Parole rivoluzionarie

"Il mondo così gestito non funziona. Che fare?".

Buttata lì così questa domanda potrebbe sembrare una di quelle da quiz televisivo del pre-cena, di quelle in cui ti trovi Mike Buongiorno o Gerry Scotti che ti traghettano fino al tg. Oppure, più sbrigativamente, qualcuno risponderebbe “e io che ne so?” e continuerebbe tranquillamente a guardare le vetrine per le vie del centro.

Eppure questa domanda – fatta da una persona dall'intelligenza decisamente acuta e che ha sempre spunti molto interessanti (per chi se lo stesse chiedendo: no, non sono io quella persona...) - ci pone davanti ad un problema che abbiamo già scordato, probabilmente presi nello zapping televisivo di fine agosto.
Questa domanda viene da una considerazione di un “mostro” come Jacques Attali (che io sinceramente vorrei come “eminenza grigia” della sinistra nostrana) su Internazionale, nella quale si diceva come non si debbano imputare i mali del mondo ad una alquanto folkloristica “teoria del complotto”, ma ad una decisamente più semplice perdita del controllo da parte dell'uomo dei sistemi da egli stesso creati.

E' proprio questo quel che nessuno, né ministri ex-mercatisti convertiti al no-globalismo come Tremonti (mi chiedo solo se davvero abbia capito cosa vuol dire essere un “no-global”) tantomeno i sancta sanctorum capitalisti, sta evidenziando: il modello di mondo che fino ad ora è stato pensato, ideato e messo in pratica sta passando a miglior vita. E' finito. Ma nessuno sembra volersene rendere conto. Il modello per cui per anni ci hanno fatto vivere sotto l'”effetto dotazione”, cioè sotto quell'effetto per cui più hai più sei, quel senso di accettazione della società non basato sul nostro “sapere”, sul nostro “essere”, ma sul nostro “apparire”, che in molti casi diventa “ostentare” non è più valido per le sfide che il terzo millennio ci chiama ad affrontare.

Se ci pensate – questo è un discorso un po' “folle”, me ne rendo perfettamente conto – questo modello si fonda su una convenzione. Niente di più, niente di meno. Questa convenzione, che è poi anche lo status con cui ti crei il tuo posto al sole nella società dell'illusorio, è il dio denaro. O meglio: è il significato che, per convenzione, da secoli diamo a dei semplici pezzi di carta. Con ciò non voglio dire che la soluzione migliore sia il ritorno al baratto, anche se ci vedo più di un vantaggio. Ma siamo ormai nel III millennio, ed ogni sistema nasce e muore in un tempo specifico. Però potremmo iniziare a dar meno importanza a quei pezzettini di carta. Potremmo iniziare a non considerare più la ricchezza individuale come il fulcro delle nostre esistenze sociali.

…Perché il nucleo del fallimento e dello sfruttamento dell’uomo sta nell’illusione di un’emancipazione culturale avvenuta attraverso il lavoro come bestie da soma e successivamente come consumatore provetto ed incanalato sull’odierno low-cost rovesciato sul mercato in abnormi quantità. [Marco Paolini]


E' questo, oggi, che dovremmo combattere. Come? Semplicemente creando un nuovo modello. Voglio dire: converrete con me – basta prendere un semplice libro di storia per rendersene conto – che tutti i modelli di società che la storia ci ha dato, dall'impero romano fino ai giorni nostri, hanno avuto una fase semi-ciclica basata sulle tre fasi della vita umana: nascita-sviluppo-morte. E così è anche in questo caso. Ma il problema, forse, non è " come cambiare le cose". Il punto è "cosa cambiare e in quale direzione".

Non ho velleità di dire che conosco il modello migliore per un fantomatico “nuovo mondo”, anche perché se lo conoscessi probabilmente non starei qui a scrivere su una tastiera. Però la direzione credo di poterla indicare. Andiamo a Sud. Precisamente in Sudamerica, da dove trovo ci siano molti modelli di sviluppo che potremmo analizzare. C'è una cosa che ho sempre adorato nel modo di fare politica dei sudamericani: il loro senso di "comunità", il loro senso di politica intesa come "solidarietà", come senso di appartenenza in un qualcosa che non premia mai - o quasi mai - il singolo. Se è una cosa fatta bene il merito è di tutti. Se è fatta male idem. Ed è proprio quando leggo le esperienze politiche dei sudamericani che mi chiedo se davvero un altro mondo sia possibile. Se guardo all'Occidente francamente mi viene da dubitarne. Come dice Angel Luis Lara:

"Il capitalismo è nato grazie a una enorme recinzione di terre, un immenso furto e saccheggio che fabbricò il proletariato, molti anni fa. La parola cultura è nata anch’essa moltissimi anni fa. Quando nacque, faceva parte di un’altra parola più grande:agricoltura. Non dimentichiamocene. Oggi più che mai è necessario che ci trasformiamo in contadine e contadini del comune."


Oggi più che mai è necessario che ci trasformiamo tutti in contadine e contadini. Ciò non vuol dire solo un ritorno fisico alla Pachamama, alla Madre Terra. Non significa solo – ad esempio – cominciare a stare più attenti a quel che compriamo e a quel che quotidianamente portiamo in tavola. Fate questo piccolo esperimento, così capirete bene a cosa mi sto riferendo: andate in cucina aprite il frigorifero e fate la lista di quel che proviene da zone vicino a voi e di quel che proviene da lontano, da altre città o addirittura da altri continenti. Quasi sicuramente noterete una forte disparità tra quel che avrete acquistato “dietro l'angolo” e quel che si è fatto chilometri e chilometri in aereo (consumando quantità assurde di petrolio) per arrivare sulle vostre tavole. In questi ultimi anni sono venuti fuori almeno due concetti “rivoluzionario” per quanto riguarda questo aspetto e che però sono ancora visti come un qualcosa di strano, fatto da quelli un po' fuori di testa: “filiera corta” e “spesa a km zero”. Che in parole povere vuol dire comprare direttamente dal produttore e che possibilmente non abiti (od eserciti) la sua attività troppo lontano da casa nostra. Questo avrebbe nell'immediato due vantaggi: abbassamento dei prezzi ed abbattimento dell'uso del petrolio, con un sentito ringraziamento da parte del nostro pianeta (ed anche del portafogli...).

Questo localismo, qualcuno obietterà, nell'epoca della globalizzazione non è possibile. E forse tutti i torti non ce li ha. Ma se ci pensate, il poter avere tutto più o meno vicino ha anche un altro vantaggio: un maggior tempo libero. Che si trasforma in un maggior tempo da dedicare ai propri interessi, magari andando al parco a fare due chiacchiere o dedicandosi alla comunità in cui si vive. Ecco un altro aspetto che adoro dei sudamericani: il loro anteporre la comunità al singolo. Il loro considerarsi tutti pezzi necessari di uno stesso ingranaggio, di uno stesso progetto comune. Noi oggi invece – nati e cresciuti in una società individualista – a malapena salutiamo il nostro vicino di casa.

Interessarsi al bene della propria comunità, e quindi attivarsi per migliorarlo, vuol dire – in ultima analisi – attivarsi per il proprio bene, attivarsi per migliorare la propria condizione. Vuol dire agire su un qualcosa di globale (come appunto la comunità, intesa nella più generale accezione di “comunità-mondo”) attuando delle politiche locali. Vi faccio un esempio pratico: i No Tav. La loro lotta – lotta locale, ricordiamolo – per evitare che treni a 300 km/h gli transitino in salotto ha dei vantaggi per tutta la comunità, perché, ad esempio, bloccando quei lavori si evita di far traforare le montagne, di prosciugare piccoli fiumi o comunque altre deturpazioni ambientali, di cui un paese a forte cementificazione come il nostro non ha sicuramente bisogno. Globale e locale. Vi dice niente? Sommando globale e locale viene fuori un termine – che il nostro Ministro dell'Economia “no-global” dovrebbe per questo conoscere – che è “glocale”. Un termine che adoro e che ha una potenza semantica secondo me sconvolgente.
Perché attuare dei modus vivendi glocali non riguarda solo quel che si mette in tavola, solo l'aspetto economico. Esiste un tipo di glocalismo "sociale", o "socio-politico" che dir si voglia, nel quale due concetti la fanno da padrone: rete e connessione. Intendendo così sia la rete che - ad esempio - mi permette scrivere su un blog, e che potrebbe essere utilizzata per digitalizzare (altra parolina magica) gran parte della nostra vita "cartacea" (giornali, comunicazioni dalla banca o da chi volete voi...); sia - soprattutto - come reti e connessioni tra persone. In questa ultima parte di articolo è venuta fuori un'altra parola “rivoluzionaria”: comunità (e senso di.).
Ecco che qui già una risposta al “come fare?” iniziale la possiamo quantomeno abbozzare. Tornando alla comunità. Tornando a dar peso – sia in chiave sociale come abbiamo visto fin qui che in chiave politica – alla comunità. Abbiamo avuto un tempo un esempio perfetto di come la comunità possa auto-svilupparsi, senza seguire dei leader che tengano il timone. Perché anche il seguire un leader è, secondo me, uno degli effetti della società illusorio-individualistica nella quale viviamo. E' da un po' che mi pongo la domanda se davvero ve ne sia bisogno di “leader a condurre le masse”. E senza voler sfociare nell'anarchia alla Malatesta, direi che possiamo evitare di avere dei leader, ma ad un patto. Un patto che è la vera sfida dei tempi moderni: tornare ad interessarci attivamente a quel che ci circonda. E questa, nel mondo cresciuto a pane e telecomando, più che una missione difficile è una missione impossibile.

Arrestata Mireya Figueroa, leader del popolo mapuche.

Comune di “Pedro Aguirre Cerda”, Santiago del Chile (Cile) – dopo oltre 5 anni in cui viveva in clandestinità, nei giorni scorsi è stata arrestata la lamien (sorella) Mireya Figueroa Araneda, leader della comunità mapuche Tricauco, la cui colpa – secondo la non certo equa giustizia cilena - è quella di aver presumibilmente partecipato all'”incendio terroristico” del dicembre 2001 del fondo Poluco Pidenco di Ercilla, regione della Araucanía (Cile). La detenzione di lamien Mireya è profondamente ingiusta, non solo perché con i suoi fratelli lotta per riprendersi qualcosa che le appartiene di diritto, ma anche per le precarie condizioni di salute in cui grava (soffre di diabete ed ha un tumore al seno in fase terminale) e che solo negli ultimi giorni sono state prese in considerazione dal giudice che le ha finalmente concesso la possibilità di un ricovero ospedaliero.

Come tutti i processi politici – e chi di voi conosce la storia del nostro paese degli anni '70 dovrebbe saperlo – anche la carcerazione dei leader del popolo mapuche è ingiusta, fatta tramite processi sommari (vengono addirittura utilizzati testimoni a volto coperto, e quindi probabilmente prezzolati dallo stato cileno) al fine di fiaccare la resistenza di questo popolo, che da 500 e più anni, dai tempi dei conquistadores, lotta per la propria terra e per il proprio diritto alla vita. (qui trovate una “biografia” del popolo mapuche).

Loro sono dei weichafe nell'anima, sono dei guerrieri. Come d'altronde lo sono molti dei popoli indigeni del Sudamerica. Lottano con ogni mezzo per riprendersi la terra strappata dal colonialismo borghese e regalata ai "signor padroni", che negli ultimi anni altro non sono che le infami multinazionali, fautrici di un nuovo imperialismo coloniale del III millennio. Chiedono solo che la comunità internazionale si schieri con loro, in una lotta impari di cui spesso neanche si parla.

Noi “occidentali” forse non potremo fare molto per aiutarli, non potremo effettivamente combattere al loro fianco. Ma credo che già iniziare ad interessarsi – in maniera più o meno attiva – alla loro storia, innanzitutto raccontandola, possa essere un primo passo per forgiare dei nuovi weichafe. Dei nuovi guerrieri. In modo da sentirli urlare ancora marrichiweo!!! (dieci volte vinceremo!!!)

Approfondimenti:




qui il video per gli amici di Facebook: http://www.youtube.com/watch?v=4RlEmdxWCcQ

Morire di Pace (esportata...)

«Vorrei che tutti fossero vestiti con abiti allegri e colorati. Vorrei che, per non più di trenta minuti complessivi, mia moglie, i miei figli, i miei fratelli e miei amici più stretti tracciassero un breve ritratto del caro estinto, coi mezzi che credono: lettera, ricordo, audiovisivo, canzone, poesia, satira, epigramma, haiku. Ci saranno alcune parole tabù che assolutamente non dovranno essere pronunciate: dolore, perdita, vuoto incolmabile, padre affettuoso, sposo esemplare, valle di lacrime, non lo dimenticheremo mai, inconsolabile, il mondo è un po’ più freddo, sono sempre i migliori che se ne vanno e poi tutti gli eufemismi come si è spento, è scomparso, ci ha lasciati. Il ritratto migliore sarà quello che strapperà più risate fra il pubblico. Quindi dateci dentro e non risparmiatemi. Tanto non avrete mai veramente idea di tutto quello che ho combinato. Poi una tenda si scosterà e apparirà un buffet con vino, panini e paninetti, tartine, dolci, pasta al forno, risotti, birra, salsicce e tutto quel che volete. Vorrei l’orchestra degli Unza, gli zingari di Milano, che cominci a suonare musiche allegre, violini e sax e fisarmoniche. Non mi dispiacerebbe se la gente si mettesse a ballare. Voglio che ognuno versi una goccia di vino sulla bara, checcazzo, mica tutto a voi, in fondo sono io che pago, datene un po’ anche a me. Voglio che si rida – avete notato? Ai funerali si finisce sempre per ridere: è naturale, la vita prende il sopravvento sulla morte – . E si fumi tranquillamente tutto ciò che si vuole. Non mi dispiacerebbe se nascessero nuovi amori. Una sveltina su un soppalco defilato non la considerei un’offesa alla morte, bensì un’offerta alla vita. Verso le otto o le nove, senza tante cerimonie, la mia bara venga portata via in punta di piedi e avviata al crematorio, mentre la musica e la festa continueranno fino a notte inoltrata. Le mie ceneri in mare, direi. Ma fate voi, cazzo mi frega. Basta che non facciate come nel Grande Lebowski.»


Questo è quel che scriveva su una sua presumibile morte Enzo Baldoni, che potremmo definire “il morto sfigato”. No, niente velleità da burattini borghesi simil-Libero edizione 2004 della coppia Feltri-Farina (sì, proprio lui, Renato “Betulla” Farina...). Solo la constatazione – con 5 anni di esperienze in più – che in questo paese dal quale sempre più mi sento corpo estraneo se sei un mercenario al soldo degli occupanti in Iraq e fai vedere “come muore un italiano” (mi verrebbe da continuare questa frase, ma ai morti bisogna sempre portare rispetto...) ti proclamano “eroe” pur non sapendo per quali motivi. Se sei invece un copywriter con la passione per la nobile arte del ficcare il naso nell'attualità che ti circonda e sei anche pacifista nessuno si interessa a te. Un paio di dichiarazioni – magari dalla vacanza alle Maldive, come consuetudine del nostro Ministro degli Esteri di oggi e di allora (anno 2004) – e poi basta, che c'è da andare con le ragazzine o da dare del comunista al mondo intero.
Come al solito – come ogni volta che devo scrivere su chi non c'è più – non scriverò brevi bio su chi era o chi non era Zonker (questo il nickname che Baldoni usava nei suoi vari blog...), anche perché basta andare in rete – come ho fatto io, visto che non avevo una conoscenza diretta con Baldoni – per capire chi era e cosa faceva.

A 5 anni dall'uccisione (“ucciso dalla Pace” si potrebbe quasi dire...) mi sembrava però doveroso ricordare questo grande copywriter, giornalista e prima di tutto grande uomo, che entra di diritto nella categoria dei “disconformi”...

Non c'è niente da fare: quando uno è ficcanaso, è ficcanaso. E' insopprimibilmente curioso, gli interessano i lebbrosi, quelli che vivono nelle fogne, i guerriglieri. E poi non gli basta fare il pubblicitario, deve occuparsi anche di critica di fumetti, di traduzioni, di temi civili e perfino di robbe un sacco zen. Ma soprattutto di ficcare il naso dove i governi non vorrebbero: dal Chiapas alle fogne di Bucarest, dallo sterminio dei Karen birmani ai massacri di Timor Est, dal lebbrosario di Kalaupapa ai dissidenti cubani fino alle montagne della Colombia dove si annida il più potente esercito guerrigliero del mondo: le FARC

CIAO ENZO.

...perché il fatto non costituisce reato.

«se mi portano all'ospedale di Vallo, non ne esco vivo».

Sono quasi un epitaffio le parole pronunciate da Francesco Mastrogiovanni, il maestro ucciso presso il Servizio di Diagnosi e Cura Psichiatrico di Vallo della Lucania (Sa) nei giorni scorsi.
È follia, invece, tutta la vicenda che ne ha decretato il decesso. Ma andiamo per gradi.

Partiamo da molto lontano, dal 1972. Siamo sempre nella provincia salernitana, dove un giovane Francesco viene accusato – in collaborazione con Giovanni Marini – dell'omicidio del militante dell'MSI Carlo Falvella. Le dinamiche non sono mai state effettivamente chiarite. Ma si sa che essere anarchico – come lo era Francesco, e come lo sono stati molti assassinati dallo Stato fascista di cui il più famoso è stato sicuramente “l'Anarchico”Pinelli – per questo paese è una sorta di colpa “a prescindere”. Puoi essere anche la persona più buona e tranquilla del mondo, ma se sei anarchico qualcosa per cui incolparti la troveranno sempre. Ma questa è un'altra storia...
La conclusione di quella storia sono 12 anni per Marini ed una carcerazione per Mastrogiovanni, poi cancellata in appello. Se per la legge tornava ad essere un uomo completamente libero e riabilitato, non lo era certo nella sua mente, dove i fantasmi della carcerazione continuano a perseguitarlo.

Nel 1999 il secondo incontro tra il maestro anarchico e le forze dell'ordine. Mastrogiovanni viene arrestato per oltraggio e resistenza a pubblico ufficiale. All'epoca della requisitoria, il Pubblico Ministero ricordò più volte le convinzioni anarchiche dell'imputato, a sottolineare il carattere politico di quel processo. In secondo grado viene assolto per non aver commesso il fatto.

Dieci anni dopo, e siamo tornati ai giorni nostri, il terzo – e fatidico – round della “lotta” tra le forze dell'ordine e quello che era diventato un maestro elementare, non certo tranquillo – visto che spesso cadeva in depressione e si “accendeva” quando si parlava di politica – ma comunque amato dai suoi alunni e dai loro genitori.

Non so perché, ma a leggere questa storia non è il solo Pinelli a venirmi in mente. A venirmi in mente è anche Federico Aldrovandi, il 18enne ferrarese ucciso dalla polizia nel 2005. Se Pinelli, il famoso “anarchico caduto giù dalle finestre” come cantava Paolo Rossi, mi viene in mente per il versante politico, “Aldro” mi viene in mente per il tipo di omicidio perpetrato. Perché se il giovane ferrarese venne ucciso da poliziotti in versione Rambo («Qualcuno ha visto Federico immobilizzato, a terra, col ginocchio di un agente puntato sulla schiena e un manganello sotto la gola mentre l'altra mano del tutore dell'ordine gli tirava i capelli. » si legge nella pagina a lui dedicata sul sito Reti Invisibili.net), Mastrogiovanni è ufficialmente morto per edema polmonare provocato da un’insufficienza ventricolare sinistra. Su caviglie e polsi, però, i segni da contenzione, una delle procedure – legali – con le quali, nell'ambito del Trattamento Sanitario Obbligatorio (TSO) impongono che il paziente “particolarmente esuberante” venga letteralmente incatenato al letto per impedirgli di essere pericoloso.

Fin qui quello che si sa. Da qui inizia tutta una serie di buchi neri, di coni d'ombra che rendono questa morte non una delle tante relegate in qualche trafiletto di “nera”. Vediamo perché:

È il 31 luglio, e Francesco Mastrogiovanni è in vacanza al campeggio Club Costa di San Mauro Cilento. Ad un certo punto il caos. Un eccessivo dispiegamento di forze dell'ordine(un testimone dirà anche di personale “armato fino ai denti”) si presenta in loco per arrestare Mastrogiovanni, la cui colpa – apparentemente – è quella di aver preso una strada contromano ed aver tamponato 4 autovetture. Anche ammettendo che ciò fosse vero, visto che la sua auto è intatta, come diranno i parenti e gli avvocati, era necessario un dispiegamento di forze che non sarebbe stato utilizzato neanche per il capoclan della Camorra (utilizzando addirittura la Guardia Costiera...)?
Che ci sia anche qui una diversa motivazione per l'arresto? Che ci sia anche in questo caso la persecuzione di stampo politico?

A queste domande ancora non vi è risposta, l'unica cosa che si sa è che quello sarà l'ultimo incontro di Francesco Mastrogiovanni con le forze dell'ordine. Perché il 31 luglio viene spedito all'ospedale psichiatrico di San Luca. Trattamento eccessivo per uno la cui colpa è quella di aver solo tamponato 4 autovetture. Altrimenti ogni sabato sera sarebbero centinaia i giovani da mandare sotto TSO...

Alla stranezza di un eccessivo dispiegamento di forze per l'arresto e di un altrettanto eccessiva carcerazione – perché di questo si tratta – si aggiunge anche che nello stomaco di Mastrogiovanni al momento dell'autopsia non è stato trovato nulla, indizio che nei giorni precedenti al decesso il paziente non è stato nutrito. Di certo non poteva nutrirsi da solo, visto che caviglie e polsi erano legati al letto perennemente.
Sulla cartella clinica – poi minimamente- non viene citato il trattamento di contenzione , che assomiglia sempre più ad un vero e proprio trattamento di tortura. Ai parenti non sono state permesse visite. Decisione che non va certo a distendere gli animi in una faccenda che di normale non sembra avere assolutamente nulla.


I deputati radicali Rita Bernardini, Farina Coscioni, Maurizio Turco ed Elisabetta Zamparutti – gli unici che sembra abbiano a cuore qualcosa di diverso dalla poltrona – hanno fatto una interrogazione parlamentare urgente ai ministri degli Interni, Roberto Maroni, e del Lavoro, Salute e Politiche Sociali, Maurizio Sacconi, per chiedere un'ispezione all'ospedale di Vallo «per il trattamento inumano subito da Francesco» spiegano «e perché sia avviata un'indagine interna alle forze dell'ordine per quanto riguarda l'ingente, eccessivo spiegamento di forze dell'ordine per la sua cattura».

Ma sappiamo già come finirà:
Lo Stato si auto-assolve per non aver commesso il fatto”.

Perché nessuno si occupa dei Mapuche?



Si può essere arrestati per aver “rubato” dei fili d'erba? Si può essere, per questo, accusati di essere dei “pericolosi terroristi”?
Qui in Europa un'accusa del genere probabilmente farebbe ridere. Eppure succede, quasi quotidianamente, in Sudamerica, in un territorio tra il Cile e l'Argentina. Nella “nazione” dei Mapuche.
Il termine Mapuche deriva dalla lingua madre di questo popolo e significa “Popolo della Terra” (dal Mapudungun: Che: “Popolo” e Mapu:”della Terra”). E proprio dalla terra traggono la loro forza, il loro stesso modo di vivere. Ogni azione volta a danneggiare l'ambiente, infatti, viene vissuta come un'offesa mortale alla loro dignità. Si potrebbe dire che uccidendo l'ambiente si uccidono i Mapuche.
«Senza la terra, il mapuche non è niente, muore spiritualmente e culturalmente. Senza la terra, la machi (guaritrice) non può trovare le piante medicinali e cerimoniali, per curare la gente e per venerare le persone che sono tornate alla madre terra. Senza il lonko (campo della comunità) non può più esercitare il potere politico. Ricuperare le nostre terre vuol dire ricostruire il nostro popolo, il nostro territorio sacro, il nostro potere economico».
Dice Jorge Huenchllan, che è il werken (cioè il portavoce) di una delle tante comunità che compongono il popolo Mapuche.
Come si intuisce facilmente, questa popolazione vive di agricoltura, vide di e per la Terra.
Per questo, ogniqualvolta è arrivato qualche usurpatore, qualcuno intenzionato a togliergliela quella terra – e quindi a togliergli la loro stessa identità – hanno imbracciato le armi e si sono ribellati all'oppressore. È successo con la Corona Spagnola, che ha versato tanto sangue in Sudamerica ma mai quello Mapuche; succede oggi con le grandi multinazionali.
Immaginate una società millenaria che funziona perfettamente, sviluppata intorno al concetto di famiglia (seppur estesa, come i clan scozzesi resi famosi da film come Highlander) in cui le figure preminenti sono il “lonko” cioè il capo-famiglia e lo sciamano. In tempi di guerra i lonko delle varie famiglie lasciano il posto ad un “toqui” (portatore d'ascia). Immaginate che questa stessa società – che geograficamente si identifica tra il fiume Aconcagua (Cile) e la pampa argentina – si risvegli un bel giorno tra trivelle e macchinari pronti a stuprarne il territorio.
Perché è esattamente questo quello che succede ogni giorno. Negazione della propria identità e sottrazione delle proprie terre sono i problemi principali di quella che è considerata ormai una minoranza etnica, e nemmeno internazionalmente riconosciuta.
Oggi il fiero popolo Mapuche è circoscritto in riserve (la c.d. politica della “riduzione” ha fatto sì che gli stati nazionali pagassero cittadini europei per andare a coltivare le terre fino ad allora erano state dei Mapuche, i quali sono considerati dal Potere “gente pigra, ignorante e dedita all'alcol” e non so perché, ma questo trittico mi ricorda qualcosa al di qua dell'oceano. Ma questa è un'altra storia...). È un po' quel che è stato fatto con gli Indiani d'America all'arrivo dell'usurpatore europeo o quel che avviene con i palestinesi, ai quali ogni giorno viene rubata la loro terra.
«Noi crediamo fortemente che sia la gente ad appartenere alla terra e non la terra ad appartenere al popolo»
dice Juana Pailallef, e credo non ci sia miglior modo per spiegare la loro concezione dell'ancestrale rapporto tra l'uomo e la terra.
Per colpa delle multinazionali, e dell'asservimento ad esse di uno governo che sembra riadoperare le stesse metodologie dell'era Pinochet, oggi la terra a disposizione delle famiglie Mapuche si aggira intorno ai 3 ettari cadauno da coltivare, appena sufficienti per nutrire e sostenere l'educazione dei figli e che, a furia di essere coltivata sta diventando quasi sterile. Il risultato di queste politiche di “modernizzazione” portate avanti dal capitalismo fascista crea così il forte problema della malunitrizione, che li spinge – come nelle migliori campagne di emigrazione verso l'“era moderna”- ad abbandonare le loro terre e stabilizzarsi – da popolo nomade – nei grandi agglomerati cittadini, dove svolgono lavori poco retribuiti quali manovalanza di varia natura e/o collaborazione domestica in quanto non dispongono di un alto livello di istruzione (il tasso di analfabetismo nel popolo Mapuche si aggira intorno al 50%).
“Recupero di terre ancestrali”. E' questo il crimine – in violazione della Ley de Seguridad Interior del Estado e la Ley Antiterrorista – di cui vengono accusati i tantissimi prigionieri politici nelle carceri cilene. Sono chiamati “terroristi” solo perché difendono la loro terra. Mentre le multinazionali che distruggono la terra, i carabinieri che reprimono sparando ad alzo zero senza distinzione tra donne, uomini e bambini spesso uccidendoli (come nel 2002 con la morte del 17enne Alex Lemún Saavedra o di Juan Collihuín, rimasto ucciso nel 2006) o che rapiscono non vengono minimamente sfiorati da accuse, arresti e processi. Ma si sa: il Potere è al di sopra di qualsiasi legge.
Molti leaders Mapuche sono costretti ad emigrare all'estero per evitare l'arresto e la morte (quasi) certa per le torture che subiscono in carcere; ai bambini viene dedicato l'infame trattamento dell'isolamento dalle loro famiglie dopo l'arresto o torture quali pallini antisommossa sparati alla schiena o alle gambe, creando così shock e problemi psicologici di varia natura con i quali faranno i conti per il resto della loro vita.
Con tutto questo, qualcuno si chiederà, ci saranno grandi interventi della comunità internazionale. Ed invece no. Né le grandi organizzazioni internazionali come l'O.N.U. - sempre più schierata a favore dei Padroni – tantomeno la c.d. “comunità internazionale” ha fatto qualcosa di serio per far terminare la chiara violazione dei diritti umani perpetrata nei confronti del popolo Mapuche. Nell'ambito della riunione dell'Esame Periodico Universale (EPU), un nuovo meccanismo delle Nazioni Unite che ogni quattro anni esamina la situazione di un determinato paese, il Cile è stato solamente richiamato al rispetto dei diritti umani, senza però che a parlare in quella conferenza ci fossero esponenti Mapuche. E questo dovrebbe far capire molto della politica di asservimento delle organizzazioni internazionali.


Proprio per questo, da oggi questo blog diventa – anche – la voce dei Mapuche. Non sarà molto, ma almeno è più di quel che si sta facendo a livello internazionale. Perché credo che il terrorismo non sia là dove si difende la propria terra, ma sia nelle stanze dei bottoni dalle comode poltrone, dove si decide la vita o la morte del mondo guardando quante banconote vengono messe sul tavolo.


“Gli occhi neri di Lautaro
gettano migliaia di lampi.
Come soli fanno germogliare i solchi
come soli guidano l’avanzata di un popolo combattente
che non vuole essere schiavo
come un puma in gabbia”
(Rayen Kvyeh)


Approfondimenti:
  1. Mapuche International Link:http://www.mapuche-nation.org/
  2. Mapuche: gente della Terra (informazioni in italiano): http://it.mapuches.org/
  3. I Mapuche contro la Benetton: la terra non si tocca! http://www.ecoblog.it/post/8526/i-mapuche-contro-benetton-per-lesproprio-dei-terreni-in-patagonia
  4. Riscatto culturale: la storia del popolo Mapuche: http://www.eidetica.eu/riscatto/mapuche.htm
  5. La lettera di Reporter Senza Frontiere alla Presidente Bachelet: http://www.rsf.org/spip.php?page=article&id_article=27352

Gli scrittori americani e la ragazza perbene.


Incredibile a dirsi, ma non riesco a trovare le parole.
Forse perché ho sempre avuto una forma di rispetto molto particolare per i morti. Che è poi il motivo per cui mi viene sempre difficile dover parlare dei miei miti. O forse perché l'incontro con le parole di Fernanda Pivano è stato bizzarro, e quindi dover parlarne mi mette in uno strano senso di soggezione. Chissà perché poi.

Non mi va di riportare la solita biografia presa da questo o quel sito, sia perché da oggi ne saranno pieni i giornali e sia perché tutti possono andare su questo o quel sito e leggersela.

Il mio incontro con i suoi libri è avvenuto in 5° superiore, per l'esame di maturità. Lei e Cesare Pavese sono stati i miei “compagni di maturità”. Insieme a Faber, naturalmente. Eppure, nonostante mi reputassi mediamente intelligente – più o meno quanto i miei compagni di classe – proprio non riuscivo a capire. Non capivo come una donna potesse appassionarsi così tanto all'Antologia di Spoon River, non capivo cosa ci fosse di bello in un libro del genere. E tantomeno ero in grado di capire Faber, che anzi – mi ricorda spesso mio padre quando affrontiamo l'argomento – mi chiedevo come si potesse definire “cantante”.

Le chiavi per entrare in quel mondo le ho avute solo dopo quell'incontro. Quando ho ripreso in mano l'Antologia e nelle cuffie avevo Faber. C'è voluto un po' di tempo, forse perché non avevo la “maturità intellettuale” per comprendere l'alta caratura di personaggi di questo tipo, per capire con chi avessi a che fare.
E se oggi riesco – o almeno credo di riuscire – a ragionare in direzione ostinata e contraria, beh, sicuramente lo devo a quei versi. Versi che, se mi guardo indietro, se guardo la strada che da quei banchi di scuola ho fatto fino ad ora – nonostante siano passati in realtà solo pochi anni – capisco quanto siano stati importanti per arrivare esattamente dove sono adesso.

Come NON si diventa giornalisti. Lezione di Luca Telese

Musica socialmente sensibile

Malena D’Alessio, Karen Pastrana, Karen Fleitas. Tre ragazze senza peli sulla lingua, come loro stesse si definiscono. Tre nomi che qui in Italia sono praticamente sconosciuti ai più. Eppure basta un semplice contatto, come può esserlo un video di 5 minuti su Youtube per far entrare le Actitud Maria Marta a buon diritto tra la miglior musica che si possa ascoltare. Per noi italiani, abituati a vedere ragazzini dalle scarse qualità rimanere in testa alle classifiche per mesi e mesi le tre Mc sono un vero e proprio shock. Bastano le prime note di Revolución (che vi ripropongo in conclusione dell'articolo) o di Hijo Mio per capire che in queste ragazze vive il fuoco sacro della musica che qui in Italia una volta si definiva “antagonista”.

Generalmente, cuando me preguntan si somos un grupo de protesta, respondo que no. No sé muy bien por qué, pero es lo que respondo. Quizá sea porque esa palabra ya es parte de un rótulo del que no sé si me siento parte.

Dice Malena, la fondatrice delle AMM.

Riuscire a rimanere indifferenti a queste tre ragazze è umanamente impossibile. Tra treccine, fiori ed abiti dai colori sgargianti si alternano note di hip hop, r&b, reggae, il tutto mixato con sonorità latinoamericane e giamaicane.
La loro vera forza non è neanche l'impatto scenico, sicuramente impressionante, ma – come nella miglior tradizione della musica militante – la loro vicinanza, nei gesti e nelle rime, con i contesti “socialmente sensibili”, che siano le favelas brasiliane od il sostegno alle Madres de Plaza de Mayo.
Sono argentine, e come tali figlie di quel periodo storico in cui 30.000 argentini vennero rapiti dalla dittatura militare tra il 1976 ed il 1983. Il loro stesso nome deriva da quelle tristi pagine della storia del fiero popolo argentino.
Maria Marta infatti è il nome di una giovane donna di 23 anni scomparsa il 14 maggio del 1976 a Buenos Aires, dove lavorava come volontaria insieme al marito nei quartieri più disagiati della città. Prima del rapimento, fece in tempo a dare alla luce un figlio, anch'egli rapito dai suoi aguzzini.
Le loro canzoni riflettono esattamente quella rabbia che spinge le Madres ogni giovedì sera in Plaza de Mayo per chiedere che quei 30.000 tornino a casa; quella stessa rabbia che fa occupare le fabbriche agli operai argentini – e dai quali noi europei non abbiamo che da imparare. Quella rabbia tipica di un popolo fiero come quello argentino.

Manu Chao, Mad Professor, Public Enemy, sono solo alcuni dei tanti nomi che hanno condiviso il palco con queste tre esplosive ragazze. I rap di Malena poi riescono a tenerti incollato di fronte allo schermo del pc in una sorta di venerazione. Anche se lo spagnolo non è la tua lingua madre e ti tocca fare avanti e indietro con il video per riuscire a comprenderne le rime.

Sono in giro dal 1995, per dimostrare che pensare e ballare è compatibile.
Sono le Actitud Maria Marta. E non c'è bisogno di presentazioni.



Qui il link del video per gli amici di Facebook: http://www.youtube.com/watch?v=tkjG_kKro4Y

NO a NOA

Riprendo pari pari dal blog di Baruda

C’è NOA in Italia per una serie di concerti: Per chi volesse ringraziarla per il suo sostegno al “buon lavoro” dell’esercito israeliano a Gaza, il 22 agosto un’ottima occasione alla Notte della Taranta

Il 22 agosto, Noa sarà sul palco di Melpignano (Lecce), nel Salento, per il concertone finale del Festival itinerante della Notte della Taranta. L’iniziativa è sponsorizzata dal Presidente della Regione Puglia, Nichi Vendola. E’ possibile esprimere la protesta per la presenza di Noa anche inviando mail all’attenzione del Dott. Sergio Torsello (della Direzione artistica) e della signora Stefania Sicuro (della segreteria del festival) a questo indirizzo: segreteria@lanottedellataranta.it.
Infine, il 25 agosto Noa si esibirà a Caulonia (Reggio Calabria), nell’ambito del “Kaulonia Tarantella Festival 2009″.
Questo calendario è probabilmente ancora incompleto, per cui sollecitiamo informazioni su tutti gli appuntamenti della cantante che si è proposta come la voce di morte dell’esercito israeliano.

Se sei straniero non vale.

"...Se sei straniero non vale. È più facile che ti condannino perché su di te pesa un pregiudizio sfavorevole. Magari ti manca il permesso di soggiorno e hai una residenza al nero che non puoi certificare. Allora non ti resta che accettare il carcere e aspettare che passi. Potresti fare una richiesta di rimessa in libertà, ma non lo sai, non parli bene la lingua, non conosci le leggi, ti chiedono solo di rispettarle. Hai solo doveri ma non diritti. Magari sei sfortunato e non incontri nessuno che vuole o può aiutarti. Nessuno che si sofferma a parlarti, che ti chiede da dove vieni, perché sei lì. Sei solo un paria, uno dei tanti buttati in fondo a una cella. Non capisci cosa succede e perché ce l’hanno tanto con te che volevi solamente vivere, mangiare, vestirti, avere una donna, dei figli. No, per te non vale. Allora ti monta la rabbia, una rabbia che ti torce le budella, ti prende lo stomaco, ti fa digrignare i denti. Vorresti urlare al mondo quell’assurda situazione, ma oltre le mura del carcere c’è solo campagna. Una bella campagna che ti ricorda la tua terra. Gli alberi da frutto, gli ulivi. Ricordi quando eri bambino e correvi tra i campi di grano. Invece ora apri gli occhi e vedi solo sbarre e cemento mentre la vita scorre ritmata dal rumore di grosse chiavi d’ottone. Fuori non c’è nessuno, solo il vento. La rabbia allora fa il cammino inverso, ritorna in te, s’impadronisce del tuo corpo, lo usa come un’arma. Tu diventi il luogo della lotta, lo strumento della protesta. Non hai altro. Hai solo quel corpo e lo usi..."

[Paolo Persichetti, Liberazione 13 Agosto 2008 in merito alla morte di Alì Juburi]

Galera

[Foto di Baruda: SBARRE, interno di una cella
singola dell'ex Carcere Minorile del San Michele, Roma
]

Là, dov’era più umido
fecero un fosso enorme
e nella roccia scavarono
nicchie e le sbarrarono

alzarono poi garitte e torrioni
e ci misero dei soldati, a guardia

ci fecero indossare la casacca
e ci chiamarono delinquenti

infine
vollero sbarrare il cielo

...

non ci riuscirono del tutto

altissimi

guardiamo i gabbiani che volano.


Sante Notarnicola - Favignana 1 giugno 1973

Kurdistan: Pace possibile?

di Orsola Casagrande per Il Manifesto

PROVE DI DIALOGO FRA ERDOGAN E OCALAN. Dopo il «promettente» incontro del 5 agosto fra il premier turco e il partito kurdo Dtp, il 15 agosto il leader incarcerato del Pkk forse rivelerà i termini di una «yol haritasi», una road map che potrebbe portare alla soluzione del conflitto. Parla il rappresentante del Pkk in Europa

Cresce l'attesa per la yol haritasi, la road map che il presidente del Pkk Abdullah Ocalan renderà pubblica probabilmente il 15 agosto. Alla vigilia di quest'appuntamento e mentre tutta la Turchia è in agitazione, consapevole che una nuova fase politica potrebbe presto aprirsi, abbiamo intervistato il responsabile del Pkk per l'Europa, che ha risposto necessariamente in forma anonima. In quale contesto nasce la yol haritasi?
Il ventunesimo secolo è un'epoca in cui in tanti luoghi le questioni nazionali e etniche sono state risolte, o sono in via di risoluzione, con metodi pacifici e democratici. Invece in Kurdistan e in Turchia, da 35-40 anni è in corso una guerra fra il popolo kurdo e la sua avanguardia, Pkk, e il colonialismo della Turchia. Entrambe le parti hanno cercato di raggiungere il loro obiettivo con la guerra e la violenza. Ma nonostante questo la soluzione della questione è rimasta irrisolta. Perchè una soluzione non si poteva raggiungere con l'atteggiamento dello stato turco di negazione del riconoscimento dell'identità e esistenza di un popolo. La lotta contro questa negazione ha raggiunto un certo livello. In altre parole la guerra e la violenza hanno giocato il loro ruolo. Il presidente Ocalan si è speso in molti modi per arrivare ad affrontare la questione kurda con il dialogo e la pace.
Murat Karayilan, il comitato centrale del Pkk, ha descritto in una intervista i punti fondamentali per parlare di processo di pace. Quali sono? E' cambiato qualcosa dopo le elezioni di marzo?
Da anni la nostra organizzazione come contributo a una soluzione pacifica ha dichiarato dei cessate il fuoco unilaterali e periodi di non-scontro, ha proposto e reso pubbliche idee per una soluzione condividendole con l' opinione pubblica. In ogni occasione abbiamo sottolineato la nostra convinzione per una soluzione politica e pacifica. Il nostro presidente ha chiesto proposte e idee a intellettuali e accademici della Turchia, alla società civile, ai politici, alla popolazione e anche alla diaspora kurda in Europa, per preparare una road map. Ha chiesto cioè il parere di ogni settore della società per poter costruire un percorso di pace. E' stato un lavoro faticoso ma nei prossimi giorni la road map sarà condivisa con l'opinione pubblica. Senza anticipare nulla, possiamo dire che il popolo kurdo chiederà tutti i diritti che devono essere riconosciuti a un popolo. Di vivere e organizzare la sua identità liberamente. Di porre sotto garanzia della costituzione diritti culturali e identitari, di arrivare ad un sistema di autonomia - intesa come autonomia in materia di enti locali. In altre parole chiederà diritti politici, culturali e la libertà.
Prima della elezioni di 29 marzo il nostro movimento ha dichiarato una tregua unilaterale, per favorire uno svolgimento democratico delle elezione. Possiamo dire che lo stato turco ha risposto in maniera positiva a questa decisione. Non ha condotto grandi operazioni militari, evitando di acuire le tensioni. Le elezioni sono state motivo di grandi aspettative e anche di pressione contro il popolo kurdo. La pressione è stata particolarmente forte nei confronti del Dtp (Partito della società democratica) rappresentante del popolo kurdo, con arresti di massa. Ma le elezioni si sono svolte tutto sommato in un ambiente tranquillo. Sulla stampa questo è stato notato. L'Akp, l'esercito e la burocrazia dello stato si sono mossi insieme contro il partito kurdo. In Kurdistan le elezioni erano una sorta di referendum tra lo stato turco e il movimento di liberazione del popolo kurdo. Nonostante le difficoltà il Dtp ha avuto un grande successo. L'aspettativa era che iniziasse un dialogo sulla questione. La realtà è stata diversa: lo stato non ha tollerato i risultati, sono stati ordinati arresti di massa di esponenti politici kurdi. Ad Amara e Dogubeyazit sono stati uccisi 3 patrioti kurdi. I telegiornali hanno mostrato le torture che i bambini sono stati costretti a subire. Si voleva demolire la volontà democratica del popolo kurdo, ma il popolo ha continuato resistere e sta resistendo ancora. Il governo turco insiste nel dire che il Pkk deve abbandonare le armi. Qual è la vostra opinione?
L'insistenza del governo turco su questo punto è comprensibile. E c'è anche chi crede che se il Pkk sarà disarmato la questione sarà risolta. La vera intenzione del governo turco però è di portare il popolo kurdo a trovarsi senza difesa e senza lotta. La politica dunque è quella di tentare di prendere in ostaggio psicologicamente i kurdi, concedendo loro diritti quando è utile e negarli quando non lo è, lasciandoli completamente indifesi. Il popolo kurdo è salito sulle montagne non perchè amava le armi o perchè lo divertiva. Il Pkk è stato costretto alla lotta armata. Al popolo kurdo sono stati negati i diritti umani fondamentali, i diritti nazionali. Su di esso è stato praticato un colonialismo che è arrivato al massacro culturale, economico e politico. Libertà e democrazia? Era in un periodo in cui perfino parlare o organizzarsi veniva punito. Il Pkk si è armato in questo contesto e ha continuato la lotta armata. Ma il Pkk ha sempre voluto combattere per la libertà e la democrazia alla luce del sole, con mezzi legali. Ma questo non era possibile. E il prezzo pagato è stato molto alto. Non dimentichiamo che in famiglia era vietato parlare kurdo, ascoltare casette in kurdo, usare nomi kurdi. «Trasgredire» bastava per essere torturato, mandato in esilio o essere condannato a morte. Ma il popolo kurdo non poteva accettare di essere l'agnello del sacrificio. Ha preso le armi per difendersi. E visto che la realtà è questa e la questione non è risolta non si può chiedere al Pkk di deporre le armi. Se l'esercito avesse avuto la forza di disarmare il Pkk, lo avrebbe fatto. Ha detto, lo annienteremo, lo finiremo e lo sradicheremo. E il capitale internazionale, l'Europa, gli Usa, gli stati della regione hanno sostenuto lo stato turco. L'obiettivo dello stato turco era quello di eliminare il Pkk. Ma non ci è riuscito. E ora dice che il Pkk deve deporre le armi. No, prima c'è una questione che va risolta e allora i motivi della lotta armata scompariranno. Ci sarà una nuova realtà. E in questa nuova realtà sarà necessario deporre le armi, ma la cosa verrà pianificata, discussa, decisa a un tavolo di trattativa.
Il governo turco sta facendo molta propaganda nel tentativo di svuotare la yol haritasi. Cosa pensate del ruolo del governo in questo momento?Il presidente Gul e il premier Erdogan hanno finora fatto tanti discorsi ma nessun atto concreto. Pensate che questa volta potrebbe cambiare qualcosa?
Nei prossimi giorni vedremo più chiaramente se il governo turco vuole svuotare la road map. Senza dubbio se userà palliativi e comportamenti che mirano a perdere tempo e a ingannarci questo non farà che complicare la situazione. Se non sono onesti nel loro approccio alla questione kurda faranno di tutto per svuotare la road map. Se invece sono onesti saranno più realisti e obiettivi. Il presidente della repubblica Gul e il primo ministro Erdogan hanno detto qualcosa. La questione esiste e si deve risolvere. E già queste dichiarazioni in Turchia sono considerate un passo positivo. Ma dalle parole bisogna passare ai fatti. Dichiarazioni ce ne sono state anche in passato. Lo stesso Erdogan nel 2005 a Diyarbakir aveva detto «se è necessario lo stato chiederà scusa». E poi sono ricominciate le operazioni militari. Dall'impero ottomano l'idea è che lo stato sia capace di tutto, sia nel contempo causa del conflitto e suo unico risolutore. E' positivo che lo stato sia arrivato alla conclusione che bisogna risolvere questa questione, ma il fatto che continui a non riconoscere come interlocutore i kurdi non va nella direzione giusta. Una soluzione è possibile solo con un negoziato fra le parti. Non sappiamo che c'è dietro la porta ma nei prossimi giorni la nebbia si diraderrà. Noi come movimento ci assumiamo le nostre responsabilità e valorizzeremo qualunque piccolo passo verso la pace.
Pensate che la società turca sia pronta a discutere di processo di pace?
Certamente pensiamo che la società turca sia pronta. In questi lunghi anni di guerra lo stato ha creato una società molto sciovinista e nazionalista e non sarà facile gestire questa fase. Ma se lo stato sarà genuinamente coinvolto, se la stampa contribuirà al processo, crediamo si possa coinvolgere in maniera positiva anche la società turca. Non ci facciamo illusioni: rimangono forze fasciste come Ergenekon, e ci saranno sempre quelli che cercheranno di fermare un percorso positivo. Anche elementi del Chp cercheranno di bloccare un processo di pace, e lo stesso faranno i fascisti e nazionalisti del Mhp. Ma non sono così forti.
Alcuni intellettuali stanno facendo dichiarazioni interessanti. Il ruolo degli intellettuali anche per Ocalan è importante. Come?
Parto con una critica. Sia in Turchia che in Kurdistan gli intellettuali non dovevano aspettare così tanto. Avrebbero dovuto parlare anni fa, mostrare più di coraggio. Anche se sono arrivati tardi, il loro ruolo sarà molto importante. Soprattutto la sensibilità di intellettuali come Yasar Kemal è molto importante in questa fase. Sia gli intellettuali kurdi che quelli turchi hanno pagato molto nella politica negazionista dello stato. Sono stati incarcerati, torturati, mandati sotto processo. Migliaia hanno perso la vita. Gli intellettuali sono la coscienza di una società, da loro ci si aspetta che con coraggio dicano quello che ritengono giusto.
Il ruolo dell'Europa in questa fase?
Quale Europa? mi chiedo. Se si parla di Europa degli stati, potrà fare molto se punterà sulla democrazia e la pace. Ma se l'Europa continua a tenere lo stesso atteggiamento opportunista avuto fin qui, con i suoi silenzi che contribuivano alla continuazione del conflitto, giocherà un ruolo negativo. Le relazioni dell'Europa con lo stato turco sono dettate da interessi economici. Ma questi interessi non vengono usati per premere per una soluzione del conflitto, e una Turchia che non risolve la questione kurda è un peso sulle spalle dell'Europa. E non credo che l'Europa possa continuare a sostenerlo. Il popolo kurdo crede che se l'Europa avesse voluto contribuire alla soluzione della questione avrebbe potuto farlo. Ma fin qui ha risposto alle richieste turche, per esempio inserendo il Pkk nella lista dei gruppi terroristi.
Come valutate la conferenza stampa del ministro degli interni?
Come che ha detto il ministro, più che una proposta si trattava di una dichiarazione su linguaggio e metodi da usare. Non è stato presentato un programma o una proposta per affrontare la questione. Si è trattato di una dichiarazione che cercava il sostegno dell'opinione pubblica e della stampa a qualcosa che ancora non è chiaro.

E venne l'ora...di religione.


Avvertenza prima di leggere questo post: Se siete cattolici, se la domenica andate in chiesa e non muovete muscolo se non ve lo ordinano dal Vaticano e se tante volte foste la Binetti NON continuate a leggere. Passate oltre.

Diciamoci la verità: chi di noi, ai tempi della scuola – eccezion fatta per la suddetta esponente dell'Opus Dei in terra parlamentare, il Papa e qualche pretocchio tutto tempestato d'oro – ha realmente preso sul serio l'ora di religione? Io non la facevo proprio, anche perché il nostro insegnante – tra parentesi un prete che bestemmiava – a mia precisa domanda culturale (gli chiesi qualcosa riguardo ai Taliban prima dello scoppio della guerra...) non seppe rispondermi, mentre rompeva i maroni alla classe intera con i fantasmagorici racconti delle sue imprese tra la vita e la morte. La classe intera, per tutta risposta, copiava allegramente i compiti per l'ora successiva.

A parte le vicissitudini personali credo abbiate sentito tutti parlare dell'ennesimo attacco del terrorismo di matrice cattolico-vaticana ai danni della laicità di questo stato. Per chi non l'avesse sentito faccio un brevissimo riassunto: nel 2008 – governo Prodi – l'allora Ministro dell'Istruzione “Fioretto” Fioroni, anch'egli evidentemente amico della lobby vaticana (spero non sia pure lui dell'Opus Dei altrimenti chiedo la cittadinanza al Botswana...) mediante un'ordinanza dispone che l'insegnamento della religione cattolica – che è bene ricordare non è la religione di stato – concorra nell'attribuzione dei crediti per la maturità. Come ovvio e naturale subito i non-cattolici si sono fatti sentire facendo ricorso. Il 7 luglio di quest'anno il Tar del Lazio ha bocciato l'ordinanza di “Fioretto” Fioroni, ristabilendo quel che è sempre stato in Italia: gli insegnanti di religione non devono partecipare né all'assegnazione dei crediti e tantomeno devono avere “potere reale” negli scrutini. Anche perché, se – per ritornare al caso personale – tutti facessero come il mio insegnante che dava 6 anche a chi non faceva religione saremmo messi bene.

La CEI ovviamente, ha definito vergognosa la sentenza (dimentica forse di ben altre vergogne a cui guardare, come i preti pedofili che spesso difende...) in quanto – cito da Repubblica di quest'oggi -
“ l' insegnamento della religione cattolica non sostiene scelte individuali, ma di una componente importante di conoscenza della cultura italiana. Con buona pace dei laicisti e dei nostri fratelli nella fede di altre confessioni cristiane”
. Avete presente il film Highlander, quando due immortali si scontrano ed il cattivo dice a Christopher Lambert “ne resterà soltanto uno”? Ecco, in pratica è la stessa cosa che dice la CEI, con la differenza che per ora i Vatican's friends ancora non si son messi a tagliar teste.
Come ovvio tutti i futuri elettori del Papa – prima fra tutti Suor Merystar Gelmini – si sono messi a frignare che il Vaticano ha ragione perché (ri-cito da Repubblica):
“la cultura del nostro paese è intrisa di cultura cattolica. La scuola ha il compito di trasmettere questi valori non solo religiosi ma anche culturali, nel rispetto di chi professa religioni diverse assieme a quelli che non credono.”
Che è poi quel di cui vengono accusati gli islamici quando chiedono – a ragione secondo l'art.8 della nostra Costituzione – la creazione di moschee in suolo italico. Mentre scrivo questo mi sorge una domanda: essendo il Vaticano uno stato estero, e la religione cattolica – ripeto – non una religione di stato, perché non c'è la stessa levata di scudi contro la costruzione di Chiese? Alla fine qual'è la differenza con la costruzione di una Moschea?
Suor Merystar continua dicendo:
“faremo ricorso al Consiglio di Stato. I principi cattolici sono patrimonio di tutti. La sentenza impedisce la libera scelta degli studenti e delle famiglie, non contribuisce più alla valutazione globale dello studente, e gli insegnanti di religione verranno considerati come docenti di serie b”.
Mi chiedo però dove sia questo impedimento, visto che non viene fatta menzione – o almeno io non ne sono a conoscenza – dell'immediata espulsione di preti ed insegnanti di religione dalle scuole. Quello sì che sarebbe impedire una libera scelta! Anche sul “libera” scelta avrei i miei dubbi, ma lasciamo perdere altrimenti dicono che sono troppo mangiapreti...

Naturalmente a pag.3 di Repubblica vengono presentate due interviste (che a logica dovrebbero rappresentare l'una e l'altra voce della questione) di Cacciari, che in questi mesi ormai sta diventando come Berlusconi, dice e fa tutto ed il contrario di tutto e lei, la stella più luminosa del panorama politico nazionale (e Vaticano, corrente Opus Dei): Paola “Suor Maria” Binetti! Ah, piccola digressione: articolo su questioni religiose, intervista alla Binetti e la fai fare ad uno che di cognome fa Lopapa? E dillo che lo fai apposta però!
Comunque il sindaco di Venezia mi stupisce, perché secondo lui è
“indecente che un giovane esca dalla maturità sapendo magari malamente chi è Manzoni, chi è Platone e non chi è Gesù Cristo”.
Mi chiedo perché io, ateo, debba sapere chi è Gesù Cristo e possa tranquillamente fregarmene di chi è Maometto, Allah o Buddha. O mi dai un'infarinatura – non pretendo approfondita, ma per lo meno fammeli conoscere – di tutti oppure di nessuno. Altrimenti è dittatura religiosa questa (guarda un po', la stessa cosa di cui accusano – di nuovo – i taliban...)!
La perla però ce la riserva ovviamente la Binetti – l'ho lasciata alla fine dell'articolo di proposito – dicendo che insieme a Pezzotta e alcuni altri “discepoli vaticani” vuol creare un gruppo trasversale per difendere il terrorismo vaticano in Italia. Da una che sostiene che lo stupro è voluto dalle ragazze che si vestono troppo da zoccole – e lei stando in Parlamento (tanto dopo pornostar, nani e ballerine ci sta bene di tutto...) di quel genere di ragazze se ne intende – non oso immaginare come possano chiamarsi: “Vatican'S Power” (modello “Girl Power” delle Spice Girls), “Vatican's lecchins” o cosa?

In chiusura prendo una frase dell'intervista a Cacciari e – tra il serio ed il faceto – dico: Mettiamo Piergiorgio Odifreddi ad insegnare religione (almeno ci insegnerebbe a criticarla, visto che non lo insegneranno di certo preti e docenti cooptati dal Vaticano)!

Breaking News

---News Italia---
INNSE: CONCLUSA LA TRATTATIVA. GLI OPERAI VINCONO LA LORO BATTAGLIA.
Questa notte si è finalmente conclusa - in maniera positiva - la lotta dei 50 operai della fabbrica milanese della INNSE, che da più di un anno presidiavano lo stabilimento per non perdere il posto di lavoro. Negli ultimi 8 giorni la protesta si era intensificata e spettacolarizzata, perché 4 operai ed un delegato FIOM erano saliti su di una gru (a 17 metri d'altezza) affinché si arrivasse ad una svolta. Il gruppo industriale Camozzi di Brescia è il nuovo proprietario. Sui 4 milioni il costo di terreni, stabilimento e macchinari. Ed ovviamente la riassunzione di tutti gli operai.



---News Esteri---
ASSOLTO VIKTOR BO
UT, IL "MERCANTE DI MORTE".
Viktor Bout il più noto trafficante di armi al mondo noto anche come "il mercante di morte" e diventato a suo modo famoso grazie all'interpretazione che Nicolas Cage ne fa in "Lord of War" potrebbe presto venir rilasciato dalle autorità tailandesi. Era stato arrestato, in un'operazione congiunta della DEA statunitense con le polizie di Tailandia, Danimarca, Olanda e Romania per sventare l'invio di un carico di armi diretto alle FARC (Forze Armate Rivoluzionarie della Colombia). Ex agente KGB, Bout ha costruito la sua fortuna vendendo le armi appartenenti all'esercito dell'Ex-Urss un pò a chiunque, e ripulendo i proventi di tale commercio, tra le altre cose, con l'acquisizione di 60 velivoli con i quali le Nazioni Unite trasportavano aiuti umanitari in giro per il globo. Gli Stati Uniti potrebbero bloccare la liberazione chiedendone l'estradizione, ma ciò molto probabilmente non verrà fatto, perché i rapporti tra il mercante di morte e le alte sfere di Washington sono ben saldi (una delle recenti avventure imprenditoriali di Viktor Bout in Medio Oriente, la società Air Bus, sarebbe diventata una dei contractors ufficiali del Pentagono per il trasporto di forniture militari in Iraq).

In diretta dalle carceri italiane...

Leggendo posticipatamente l'edizione di sabato di Repubblica (quando si è in ferie non si riesce a rimanere "sul pezzo" come si vorrebbe...) mi imbatto in questa lettera:

Sono Pasquino del G11 del carcere di Rebibbia. Vorrei raccontarvi alcuni particolari sulla malasanità qui in carcere. Giorni fa, precisamente il 28 Luglio 2009 alle 7 del mattino, il detenuto Marino Vincenzo che si trovava anch'egli nel mio stesso reparto (G11, piano terra, sezione B) ha inziato a chiamare l'agente di sezione, comunicandogli che aveva difficoltà respiratorie e, per tutta risposta, si è sentito dire: "Alle ore 8 passerà l'infermiera per il controllo sanitario e la terapia". Alle 7:45 il detenuto Marino Vincenzo è deceduto. Appena avvisati gli agenti sono subito accorsi, portando via i restanti detenuti della medesima cella, interrogandoli per eventuali informazioni sull'accaduto. Solo alle 12 il corpo senza vita del detenuto è stato portato via da una barella.

Antecedentemente, per motivi di trasferimento non aveva più il "piantone" quindi per lui era diventata una vera e propria tragedia essere costretto, per problemi di salute, su una sedia a rotelle mal funzionante.

Questo è solo uno degli eventi più tragici della malasanità in cui ci troviamo, senza poi aggiungere tutti i vari episodi che quotidianamente tutti noi detenuti siamo costretti a vivere: tutte le volte che ci prescrivono una terapia siamo costretti a deglutire medicinali non sterilizzati, poichè ci vengono portati avvolti in piccoli pezzi di carta igienica, invece che in involucri di garze idrofile sterilizzate.

I detenuti invalidi vivono le loro intere giornate su sedie a rotelle inutilizzabili. Le visite mediche sono un optional, vengono effettuate solamente in giorni alterni, quando è il turno del proprio piano e sezione. E questi sono solo piccoli e brevi episodi.

Confidiamo con questa lettera, a scopo informativo esterno, che vengano passate in futuro più visite e che magari per il prossimo inverno sia possibile avere il vaccino per l'influenza suina. Vorremmo essere considerati un po' di più anche a livello umano, visto che, anche se siamo qui, siamo esseri umani con i nostri diritti (che qui valgono veramente pochissimo).

Con la speranza che qualcosa possa migliorare.

Pasquino reparto G11 Rebibbia, Roma


Sempre più spesso mi capita di leggere e di ascoltare situazioni di vita carceraria che definire inumane è dir poco, per questo quando sento ministri e politicanti vari che parlano di aumentare le carceri mi viene da pensare che questi signori non abbiano la minima idea di quel che voglia dire vivere una situazione simile.
E mi riferisco anche alla storia di Izet Sulejmanovic, il detenuto bosniaco risarcito dallo stato italiano per aver vissuto per 18 ore al giorno - non ricordo per quanto tempo - in 2,7m² (divideva una cella di 16,2 m² con altre cinque persone (il Comitato Europeo per la Prevenzione della Tortura ha stabilito che la "soglia di vivibilità minima" è di 7m² per individuo).

La situazione carceraria in questo paese sta diventando sempre più insostenibile, sia per quanto riguarda la vita dei detenuti che per quanto riguarda l'aspetto puramente economico-burocratico (mantenimento delle strutture carcerarie in primis). Io mi chiedo se non sia il caso di rivedere il nostro piano-carcerazioni . Abbiamo allo stato attuale 63.587 detenuti per una capienza effettiva di 43.327 posti, e la capienza al massimo può essere portata a 64.111 detenuti, numero che verrà presto raggiunto con gli arresti per clandestinità e per quei reati creati per fare un favore alla Lega ed evitare una riedizione del '94 con una nuova fuoriuscita celodurista dal governo (e quindi la prematura dipartita dello stesso). Questo favore tra l'altro non è certo a costo zero, visto che il costo del sovraffollamento si aggirerebbe intorno ai 64 milioni di euro (torno a ripetere, denaro che potrebbe essere speso per una miglior soluzione del problema abruzzese)

Io mi chiedo quale sia l'utilità di questa segregazione di massa. E vi spiego subito il perché.
La metà di quei 63.587 detenuti sta in carcere in attesa di giudizio, quindi qualora le sentenze diano esito favorevole al detenuto saremo davanti a casi di carcerazione inutile (e quindi risarcimenti danni non certo di pochi spiccioli...). Ma questo in realtà è un dettaglio.
Il problema principale secondo me è che la maggior parte dei detenuti sono - passatemi il termine - "ladri di galline", cioè gente che non ha commesso reati gravi (è ovvio che non mi riferisco a stupratori, assassini e/o pedofili, o casi di particolare efferatezza).

"Su, vai a vedere nella galera,
quanti precari, sono passati a malaffare.
Quando t'affami, ti fai nemici vari,
non ti chiami Savoia, scorda i domiciliari."
Canta Caparezza in una delle sue canzoni secondo me più riuscite (Luigi Delle Bicocche per intenderci).
Mi chiedo da un pò se per i cosiddetti reati minori il carcere sia la soluzione migliore. Perché, ad esempio, uno che ha rubato un pacco di biscotti - se non lo ammazzano prima com'è successo ad Abba a Milano - deve avere la stessa punizione di un mafioso del calibro di 'U Curtu Riina? Non sarebbe meglio destinare il carcere a quelli che veramente sono pericoli per la società? Ed anche in questo caso, se un individuo viene arrestato perché ha rubato per portare il pane in tavola o comunque è stato costretto da situazioni non dipendenti dalla sua volontà all'atto criminoso, è da considerarsi pericoloso per la società o è la società medesima che lo ha costretto a quell'atto (che magari mai e poi mai avrebbe fatto)?
Non sarebbe meglio - e magari anche meno costoso - creare una rete di punizioni "alternative"? So che questo sta già succedendo: lo vedo nella Bologna in cui studio, dove i detenuti si occuperanno di canili e pet-teraphy o a Milano dove da ottobre coadiuveranno i tribunali nella gestione e digitalizzazione degli archivi.

Perché il carcere - i più sembrano averlo scordato - deve tendere alla rieducazione dell'individuo al fine di reinserirlo nella società e non a creare manovalanza per la criminalità. Ma forse questo governo dell'illegalità e vicino alle istanze delle Famiglie non la vede allo stesso modo...

INSS(i)Eme a voi...



L'Italia è una Repubblica democratica fondata sul Lavoro. E non sulla disoccupazione.
Questo blog si schiera al fianco degli operai della Innse e di tutti coloro che in questo periodo hanno perso o stanno perdendo quel diritto fondamentale che si chiama Lavoro.

Morire di (IN)sicurezza


"Si e’ uccisa perche’ era clandestina e non riusciva a regolarizzarsi, e per questo era caduta in depressione. Il corpo senza vita di Fatima Aitcardi, 27 anni, marocchina, ripescato ieri sera dal fiume Brembo a Ponte San Pietro, e’ stato identificato dal fratello Mohamed che stamattina si e’ presentato ai carabinieri per denunciare la scomparsa della sorella, uscita di casa ieri alle 14. L’uomo, che invece e’ regolare e vive proprio a Ponte San Pietro, ha raccontato che Fatima era disperata: era irregolare in Italia, aveva tentato in tutti i modi di regolarizzare la sua posizione ed era terrorizzata dalla scadenza di domani, giorno in cui la clandestinita’ diventa reato. E questo l’avrebbe portata a uccidersi."

Con un'agenzia di poche righe fa il suo - anticipato - esordio il pacchetto sicurezza, una sorta di genocidio diluito nel tempo ed approvato per legge. Alcuni mesi fa - quanti ricorderanno? - quando si parlava dei medici-spioni Joy Johnson, una giovane di 24 anni sans papiers morì a Bari di tbc perché aveva paura di essere denunciata se si fosse presentata ad un presidio medico. Alcuni giorni fa, nel lager di Ponte Galeria a Roma un ragazzo algerino gravemente malato di cuore - di cui ancora non si conoscono le generalità - è stato ucciso dallo Stato Italiano. E' stato ucciso da uomini in divisa che secondo logica dovrebbero evitare le morti, non favorirle.

E' questa la "sicurezza" che volete? E' questo, sig.Maroni, il suo modo di servire il Paese? Riesce ancora a guardarsi allo specchio senza avere la voglia di sputarsi addosso?

Come si dice desaparecidos in cinese?



Ürümci, Turkestan orientale – Secondo qualsiasi carta geografica siamo in territorio cinese, ma è davvero difficile sostenerlo girando per le strade di questa città che ufficialmente è parte del territorio autonomo dello Xinjiang. Insegne in arabo, una lingua che assomiglia più al turco che non al cinese. È questo il contesto nel quale si muovono loro, gli uiguri. 10.000 di loro sono scomparsi. In una notte. Così, come è successo in Argentina con i desaparecidos. Ma qui non ci sono madri che si riuniscono a Plaza de Mayo per richiederne il ritorno in vita; qui, in questo territorio al confine con moltissimi stati musulmani come l'Afghanistan, il Pakistan ed il Kazakhistan non ci sono neanche casse di risonanza che possano far conoscere al mondo i motivi delle sommosse che in questi giorni stanno avvenendo.
Non è di certo l'Iran del terrorista Ahmadinejad contro il quale eravamo praticamente pronti a muovere guerra. Ma sempre di “terrorismo” si tratta. O almeno questa è la parola utilizzata dalla dittatura cinese capeggiata da Hu Jintao per legittimare le uccisioni, le violenze e le violazioni dei diritti umani che sono ormai all'ordine del giorno. È la Cina, baby! Quella stessa Cina i cui cittadini emigrati nel nostro paese sono visti con tanto disprezzo mentre a livello governativo si firmano fior fiori di accordi commerciali. 2 miliardi di dollari di investimenti sono il prezzo del silenzio del nostro paese sul modo con cui il governo cinese si comporta con tutto ciò che è “dissidente”, che si tratti di popoli o che si tratti di blogger.
Accordi che però – almeno da parte cinese – non possono prescindere dal Turkestan orientale, in quanto oltre ad avere giacimenti petroliferi non certo irrilevanti, il suo territorio è attraversato dalle rotte degli oleodotti che portano l’energia dal Medio Oriente, e anche le sue risorse sono considerate vitali: sotto i piedi degli uiguri – infatti - passa il 40% del carbone della Cina. E si capisce bene come questo non sia molto apprezzato dal governo. Per questo da molti anni il regime cinese sta attuando una vera e propria politica di distruzione degli uiguri (il cui nome potremmo tradurlo come “alleati”,”uniti”). Iniziano dalle piccole cose, dall'imposizione dello studio del mandarino a dei bambini in realtà turcofoni (e che per questa sorta di handicap si ritrovano alle scuole medie quando per la loro età dovrebbero essere al liceo) fino ad arrivare ad una specie di sfratto di massa, la cosiddetta “sinizzazione”. Il regime cinese infatti sta tentando in tutti i modi di estirpare gli uiguri dal loro territorio, popolando l'area di propri coloni di etnia Han – la razza cinese centrale, che sta anche impossessandosi del Tibet – e deporta le donne locali in età fertile. Una sorta di genocidio senza spargimento di sangue.
Come se non bastasse, a tutto questo deve aggiungerci anche la sfiga di non avere lo stesso appeal dei tibetani, perché non hanno una figura mediaticamente carismatica come il Dalai Lama. La loro figura di spicco è una “terrorista” di 62 anni che vive in esilio negli Stati Uniti. Si chiama Rebiya Kadeer e come ogni buon leader dissidente che si rispetti è stata anche in carcere. Ma prima non era così. Per farvela conoscere, riporto una breve biografia ripresa da un articolo di Federico Rampini:
Di origini umili, da ragazza la Kadeer si mantiene facendo la lavandaia. Appena la Cina comincia a Trasformarsi in un'economia capitalista lei eccelle subito nella vocazione ancestrale di tanti uiguri, il commercio. Crea unasocietà di trading con l'estero e diventa la prima donna milionaria di tutto lo Xinjiang. Usa la sua ricchezza per diventare una paladina dei diritti delle musulmane.
All'inizio il partito comunista la coopta come una beniamlna, la stampa ufficiale la presenta come un modello di donna avanzata, che ha capito le nuove regole dell'economia di mercato. È un buon esempio di emancipazione femminile che serve a esaltare la modernità cinese, in contrasto con l'oscurantismo dei vicini Stati islamici, in materia di diritti delle donne. All'Inizio degli anni '90 il governo centrale la seleziona come deputata degli uiguri al Parlamento di Pechino. Nel 1995 la manda nella delegazione cinese alla conferenza dell'Onu sulla condizione femminile. Nella seconda metà degli anni '90 però lo Xinjiang registra una nuova escalation di proteste, la repressione poliziesca è feroce: migliaia di arresti, decine di condanne a morte.Lei viene condannata a otto anni per spionaggio, solo per aver spedito dei ritagli di giornale al marito in carcere.


Tutto quello che chiedo per il mio popolo sono i diritti umani più elementari. Mi accontenterei che avessero gli stessi diritti dei cinesi». Ripete ad ogni occasione.

In merito alla politica di assimilazione degli uiguri al “resto” della vastissima popolazione cinese non c'è niente di più sbagliato. Tra uiguri e cinesi non c'è praticamente alcun punto di contatto. L'unico potrebbe essere legato all'aspetto religioso, ma l'Islam professato dagli uiguri non è assolutamente assimilabile a quello cinese, e non solo perché nel primo uno degli aspetti principali è il rispetto per l'uguaglianza tra uomo e donna.
In una situazione tesa come questa, in cui la maggior parte degli uiguri vive in estrema povertà, con case – che definire tali è solo un modo di dire – composte da mattoni legno e rami e dove in alcuni casi manca completamente il tetto, basta molto meno di una scintilla per scatenare il caos, che è esploso con il linciaggio in una fabbrica di giocattoli di due operai accusati di stupro – ma il documento che prova l’accusa si è rivelato falso – dai colleghi cinesi. Gli uiguri sono scesi nelle strade per un gigantesco sit-in, ma le forze di sicurezza sono intevenute con i carriarmati. Come in piazza Tienanmen nel 1989.
Oltre alla repressione fisica, molto importante per il regime cinese – in realtà fondamentale per ogni regime – è anche la repressione attuata sul piano mentale, ed in questo caso in particolare sul lato religioso: Fuori dalle moschee infatti sono stati affissi nuovi regolamenti che impongono che il sermone dell’Imam durante il rito del venerdì duri al massimo mezz'ora. Pregare al di fuori delle moschee è proibito, così come è vietato a chi lavora negli uffici governativi assistere alle funzioni religiose musulmane. Sia le donne che decidono di coprirsi il capo che gli uomini che si fanno crescere la barba rischiano il licenziamento. È permessa solo la versione del Corano accettata da Pechino e gli Imam non possono insegnare le scritture islamiche in privato. Durante il mese sacro del Ramadan, studenti e dipendenti degli uffici governativi sono obbligati a consumare i propri pasti a orari regolari, mentre da un paio d’anni i passaporti degli uiguri vengono confiscati per impedire che i fedeli si rechino autonomamente in pellegrinaggio a La Mecca.
Se non è una vera e propria guerra civile poco ci manca. Ma gli scontri non sono scoppiati nei mesi scorsi. Nel solo 2005, infatti, le autorità cinesi hanno arrestato ben 18.227 uiguri accusati di “minacce alla sicurezza nazionale”. Cioè alla sicurezza di un regime che non ha niente da invidiare ai grandi regimi dittatoriali di cui possiamo leggere nei libri di storia. 1500 arrestati e 180 morti è il bollettino ufficiale degli ultimi scontri.
Gli uiguri non chiedono autonomie o chissà cosa. Chiedono che i loro diritti siano assicurati così come quelli dei cinesi. Semplicemente.
Rebiya Kadeer ha lanciato un appello alla comunità internazionale per inviare una commissione indipendente d'inchiesta sul luogo della rivolta per accertare nei dettagli cosa è accaduto realmente. Ed anche per rispondere a questa semplice, ma fondamentale, domanda:
Il governo cinese sta portando gli uigur nel 21 esimo secolo o li sta distruggendo?