Di burocrazia si muore

L'Aquila (Italia) - «Esecuzione forzata». Si può distruggere intere vite con due semplici parole? No, non intendo distruzione “fisica”, a quella – in molti casi – ci ha già pensato il terremoto ad aprile. Mi riferisco a quella parte della vita costituità dalla dignità, dall'orgoglio di quelle tante donne e uomini che per quasi un anno sono stati presi in giro dal Governo Italiano, dalla Protezione Civile e – perché no? - anche da un Parlamento che passava il proprio tempo dietro a Berlusconi invece che guardare a chi, per antonomasia, gli dà legittimità: la gente.

Con due semplici parole gli organi gerarchicamente più elevati si sono tolti gli ultimi rimasugli di ipocrito cordoglio verso gli aquilani. Sì, perché quando ci sono le sciagure ci sono due tipi di sciacalli: quelli che passano durante le riprese (spesso messi lì pro domo del giornalista che così tira fuori il pezzo “strappalacrime”), e quelli che vengono dopo, a telecamere spente.

Quelli che vengono dopo, sono gli stessi che buttano in mezzo ad una strada una signora di 63 anni – Filomena Boccia si chiama – con una lettera di sole cinque righe nelle quali le si intima che, qualora non sia disposta a lasciare sua sponte la stanza della Caserma Campomizzi nella quale “abita” adesso, si dovrà ricorrere alla forza. La casa di Filomena è una delle tante case distrutte dal sisma, ma non sarebbe comunque stato possibile rientrarvi per un “piccolo” particolare: la casa di Filomena era inagibile, e lei ci abitava perché, se fosse andata ad abitare in una casa “vera”, anche per un periodo breve, avrebbe perso posizioni in quella speciale lotteria che è la graduatoria per le case popolari. È diventata una “senza dimora”, lei come tanti altri, non certo per sua volontà. Lo è diventata per volere altrui: di chi ha costruito L'Aquila su un area sismica, e di quella burocrazia, farraginosa e spesso superflua, che è uno dei grandi mali dell'Italia.
Come tanti altri, Filomena ha fatto richiesta per un alloggio alla Protezione Civile, ma si sa che gli interessi protetti dalla Protezione Civile sono quelli degli speculatori e di chi non è stato colpito dalla sciagura (per altro evitabilissima) dell'aprile 2009.

In una situazione del genere, una situazione di «rabbia ed esasperazione» come dicono gli stessi aquilani, una situazione che sta raggiungendo sempre più il punto di ebollizione, domenica gli aquilani hanno fatto quel che forse avrebbero dovuto fare fin dall'inizio: riprendersi la città. Hanno violato la “Zona Rossa” - così come consuetudine di altre proteste – e sono saliti lì, nei corsi del centro storico, sulle macerie che da quel 6 aprile campeggiano “a futura memoria”. Chi ha pianto, chi ha urlato, chi ha cantato i canti popolari, la protesta è stata civile, per quanto possa esserlo chi si vede preso in giro da circa un anno con promesse e contentini vari. Il massimo della ribellione è stato appendere le chiavi degli appartamenti sulle transenne e sulle reti di metallo che impediscono l'accesso alle strade. «La protesta delle mille chiavi» l'hanno chiamata.

Non so se Bertolaso sia colluso con cui, alle 3e32 del 6 aprile 2009 rideva e si fregava le mani mentre faceva i conti su quanto avrebbe potuto guadagnarci da una sciagura simile o se, come lo stanno dipingendo un po' tutti, si è trovato solo a collaborare con le persone sbagliate (e non so quale delle due sia peggio, francamente...). So però che lui e chi si è occupato della – a questo punto – non-ricostruzione de L'Aquila dovrebbero non solo dimettersi dai propri incarichi, naturalmente senza attendere l'accettazione delle stesse da parte del Governo o dagli organi eventualmente preposti, e vergognarsi di quel che (non) hanno fatto, che siano delinquenti, inetti o affaristi senza scrupoli poco me ne cale. Perché prendere in giro cittadini la cui unica colpa è stata quella di abitare a L'Aquila, farci i teatrini a favore di telecamera e “mangiarci” sopra (sia in termini di affari che in termini mediatici) è una delle cose più immonde che la mente umana possa concepire.