Shopocalisse e società McDonaldizzata


«Credi di avere tanti giocattoli?» chiede un padre alla propria bambina. «», risponde lei, come se ciò fosse la cosa più naturale del mondo. «E perché hai tanti giocattoli?» continua il padre. «Perché tu e la mamma me li comprate...e perché è Natale!»

Questa è una delle scene in qualche modo più emblematiche di “What would Jesus buy?” (“Cosa comprerebbe Gesù?”), il docu-film proposto da CurrentTv per la sua programmazione natalizia.
Sicuramente un documento che non passa certo inosservato, ma da Morgan Spurlock – che oltre ad esserne il produttore, è anche l'uomo che ha attentato alla propria vita con una dieta a base di McDonald's in “Super size me” - c'era da aspettarselo.

Il documentario (o docu-film, come appunto lo etichettano quelli della rete di Al Gore) segue per un mese il tentativo di redenzione delle masse del Reverendo Billy, al secolo Bill Talen, 58enne attore teatrale che da anni combatte contro le grandi corporation Usa ed il consumismo, vero fattore di identità sociale per l'umanità odierna.
Il Reverendo, come ogni buon reverendo americano che si rispetti, ha anche una Chiesa: la Church of Stop Shopping grazie alla quale, con l'aiuto di sua moglie, alcuni attori ed alcuni religiosi veri (che compongono il coro gospel con il quale si accompagna) combatte dal pulpito – spesso centri commerciali, negozi delle grandi catene americane (Starbucks, Disney, Wal-Mart) – la sua dissacrante guerra per esorcizzare il mito dello shopping sfrenato. Al grido di «Topolino è l'Anti-Cristo» - tanto da averlo anche crocefisso – non è difficile incontrare la sua platinata chioma, o il suo “$aving Bus” lungo la retta via. Quando non è in viaggio, lo si può trovare nella chiesa newyorkese di Saint Marks in the Bowery nell'Est Village, dove le sue prediche – basate principalmente su comandamenti come “il prodotto ha più bisogno di te di quanto tu non abbia bisogno di lui” o “comprare non è poi così interessante come non farlo” - diventano dei veri e propri show (con tanto di esorcismi ai poveri fedeli-spettatori). Il modo di porsi è quello dei veri predicatori americani – o di Beppe Grillo in Italia – pericoloso e al contempo stupefacente cancro americano.

Non è un reverendo vero, naturalmente, ma la maschera di Rev. Billy è utile a combattere le nuove cattedrali del consumo (centri commerciali, ipermercati, catene di negozi etc...), come le ha definite George Ritzer – uno dei massimi esperti di teoria sociale e critico della cultura contemporanea – le quali ci “costringono” a consumare beni e servizi.
Quella religiosa, se ci pensiamo, è un ottima metafora per definire la società moderna, tribalizzata in gruppi dove la differenza etnica non è più definita dal colore della pelle o dal luogo di nascita, ma dal centro commerciale dove si fa la spesa quotidianamente o dalla banca con la quale si ha la carta di credito.
Luci, colori, personaggi sorridenti creano quel mondo – quello da “principessa delle favole Disney” - in cui le grandi corporation ci spingono ogni giorno. E proprio la tanto decantata Disney, gioia delle madri (che possono tenere i propri figli occupati tra Bambi, Alladin e Pocahontas mentre fanno le faccende di casa) e disperazione dei padri (o per meglio dire dei loro portafogli) rappresenta il principale nemico da abbattere in questa crociata del XXI secolo portata avanti – con l'ironia – da personaggi come Rev.Bill e con serietà – sia nei contenuti che nei modi – da persone come Naomi Klein e tutto il movimento anti-globalizzazione.
Perché se la facciata della Disney è quella che tutti conosciamo, quel che c'è dietro è un po' diverso: se a Disneyland non mancano sorridenti riproduzioni plastificate di Topolino, Paperino, il Re Leone, dall'altra parte del globo, in zone come il Vietnam, la Birmania, Haiti, vengono prodotti abiti e gadget vari – questi ultimi spesso associati non per caso ai “gustosi” panini McDonald's – da giovani lavoratrici poco più che 15enni, per qualcosa come 20 centesimi l'ora. Per loro, quello stesso paese incantato nel quale si portano i pargoli rassomiglia più al castello della strega cattiva.

«Sono aziende che sfruttano la manodopera. Non ha senso comprare un regalo di Natale che ha dietro la sofferenza di chi lo ha fabbricato. Quello che è un male per le persone laggiù diventa un male anche per noi. Là è il lavoro schiavistico, qui è il modo in cui decadiamo nel più stupido consumismo, nel rimbambimento da pubblicità e nella depoliticizzazione. Vaghiamo come turisti nella nostra stessa vita», dice Rev. Billy.

«Questo è un posto abusivo. È atterrato nel quartiere come un alieno venuto dallo spazio con la sua falsa aria bohemien e il latte fresco geneticamente modificato. Ma la buona novella è che non abbiamo bisogno di tutto ciò», osò dire una volta nel tentativo di esorcizzare la cassa di uno Starbucks, il gigante del caffellatte e derivati made in Usa che, per far fronte alle sue incursioni, ha creato – insieme alle altre sue vittime – un memorandum ufficiale, da distribuire ai suoi dipendenti, dal titolo “Che cosa fare se Reverendo Billy compare alle casse”, che Talen ha reputato così autopromozionale da appropriarsene per un suo libro (questa è forse la “pecca” principale del rev: quella di produrre libri e dvd delle sue imprese, ma è pur sempre un attore, non gli si può certo chiedere di campare con le offerte dei fedeli. D'altronde è la stessa tecnica del “nuovo santone dell'Antisistema” italiano, cioè Beppe Grillo...)

Se i modi sono pittoreschi – d'altronde stiamo sempre parlando di un attore – il suo messaggio è decisamente serio, ed è ormai sostenuto da un gran numero di persone. Una volta, nel periodo immediatamente successivo alla battaglia di Seattle del 1999 – data in cui ricade “ufficialmente” la nascita dei primi movimenti anti-globalizzazione – chi si prodigava in queste opere di redenzione veniva etichettato come un no-global (che, grazie al circuito mediatico mainstream – al cui vertice ci sono quegli stessi uomini e quelle stesse imprese multinazionali – sono entrati ormai nell'immaginario comune come meri terroristi spacca-vetrine). Oggi, invece, si può tranquillamente parlare di cittadinanza informata.

Come viene esplicitamente detto nel docu-film, nessuno vuole la morte del consumo, d'altronde non stiamo certo parlando di dinosauri, ma un consumo diverso, critico e ponderato, con un ritorno ad un consumo dal volto umano, per così dire. Cosa significa questo? Innanzitutto tentare di far girare l'economia intorno al luogo in cui si vive, ad esempio facendo sì che i profitti americani rimangano in America, che quegli italiani rimangano nel nostro paese e così via, permettendo così al paese di avere tutto ciò di cui ha bisogno, eliminando al contempo il concetto stesso di “azienda multinazionale".
Una sorta di autarchia, insomma. Quella stessa autarchia che permetterebbe così a me – consumatore italiano – sia di sapere, magari anche tramite la conoscenza diretta, chi produce ciò che mangio, di cui mi vesto o che adopero, e sia di evitare di far entrare nel mio paese produzioni pericolose (il caso del latte avvelenato prodotto in Cina, con tutto ciò che avrebbe potuto comportare una sua commercializzazione su scala mondiale credo sia ancora nell'immaginario dei più).

Disobbedienza commerciale. Potremmo definirla così l'opera messianica di Rev.Billy e dei tanti che – come il sottoscritto – credono che un altro consumo sia possibile, parafrasando lo slogan più famoso del movimento no-global.

Disobbedienza che, nel caso di Bill Talen, è resa possibile anche grazie a nuovi modi di comunicare, come il cultural jamming, il guerrilla marketing ed i flash mob, fenomeni spesso creati da quegli stessi Padroni della Società dell'Opulenza contro i quali tali metodi si abbattono.

Un flash mob è una aggregazione spontanea di persone, organizzata in rete, che si incontrano da qualche parte per inscenare qualcosa prima di dileguarsi rapidamente (come fanno Rev.Billy e i suoi aiutanti). Organizzandosi tramite i nuovi mezzi di comunicazione – sms, e-mail, social network – queste persone decidono un punto in cui ritrovarsi per fare qualcosa di cui, solitamente, conoscono i dettagli poco tempo prima di iniziare. Tra i più famosi flash mobs ci sono il pillow fight (la battaglia di cuscini) e lo zombie walk (dove le persone si comportano – anche usando abbigliamento e trucco – da zombie), ma chiunque abbia un'idea su cosa fare con un'imprecisata massa di persone può dare il via ad un flash mob. È stato inizialmente utilizzato come forma di promozione virale dalle grandi aziende (come il flash mob targato Nokia alla salaborsa di Bologna), ma si è presto sottratto al giogo del suo creatore per diventare – anche – fenomeno politico. Nel film “Battle to Seattle” - sulla nascita del movimento no-global – il flash mob viene contestualizzato in chiave politica, tramite il blocco del traffico creando dei cerchi di persone agli incroci delle strade per arrivare al luogo dove si riuniva il WTO.

Con il termine guerrilla marketing – introdotto da Jay Conrad Levinson nel 1982 - si intende quella tattica di comunicazione che punta tutto sull'impatto, giocando quindi sulle corde emotivo-cognitive dell'utenza finale. Lo scopo di un'operazione di guerriglia marketing è quella di inoculare nel sistema virus in grado di moltiplicarsi nella mente dei consumatori. Proprio per questo – appunto – ha bisogno di un forte impatto (e quindi di un modo di comunicare originale), perché la sorpresa e lo spiazzamento ingenerati nel consumatore generano passaparola, ed il passaparola è il mezzo di trasmissione del virus. Proprio per questo la guerriglia viene fatta in luoghi e posti dove l'advertising consciousness (cioè la consapevolezza di trovarsi di fronte ad un fenomeno pubblicitario) è più bassa. Essendo una tecnica di guerriglia – cioè di un tipo di lotta armata tra un esercito regolare e piccole formazioni irregolari – è a basso budget, proprio perché i guerriglieri, come d'altronde insegnano i libri di storia, dispongono di risorse (sia economiche che militari) inferiori rispetto all'esercito che fronteggiano. Per questo – così come la guerriglia militare – il guerrilla marketing si sviluppa con attacchi brevi ed improvvisi (i sabotaggi e le imboscate della guerriglia propriamente detta). In termini di contro-guerriglia, e quindi in funzione “anti-multinazionale” o comunque anti-consumistica, si basa sulla distruzione semantica dei brand values, cioè di quei valori (anche “etico-morali”) di cui il brand – la marca - si fa portatore sano.
Avendo come obiettivo specifico la sfera psicologica, la buona riuscita di un'operazione di guerrilla marketing dipenderà dall'efficacia della narrazione, cioè della “sceneggiatura” (con tanto di definizione dei personaggi e delle ambientazioni) dell'azione di guerriglia. Più essa sarà efficace, infatti, più riuscirà a coinvolgere l'utente finale (che si chiami poi consumatore, spettatore o altro è irrilevante), al quale rimarrà più facilmente in memoria ciò a cui ha assistito, che è lo scopo di questo tipo di marketing virale (perché se ti rimane in memoria vuol dire che sei in grado di raccontarlo ad altri, producendo così quel fenomeno di passaparola sul quale si basa questa azione).

Se il guerrilla marketing pone l'accento sulla forza della sua sceneggiatura, di contro il culture jamming – o cultural jamming (“sabotaggio culturale” in italiano) – si prefigge lo scopo di porre il consumatore di fronte alla pervasività dei messaggi pubblicitari veicolati dai mass media tramite la de-costruzione dei testi, la de-testualizzazione di parti di quei messaggi, per inserirli poi in contesti semantici completamente diversi, dove il risultato – cioè i valori del messaggio – risultino mutati o, come nella maggior parte dei casi, addirittura capovolti. Il termine culture jamming è stato ideato dalla band musicale plagiarista (non c'è bisogno di spiegare cosa significhi) Negativeland nel 1983. Attraverso il paradosso, l'alterazione semantica, l'ironia, il sabotatore culturale crea una discrasia tra i valori originari del brand e i valori percepiti dal consumatore. Ed è proprio in questo gap che si gioca la riuscita o meno del sabotaggio. «Lo scopo di tale azione» si legge su Adbusters.it, il sito del gruppo canadese di cultural jammers più importante «è quello di evidenziare le strutture del potere e valori socialmente, ecologicamente e culturalmente negativi che si annidano nel mondo della comunicazione e in particolare nei messaggi pubblicitari delle grandi corporations globali».
L'idea alla base del sabotaggio culturale è quella di far prendere coscienza al consumatore, svegliandolo – come fa Rev. Billy con i suoi sermoni ed i suoi esorcismi – dalla situazione di consumatore passivo, trasformandolo in un consumatore attento e critico, che si tratti di consumi commerciali (quelli combattuti dal reverendo) o mediatici (quelli a cui si rivolge più propriamente questo tipo di azione comunicativa).

Non è necessario possedere uno spirito guerrigliero per evitare un mondo a misura di McDonald's, basta capire che il consumo può essere inteso come un'azione di natura politica, e – come tale – deve essere fatto in maniera critica (così come, in maniera critica, ci si avvia alle urne). Altrimenti la Shopocalisse si abbatterà su di noi!