Come si dice desaparecidos in cinese?



Ürümci, Turkestan orientale – Secondo qualsiasi carta geografica siamo in territorio cinese, ma è davvero difficile sostenerlo girando per le strade di questa città che ufficialmente è parte del territorio autonomo dello Xinjiang. Insegne in arabo, una lingua che assomiglia più al turco che non al cinese. È questo il contesto nel quale si muovono loro, gli uiguri. 10.000 di loro sono scomparsi. In una notte. Così, come è successo in Argentina con i desaparecidos. Ma qui non ci sono madri che si riuniscono a Plaza de Mayo per richiederne il ritorno in vita; qui, in questo territorio al confine con moltissimi stati musulmani come l'Afghanistan, il Pakistan ed il Kazakhistan non ci sono neanche casse di risonanza che possano far conoscere al mondo i motivi delle sommosse che in questi giorni stanno avvenendo.
Non è di certo l'Iran del terrorista Ahmadinejad contro il quale eravamo praticamente pronti a muovere guerra. Ma sempre di “terrorismo” si tratta. O almeno questa è la parola utilizzata dalla dittatura cinese capeggiata da Hu Jintao per legittimare le uccisioni, le violenze e le violazioni dei diritti umani che sono ormai all'ordine del giorno. È la Cina, baby! Quella stessa Cina i cui cittadini emigrati nel nostro paese sono visti con tanto disprezzo mentre a livello governativo si firmano fior fiori di accordi commerciali. 2 miliardi di dollari di investimenti sono il prezzo del silenzio del nostro paese sul modo con cui il governo cinese si comporta con tutto ciò che è “dissidente”, che si tratti di popoli o che si tratti di blogger.
Accordi che però – almeno da parte cinese – non possono prescindere dal Turkestan orientale, in quanto oltre ad avere giacimenti petroliferi non certo irrilevanti, il suo territorio è attraversato dalle rotte degli oleodotti che portano l’energia dal Medio Oriente, e anche le sue risorse sono considerate vitali: sotto i piedi degli uiguri – infatti - passa il 40% del carbone della Cina. E si capisce bene come questo non sia molto apprezzato dal governo. Per questo da molti anni il regime cinese sta attuando una vera e propria politica di distruzione degli uiguri (il cui nome potremmo tradurlo come “alleati”,”uniti”). Iniziano dalle piccole cose, dall'imposizione dello studio del mandarino a dei bambini in realtà turcofoni (e che per questa sorta di handicap si ritrovano alle scuole medie quando per la loro età dovrebbero essere al liceo) fino ad arrivare ad una specie di sfratto di massa, la cosiddetta “sinizzazione”. Il regime cinese infatti sta tentando in tutti i modi di estirpare gli uiguri dal loro territorio, popolando l'area di propri coloni di etnia Han – la razza cinese centrale, che sta anche impossessandosi del Tibet – e deporta le donne locali in età fertile. Una sorta di genocidio senza spargimento di sangue.
Come se non bastasse, a tutto questo deve aggiungerci anche la sfiga di non avere lo stesso appeal dei tibetani, perché non hanno una figura mediaticamente carismatica come il Dalai Lama. La loro figura di spicco è una “terrorista” di 62 anni che vive in esilio negli Stati Uniti. Si chiama Rebiya Kadeer e come ogni buon leader dissidente che si rispetti è stata anche in carcere. Ma prima non era così. Per farvela conoscere, riporto una breve biografia ripresa da un articolo di Federico Rampini:
Di origini umili, da ragazza la Kadeer si mantiene facendo la lavandaia. Appena la Cina comincia a Trasformarsi in un'economia capitalista lei eccelle subito nella vocazione ancestrale di tanti uiguri, il commercio. Crea unasocietà di trading con l'estero e diventa la prima donna milionaria di tutto lo Xinjiang. Usa la sua ricchezza per diventare una paladina dei diritti delle musulmane.
All'inizio il partito comunista la coopta come una beniamlna, la stampa ufficiale la presenta come un modello di donna avanzata, che ha capito le nuove regole dell'economia di mercato. È un buon esempio di emancipazione femminile che serve a esaltare la modernità cinese, in contrasto con l'oscurantismo dei vicini Stati islamici, in materia di diritti delle donne. All'Inizio degli anni '90 il governo centrale la seleziona come deputata degli uiguri al Parlamento di Pechino. Nel 1995 la manda nella delegazione cinese alla conferenza dell'Onu sulla condizione femminile. Nella seconda metà degli anni '90 però lo Xinjiang registra una nuova escalation di proteste, la repressione poliziesca è feroce: migliaia di arresti, decine di condanne a morte.Lei viene condannata a otto anni per spionaggio, solo per aver spedito dei ritagli di giornale al marito in carcere.


Tutto quello che chiedo per il mio popolo sono i diritti umani più elementari. Mi accontenterei che avessero gli stessi diritti dei cinesi». Ripete ad ogni occasione.

In merito alla politica di assimilazione degli uiguri al “resto” della vastissima popolazione cinese non c'è niente di più sbagliato. Tra uiguri e cinesi non c'è praticamente alcun punto di contatto. L'unico potrebbe essere legato all'aspetto religioso, ma l'Islam professato dagli uiguri non è assolutamente assimilabile a quello cinese, e non solo perché nel primo uno degli aspetti principali è il rispetto per l'uguaglianza tra uomo e donna.
In una situazione tesa come questa, in cui la maggior parte degli uiguri vive in estrema povertà, con case – che definire tali è solo un modo di dire – composte da mattoni legno e rami e dove in alcuni casi manca completamente il tetto, basta molto meno di una scintilla per scatenare il caos, che è esploso con il linciaggio in una fabbrica di giocattoli di due operai accusati di stupro – ma il documento che prova l’accusa si è rivelato falso – dai colleghi cinesi. Gli uiguri sono scesi nelle strade per un gigantesco sit-in, ma le forze di sicurezza sono intevenute con i carriarmati. Come in piazza Tienanmen nel 1989.
Oltre alla repressione fisica, molto importante per il regime cinese – in realtà fondamentale per ogni regime – è anche la repressione attuata sul piano mentale, ed in questo caso in particolare sul lato religioso: Fuori dalle moschee infatti sono stati affissi nuovi regolamenti che impongono che il sermone dell’Imam durante il rito del venerdì duri al massimo mezz'ora. Pregare al di fuori delle moschee è proibito, così come è vietato a chi lavora negli uffici governativi assistere alle funzioni religiose musulmane. Sia le donne che decidono di coprirsi il capo che gli uomini che si fanno crescere la barba rischiano il licenziamento. È permessa solo la versione del Corano accettata da Pechino e gli Imam non possono insegnare le scritture islamiche in privato. Durante il mese sacro del Ramadan, studenti e dipendenti degli uffici governativi sono obbligati a consumare i propri pasti a orari regolari, mentre da un paio d’anni i passaporti degli uiguri vengono confiscati per impedire che i fedeli si rechino autonomamente in pellegrinaggio a La Mecca.
Se non è una vera e propria guerra civile poco ci manca. Ma gli scontri non sono scoppiati nei mesi scorsi. Nel solo 2005, infatti, le autorità cinesi hanno arrestato ben 18.227 uiguri accusati di “minacce alla sicurezza nazionale”. Cioè alla sicurezza di un regime che non ha niente da invidiare ai grandi regimi dittatoriali di cui possiamo leggere nei libri di storia. 1500 arrestati e 180 morti è il bollettino ufficiale degli ultimi scontri.
Gli uiguri non chiedono autonomie o chissà cosa. Chiedono che i loro diritti siano assicurati così come quelli dei cinesi. Semplicemente.
Rebiya Kadeer ha lanciato un appello alla comunità internazionale per inviare una commissione indipendente d'inchiesta sul luogo della rivolta per accertare nei dettagli cosa è accaduto realmente. Ed anche per rispondere a questa semplice, ma fondamentale, domanda:
Il governo cinese sta portando gli uigur nel 21 esimo secolo o li sta distruggendo?