pubblico – cioè le spese che non riescono ad essere coperte dalle entrate – si stima sia intorno al 12,7% rispetto al PIL, con la Francia - uno dei paesi da sempre considerati traino per l'economia e la politica continentale - che attesta lo stesso dato intorno all'8%, mentre il debito pubblico ellenico, cioè il debito contratto verso altri soggetti (sia pubblici, come altri Stati, che privati come le banche) attraverso l'emissione di obbligazioni - cioè attraverso un titolo di debito utilizzato quando si necessita di una maggiore liquidità – si attesta sul 113% (quello italiano, dati 2008, è al 105%).

Per risolvere la “crisi”, nei giorni scorsi il governo presieduto dal socialista George Papanderou ha creato un “pacchetto” di soluzioni del valore di 4,8 miliardi di euro che prevede:

  • tagli alla quattordicesima mensilità (60%);
  • tagli alla tredicesima mensilità (30%);
  • nuova riduzione delle indennità salariali (12%)
  • congelamento delle pensioni, in aggiunta al congelamento di tutti i salari pubblici annunciata prima di questo pacchetto;
  • aumento dell'Iva (che colpisce solo il consumatore finale, che non può scaricarla su di un altro compratore, che passa dal 18 al 21%);
  • taglio dei bonus ai manager pubblici;
  • aumento delle imposte su alcool (+20%), sigarette (+65%), benzina (+8 centesimi al litro); gasolio (+3 centesimi) e beni di lusso.
Se gli ultimi due punti possono essere condivisibili, la stessa cosa non si può certo dire per quell'insieme di tagli e aumenti che vanno a colpire sempre – e solo – la popolazione.
Se questa situazione fosse successa in Italia – e non è detto che non succeda, anzi – al massimo i sindacati avrebbero indetto un patetico sciopero di 3 ore utile solo ai padroni. Ma la Grecia – fortunatamente – non è l'Italia.
Nei giorni scorsi sono scesi in strada a protestare tutti: dai compagni anarchici di Exarchia passando per studenti, lavoratori pubblici e pensionati, bloccando le strade, irrompendo nei ministeri (nei giorni scorsi il Pame – il sindacato comunista – ha occupato il ministero delle Finanze) e alzando la voce al grido di quel «noi la crisi non la paghiamo!» il cui eco – ormai lontano – è passato qualche mese fa anche in Italia. Poi, naturalmente, nel nostro Paese si è deciso di discutere del nulla...
«Noi la crisi non la paghiamo!» urlano per le strade di Atene. Ma dovremmo urlarlo anche noi in Italia, così come dovrebbero farlo spagnoli, portoghesi, americani, cioè tutti coloro che si ritrovano nelle mani della cosiddetta “alta finanza”. Perché se la crisi c'è stata, è colpa dei grandi finanzieri, delle banche e di tutti quei soggetti – fisici o giuridici – che hanno il vezzo di giocare a fare i capitani di ventura con denaro altrui. E si sa che a giocare con i soldi degli altri ci si fa sempre poco male...

«Dobbiamo pagare noi un debito che altri hanno contratto, senza chiederci il parere e senza informarci?» questa è, in sintesi, la domanda al referendum voluto dal governo islandese – l'unico paese dichiarato in bancarotta della storia umana – dopo la proposta di legge sul rimborso di un debito che è stato provocato da altri – che continuano a guadagnare anche, e soprattutto in tempi di sciagure – ma che, come al solito, doveva essere ripagato dalla povera gente, da chi si vede in balia delle decisioni economiche senza avere neanche la possibilità di capire cosa gli succede intorno (ma sappiamo che una delle prerogative principali del Potere è proprio quella di non volere opposizione critica e pensante). Il risultato? Il 5,3% delle schede erano nulle o bianche e ben il 93% ha risposto urlando di nuovo quello slogan, quello dietro a cui si sta creando davvero quell'Europa Unita voluta dai potentati. Peccato che il loro sogno fosse diametralmente opposto all'Europa dei Popoli.

Peraltro la “pistola fumante” è ancora sul tavolo dei Potenti: si chiama Credit Default Swap e, come riporta il Sole24Ore
«è un baratto, e in questo caso il baratto consiste in questo: la parte A paga periodicamente una somma alla parte B, e la parte B in cambio si impegna a rifondere alla parte A il valore facciale di un titolo C, nel caso il debitore C vada in bancarotta. Insomma, A ha comprato l'obbligazione emessa da C, ma A vuole esser sicuro che C rimborsi il capitale alla scadenza. La finanza ha creato questo strumento di copertura del rischio, e il credit default swap è in effetti come una polizza di assicurazione. Se, per esempio, il valore dei titoli acquistati è di 100mila euro (facciali), e il cds è di 120 punti base, vuol dire che A deve pagare ogni anno 1200 euro per essere sicuro del rimborso. Questi cds sono quotati in mercati over the counter, e se il costo dovesse balzare, mettiamo, a 800 punti base, vuol dire che il mercato teme che il debitore C avrà difficoltà a far fronte ai propri impegni».

Tradotto significa che se i Cds salgono, il rischio di default – cioè l'incapacità di non riuscire a rispettare le clausole contrattuali di un finanziamento – è considerato più importante, automaticamente salgono i tassi d'interesse dei nuovi prestiti presi da un paese – come si trova costretta a fare la Grecia in questo momento – provocando un aumento del suo deficit, che si traduce in un aumento del suo debito, per la cui copertura si chiederanno altri finanziamenti e così via, in una spirale senza fine.
Insomma: questi Cds altro non sono che una di quelle robacce tossiche – insieme agli hedge funds – che l'economia “buona” capeggiata dall'Obaganda americana (cioè dalla propaganda del primo Premio Nobel per la Guerra che la Storia ricordi) aveva promesso di debellare. Appunto: aveva promesso, e basta.
Perché che si parli di Obama o di qualunque altro politico, non è a loro che bisogna rivolgersi. Non bisogna rivolgersi ai Parlamenti per capire da dove vengono i problemi della gente. Perché i Parlamenti, i governi – tutti, dal primo all'ultimo – non hanno alcun potere realmente decisionale, possono solamente ratificare decisioni prese da persone più in alto di loro, quelli che siedono nei consigli di amministrazione delle multinazionali, quelli che fanno parte delle grandi lobby mondiali i cui burattini vengono inviati nelle organizzazioni sovranazionali per tutelare i loro interessi. Sono loro i veri “obiettivi” della disperazione degli operai, dei lavoratori pubblici, degli studenti che hanno potuto assistere solo come spettatori alla commercializzazione della vita umana.

Se la crisi non fa di certo sorridere, la soluzione per la Grecia potrebbe essere anche peggiore.
Perché se la crisi è di natura puramente economica, i risvolti politici sono facilmente leggibili: innanzitutto in merito alla “lotta intestina” che si combatte per definire le gerarchie tra gli stati di una sempre più evanescente “Unione” Europea, dove al comando c'è il solito – vecchio – asse franco-tedesco e tutto il resto indietro, a raccogliere le briciole e stare al guinzaglio. È vero, Francia e Germania sono tra i paesi più forti dell'intero continente, ma il paese presieduto da Angela Merkel – che ora chiede regole certe per i paesi “dall'economia allegra” dell'area sudeuropea – fa finta di dimenticare che se la Grecia si trova in questa situazione è anche colpa delle sue banche le quali, come tutte le banche, speculano sulla pelle della gente tramite quegli artifizi finanziari di cui (non) possiamo leggere quotidianamente sui giornali.
Il problema, se fosse solo di equilibrio delle forze in campo, forse, non sarebbe poi così grosso, ma – come detto prima – la soluzione che si prospetta alla Grecia potrebbe essere ben più distruttiva del male stesso.

Gli ingredienti ci sono tutti: deregolamentazione del sistema economico, tagli alla spesa pubblica, liberalizzazione dei salari. “La cura” è un filo rosso che lega l'Argentina dei desaparecidos – e della crisi del 2001, quasi identica alla crisi greca di oggi – con il Cile di Pinochet, passando per l'Iraq del dopo-Saddam e per la Russia del dopo perestrojka. La crisi economica non è stato altro che lo “shock” necessario per sbloccare quella che Naomi Klein definisce “dottrina dello shock”.


[qui http://www.youtube.com/watch?v=Gaqj_zT8Lgw per i lettori di Facebook e ReportOnLine]

La “cura”, oggi, vede aprirsi un nuovo capitolo proprio in Grecia, dove il governo ha chiesto l'aiuto del Fondo Monetario Internazionale, cioè da quell'organismo che più degli altri rappresenta la prosecuzione dell'ideologia di Friedman.
La natura di uno shock – usa ripetere spesso la giornalista canadese - è per definizione uno stato temporaneo. Non sarà dunque giunta l'ora di svegliarsi?