Musica socialmente sensibile...vol. II

Stanotte ho avuto un incubo: ho sognato che accendevo la tv, trasmettevano un programma musicale. Presentavano i nuovi “cavalli di razza” della musica italiana e sul palco si presentavano Valerio Scanu e Marco Carta. Poi ho aperto gli occhi e mi sono accorto che era solo un servizio sul Festival di Sanremo.

Uno shock puro. E la prospettiva di ascoltare la radio e sentir cantare uno che prova piacere a fare l'amore nei laghi – oltre ad essere una notizia di cui francamente potevo anche rimanere all'oscuro - è ancora peggio, quindi la ricerca ossessiva di qualcosa di diverso diventa l'unica via salvifica per l'apparato uditivo ed il sistema nervoso.

La prima tappa di questo ipotetico viaggio di purificazione dalla melensaggine di un certo tipo di musica – quella che piace tanto al popolo del televoto – ci porta nella Nuova Spagna (nella zona dell'odierna Città del Messico) della metà del '700. È qui infatti che, nel 1731, nasce Jacinto, un rivoluzionario Maya che – col nome di battaglia Canek (“serpente nero”) - incitò gli indios alla sollevazione popolare contro gli invasori spagnoli.
Circa trecento anni dopo – nel 2002 – nella Val Policella, sulle Prealpi veronesi, nascono gli Jacinto Canek (pronuncia: Hasinto Canèk). Definire quale sia la loro scena musicale di provenienza è praticamente impossibile, si può però iniziare a darne una definizione pensando al combat-folk dei Modena City Ramblers o alle contaminazioni mediterranee degli Almamegretta prima e di Raiz poi: Gli JC si situano più o meno nel mezzo, prendendo l'impegno storico e politico dei testi (basti ascoltare pezzi come “Banditi” o ”Serpente Nero” nel primo caso e “Divise” nel secondo) rigorosamente in italiano, mischiato a sonorità provenienti da tutta l'area mediterranea (così com'è consuetudine di una certa scena musicale meridionale che va dal già citato Raiz ad Enzo Avitabile).
Il loro album d'esordio è “Banditi”, uscito già nel 2007, che vede anche collaborazioni importanti se contestualizzate nella “etnicità” di un gruppo che, partendo dalla scena hardcore si addentra nel blues, nell'hip hop, nel raggae pur non disdegnando il metal puro. Tra queste è da ricordare il canto di Bachir Charaf, la voce del deserto presente in “Fuoco e Cenere”.
Il gruppo vede inizialmente la partecipazione di sei elementi (Mirco Fischetti – voce e percussioni; Andrea Pontara alle chitarre; Damiano Martignago al basso; Fabio Dalla Bernardina al didgeridoo, il tipico strumento a fiato degli aborigeni australiani e
Giordano Iannazzo alla batteria) ai quali si aggiunge, dal 2004,la splendida voce della cantante-percussionista Francesca Longhin, che, in connubio con Mirco, formano una varietà canora di tutto rispetto.
Li si può trovare in giro per l'Europa dell'Est o nella scena “anti-Sanremo” in questo paese.
Sono troppo incazzati per non piacere, come loro stessi hanno più volte ribadito. Troppo incazzati per non piacere, e troppo “impegnati” per piacere al “grande” piccolo pubblico: quello che crede che basti partecipare ad un reality per definirsi “cantante”.

Dal Sudamerica del '700 ci spostiamo agli Stati Uniti degli anni '20: la patria della libertà e delle possibilità di diventare qualcuno, sogno in cui moltissimi dei nostri conterranei avevano creduto. Tra questi anche personaggi come Andrea Salsedo, Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti, italiani ed anarchici che in quegli anni riempirono le pagine di cronaca dei giornali statunitensi. Salsedo morì il 3 maggio del 1920 a New York, volando dal quattordicesimo piano del Park Row Building, sede dell'Fbi. Salsedo come Pino Pinelli, ambedue anarchici ed ambedue “fatti suicidare”, così come ci testimonia Dario Fo in “Morte accidentale di un anarchico”, spettacolo che più volte gli ha portato problemi, ma si sa che quando si ragiona di anarchia al Potere pre-confezionato la cosa non piace. La storia di Sacco e Vanzetti è probabilmente più famosa di quella di Salsedo: i due anarchici furono arrestati, processati e messi a morte con l'accusa – ufficiale - di omicidio e quella ufficiosa di essere anarchici. Ed è proprio questo quel che ci racconta Kento – al secolo Francesco Carlo – nel suo primo lavoro da solista “Sacco o Vanzetti”. No, niente refusi: la “o” non è un errore, e per capirne il perché prendo pari pari quel che dice il suo stesso autore:

«Puoi scegliere di rifiutare del tutto ciò che non puoi affrontare, di sputare con disprezzo su quel muro e poi voltargli le spalle. O puoi scegliere di combattere fino alla fine, di prenderlo a martellate anche se sai che non potrai mai abbatterlo o scalfirlo. Ai giudici che – comunque e in ogni caso - ti condanneranno puoi opporre la tua dialettica più veemente. O semplicemente il silenzio. Puoi assomigliare a Nicola Sacco, o a Bartolomeo Vanzetti. Puoi renderti conto che, in vari momenti della tua vita, sei stato uno dei due e che, in fondo al tuo essere, convivono entrambi».
L'arte di Kento si inquadra – se le si vuole dare un'etichetta comprensibile a tutti – nella scena rap dell'era successiva al fenomeno delle Posse, ma quando in Italia si parla di musica ed anarchia il primo riferimento naturale non può non essere l'immenso Faber. I punti di contatto, per quanto possa essere un accostamento da prendere con le molle, sono molteplici: dal sentire la musica come strumento di lotta e nella sua connotazione sociale al voler cantare gli ultimi, in cui De André è senza ombra di dubbio l'inarrivabile maestro a cui molti (troppi?) hanno cercato e cercano di avvicinarsi con alterne fortune.
Un altro punto di contatto è sicuramente quello di rifuggire dal successo facile e dal diventare personaggi in quel circuito mainstream che trita tutto nel giro di poco tempo, circuito congeniale per le canzoncine “da una botta e via” che di solito vengono presentate nelle kermesse più importanti e conosciute.
Così come Faber era all'antitesi del cantante disimpegnato, Francesco si allontana dallo stereotipo del rapper “all'americana”, quello pieno di catenoni d'oro e che canta del ruolo predominante del maschio “virile”, cosa che deriva, probabilmente, anche dalla storia personale di Francesco, cresciuto nell'estrema periferia nord di Reggio Calabria (Catona spuntone), quindi in un mondo in cui le “luci della ribalta” si accendono solo quando ci sono ammazzamenti di 'ndrangheta o altri episodi che servono al Potere per confermare la pericolosità delle periferie, cosa che rende possibile un altro dei punti di contatto con Faber: la vicinanza e la simpateticità per gli ultimi, le minoranze e quelli che lo stereotipo comune definisce come “perdenti”.

“Sacco o Vanzetti”, che ha avuto non pochi problemi – doveva infatti uscire nel 2008 ma, per i tagli voluti da Tremonti, ha visto la luce solo sul finire del 2009 – è sì il primo lavoro da solista per Kento, ma il sesto lavoro in assoluto. Francesco ha infatti una lunga militanza nella scena romana (dove si trasferisce per laurearsi in legge) con i Manakuma, i Poeti Omerici e gli Inquilini, la crew che lo accompagna dal 2003 al 2007 e che vede di pari passo la creazione dei Kalafro Sound Power nella scena reggina.

Quel che si trova in questo lavoro non è tanto la presentazione della storia di Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti, ma il mondo, l'infanzia e le riflessioni sul sociale di Francesco prima ancora che di Kento, cioè “Anarchia, Rivoluzione, Testimonianza, Esplosione”: Arte insomma.

Dagli Stati Uniti degli anni '20 e la Calabria dei giorni nostri ci spostiamo in un sound che, pur avendo nella Giamaica la sua patria ufficiale è ormai una musica apolide, cantata veramente in ogni angolo di questo mondo, una musica che non ha cittadinanza e tempo, che dalla terra di Bob Marley ci porta alla Giamaica de noantri che prende il nome ufficiale di Puglia per l'ultima tappa del nostro “tour salvifico”.

Come al solito il “botto” migliore me lo sono tenuto alla fine, per quanto né gli Jacinto Canek né Kento siano da disdegnare. E per l'ultim* artista cambiamo genere: perché dal rap ci spostiamo – come avrete capito – al raggae, e da artisti maschili (o gruppi a preminenza maschile) parliamo di una ragazza, una 23enne – classe 1986 – che all'anagrafe conoscono come Maria Germinario, che diventa Mama Marjas quando sale sul palco.
Nata a Santeramo in Colle (Bari) da papà barlettano e mamma tarantina, si può dire che già i suoi primi vagiti siano stati intonati secondo le sette note. È dall'età di 6 anni infatti che Maria si esibisce di fronte al pubblico, andando in giro con l'orchestra spettacolo della sua famiglia (la “International Band”) presentando le “tipiche canzoni da festa di piazza”: dalla musica leggera italiana al liscio, alla musica napoletana, che hanno via via ceduto il passo alla black music ed al raggae, probabilmente molto più adatte per esprimere il suo mondo interiore – come in “Unfaithful love” o “My sunshine”- e la sua visione del mondo che ci circonda in pezzi come “Bless the ladies”, “Stop the war” o “This world is wrong” che già dai titoli credo abbiano poco bisogno di presentazioni.
Mentre studia per diventare la voce femminile più interessante del raggae italiano frequenta il Conservatorio E.R.Duni di Matera, dove studia violino, accumulando esperienza e chilometri – in compagnia della “tipica popolazione da viaggio notturno in treno” - in giro per l'Italia.

Maria arriva al raggae come ci arrivano praticamente tutti: grazie a Bob Marley – che celebra nella sua “Robert Nesta Marley” - e Peter Tosh, iniziando a calcare la scena come silecta e speaker con Kianka Town Crew dal 2005, per poi esplodere, come solista, con il suo primo lavoro “B-lady”.
Nonostante la sua giovane età, ha alle spalle già moltissime collaborazioni, su tutti Bad & Break Funk, Apres La Classe, Sud Sound System e tanti altri.
A me sono bastati pochi minuti – esattamente 2 minuti e 37 secondi – per innamorarmi delle sonorità e dei testi di questa ragazza che passa tranquillamente dal raggamuffin in tarantino al soul o all'r&b passando per il drum & bass all'hip hop più classico.
A voi basta spegnere la tv ed andare un po' in giro nella scena “alternativa”, quella che difficilmente troverà amici per Maria.

Scelti per voi: