Super Santos clandestini

Com'era bello giocare a pallone quando si era bambini. Quelle partite che iniziavano la mattina e terminavano – quando terminavano, visto che c'erano sempre contestazioni degne de “Il processo di Biscardi” - la sera, quando ormai nemmeno le luci della piazzetta riuscivano più a stare dietro a quelle ombre che, in un quadrato d'asfalto, in un giardinetto con quattro fili d'erba giocavano a fare i calciatori importanti, dove uno spazio tra quattro motorini, un paio di macchine e qualche finestra (che il più delle volte finiva in frantumi, per la gioia di chi doveva ripararla) diventava San Siro, il Maracanà, il Camp Nou o il Bernabeu, abitati da un imprecisato numero di Roberto Carlos – che quando ero piccolo io andava per la maggiore – Raul, Rivaldo, Kluivert, Christian Vieri o Del Piero (chissà se il n°10 juventino è ancora di moda o è stato sostituito da Messi e Cristiano Ronaldo...).
C'erano due regole, quando ci giocavo io, diciamo dieci, quindici anni fa: i brocchi in porta e chi faceva andare il pallone fuori campo (che fosse su un balcone, in mezzo alla strada o in qualunque altro posto era indifferente) se lo andava a riprendere. Già, il pallone.
All'inizio era il “famigerato” Super Santos, quel pallone con cui era inutile escogitare traiettorie di tiro: tu pensavi di tirare a destra e quello, puntualmente, come per una strana forma di antipatia nei tuoi confronti, se ne andava a sinistra. Credo sia stato l'incubo per una generazione intera di giovani palloni d'oro in erba, quel pallone. Fortunatamente poi capirono che era l'ideale per giocarci a pallavolo e a noi maschietti veniva comprato il pallone di cuoio, quello che automaticamente ti dava la “promozione” tra i grandi. Una sorta di passaggio in serie A in pratica. C'erano due cose che contavano, quando si giocava a pallone da piccoli: se – come me – venivi da una scuola calcio, cosa che automaticamente ti faceva diventare uno dei giocatori più forti, anche se non eri capace di fare tre palleggi in fila, e inventarsi le prodezze (le “mosse alla brasiliana” le chiamavamo noi) per impressionare la ragazzina che ti piaceva, perché nonostante non ci fossero spalti e ogni spettatore rischiava la vita a guardare una partita di strada, c'era sempre qualcuno che veniva a fare il tifo, e quando non c'era solitamente si costringevano le ragazze del gruppo a fare le clacque.
Credo funzioni ancora così, in quel gioco universale che è il calcio. Da Eusebio a Cristiano Ronaldo passando per Stefan Schwoch (giocatore che fece felici i tifosi del Napoli alcuni anni fa e che per molto tempo divenne il mio alter-ego su quei campi d'asfalto e pietre che frequentavo d'estate.
Con una fortuna un po' diversa, ma questa è un'altra storia) non c'è stato un calciatore che non sia stato impersonato da noi giovani bambini che riproducevamo i campionati più importanti del mondo 24 ore su 24, sette giorni su sette. Quando si è bambini è bello sognare con poco.

Noi sognavamo di giocare nei più grandi stadi d'Europa e del mondo, ad altre latitudini magari il nome del posto in cui giochi è irrilevante. Alla fine basta giocare. E non importa se la tua carriera inizia nella piazza del quartiere, su una spiaggia di Rio o in un campetto di una scuola calcio. Il tuo sogno è sempre quello, che tu sia brasiliano, argentino, italiano o africano: giocare in una grande squadra.
E allora capita che alla piazzetta, al posto delle ragazzine da conquistare ci siano altri personaggi da conquistare, come succede ad Evans Square, nel quartiere Oniyngbo a Lagos, Nigeria, dove tanti e tanti ragazzi vanno a guadagnarsi 5 euro per tirare quattro calci ad un pallone nella speranza che uno dei tanti procuratori si invaghisca di te così, come da piccolo speravi che lo facesse la bella del quartiere. Anche “Oba Oba” Martins, l'ex attaccante dell'Inter, ha iniziato così. Lui è stato fortunato, fa parte di quel 5% di giovani calciatori africani che non fanno parte della “tratta”. Uno di quei pochissimi eletti che hanno trovato un procuratore “vero”. Perché per la maggior parte di questi ragazzi, spesso, il sogno di giocare in uno stadio vero, con una maglia importante e degli scarpini veri si trasforma presto in un incubo.
Freddi, Fela, Cedric, Cyrill. Arrivati in Europa praticamente bambini – 15 o 16 anni l'età media, ma non sono rari i casi di bambini di 7 o 8 anni – e costretti a diventare subito grandi da quell'Europa che non ne vede i sogni, i desideri ma che li considera solo come “macchinette sforna-soldi”, come quelli che questi sedicenti procuratori chiedono (di fatto rubano) ai loro genitori con l'imbroglio di una vita migliore. Perché quando nasci in Africa il pallone diventa una delle poche vie di fuga, diventa una delle poche vie per una vita migliore per tuo figlio. Ed ogni genitore, a qualsiasi latitudine, del Nord o del Sud del mondo, vuole una vita migliore della sua per i propri figli.
Come Gloria, una mamma ghanese, che per comprare un futuro migliore a suo figlio, sotto forma di un paio di scarpette da calcio, non ha esitato a vendere il televisore. In attesa che suo figlio ripaghi questa fiducia.
Ma spesso quei figli d'Africa non mantengono la promessa, non riescono ad essere quel sostentamento che milioni di madri e di padri africani vedono in loro, e la vergogna di un ritorno da “fallito” a casa è troppo grande, anche se quel fallimento non è dipeso da te. Succedeva anche in Italia molti anni fa, quando giovani donne e uomini si spostavano dalle campagne del Mezzogiorno per cercare fortuna nel “ricco” Nord, quando fallire non era un'opzione contemplata.

In termini storici la “tratta dei baby calciatori” ha origine abbastanza recente, quando le prime squadre africane, in particolare della zona occidentale, iniziano a farsi notare nelle competizioni giovanili. Siamo negli anni '80. Da quel momento il continente nero conosce una nuova forma di colonizzazione. Proliferano le scuole calcio - in alcuni casi punta di un iceberg che comprende, oltre all'aspetto “sportivo” anche affari più importanti sul piano economico, come lo sfruttamento delle risorse di quelle terre – si inviano loschi figuri che si accordano con fantomatici procuratori, presidenti di squadre calcio (che un anno vincono il campionato e l'anno successivo retrocedono) e burocrati da quattro soldi, fanno incetta di giovani speranzosi e li portano in Europa, dove dovranno fare i conti con le leggi sull'immigrazione e, in Italia, andranno a rimpinguare la folta schiera di lavavetri o di manovalanza per la criminalità.
Molti giovani vedono la loro “carriera” di futuri non-calciatori partire da Accra, capitale del Ghana e di questi traffici o da Busua, non lontano dal confine tra Ghana e Costa d'Avorio e transitano per il Belgio, nazione in cui l'allegria della legislazione sportiva comporta meno problematiche per i trafficanti. Uno di questi è il numero uno dell'Afm (l'African Football Management), l'italianissimo Domenico Ricci, accusato – da Antonio Matarrese – di essere un vero e proprio mercante di schiavi e di applicare «logiche colonialiste e senza scrupoli» (da Issa Hayatou, presidente della Caf, la federazione calcio africana). Ricci rigetta queste accuse, per lui il suo è quasi un atto di carità, in quanto grazie alle sue tre scuole calcio e mettendo in vetrina i suoi gioielli dà una possibilità a questi ragazzi di farsi una vita in Europa. Da calciatore in serie A o da lavavetri è solo un “sottile” dettaglio.

Già, l'Italia. Noi quando c'è da fare qualcosa di losco, di illegale, chissà perché siamo sempre in prima fila, perché – come dice Luigi Agnolin, ex arbitro – di quel traffico non solo siamo stati tra i clienti più affezionati, ma lo abbiamo addirittura iniziato. Pare che questa pratica ebbe inizio, sul finire degli anni '80, quando una non meglio identificata società del Nord Italia acquistò tre giovanissimi calciatori in Ghana (io credo di aver individuato sia la squadra che i calciatori, ma non avendone prove evito di fare quelle che sarebbero solo illazioni). Dopo qualche anno, di loro non si sa più nulla. Né di loro né dei tantissimi giovani che hanno la “fortuna” di incontrare questi venditori di sogni.

Come si evolve la carriera di un "baby-schiavo". I giovani vengono prelevati da quei campi ad hoc - come quello di Lagos - da personaggi le cui organizzazioni hanno base in Europa. Nella maggior parte dei casi hanno 15/16 anni, età che non gli permette di avere un vero contratto con una squadra, per cui se uno dei tanti provini a cui sono sottoposti va bene, le società che li hanno tesserati li mandano in prestito, così gli agenti gli fanno firmare due contratti, con una scadenza che spesso arriva fino a 10 anni: uno è il contratto "ufficiale", quello per la federazione calcistica di riferimento, l'altro - quello "ufficioso"- scritto direttamente a mano, con le reali condizioni di sfruttamento. In questo traffico sono coinvolte gran parte delle principali squadre europee. Persino l'Ajax, il team olandese che fa del vivaio il sul principale punto di forza, si è visto comminare una multa di 10.000 euro per aver pagato alcuni giocatori africani al di sotto del minimo salariale. Entrano in Europa con documenti falsi - che gli vengono poi rubati dagli stessi "scafisti", che poi li utilizzeranno nel traffico successivo - spacciati spesso per loro parenti (un modo come un altro per fregare il "decreto flussi"...). Hanno dai tre ai sei mesi per trovare un ingaggio - il tempo della durata del visto turistico con il quale vengono fatti sbarcare nel nostro continente - poi vengono abbandonati a loro stessi, andando ad aumentare la folta schiera di chi, per campare, è costretto a sbarcare il lunario in qualsiasi modo, lecito od illecito è indifferente. Basta non tornare a casa. Basta non far vedere a parenti ed amici il loro fallimento.
Non hanno documenti, e non possono richiederli perché sono entrati in Europa da clandestini, e poi li ritrovi a Foggia, a Rosarno o in alcune zone del Nord-Est della penisola a raccogliere pomodori, arance o a lavorare – sottopagati, naturalmente – nelle ditte che portano avanti l'economia del “ricco” Nord.
I giovani africani si ritrovano, così, da un mercato illegale ad un altro, passando dai talent scout e dal sogno di inquadrare la porta negli stadi più prestigiosi ai caporali ed alle ceste di pomodori ed arance, senza che nessuno si preoccupi di andare a colpire questi due tipi di “mercato”. Perché il calcio, come il lavoro nero, è un business. E come dicevano i vecchi italiani di ritorno dall'America, in quel misto tra inglese e italiano che li contraddistingueva: “' o businiss è 'o businiss”. Chissà quanti Palloni d'oro c'erano a Rosarno...