Cina: un Xinjiang rosso, di sangue

di Alessia Virdis per Limes
Azgul martedì mattina è andata al mercato, quasi deserto. Con in tasca uno yuan e mezzo, voleva comprare, come sempre, un chilo di patate. Ma martedì, a Urumqi, con quei pochi spicci, di patate non se ne riusciva a comprare neanche mezzo chilo. Per la solita busta le hanno chiesto tre yuan e mezzo. E Yu per i soliti due chili di fagioli bianchi ha dovuto sborsare 12 yuan, mentre fino alla scorsa settimana ne bastavano quattro. Due miliardi di dollari intanto tintinnavano da ore nei portafogli di Roma e Pechino per i 38 accordi freschi, siglati durante il «grande successo» del viaggio di Stato in Italia del presidente cinese Hu Jintao. Quando i prezzi salgono, i mercati si svuotano e gli scaffali dei negozi mostrano solo la polvere sui ripiani, la tensione, solitamente, è già alle stelle. Accade anche nel Xinjiang di Pechino e Yu, che gli uiguri e Azgul chiamano Turkestan Orientale.
La polveriera del Xinjiang, strategica regione «autonoma» della Cina nordoccidentale, è esplosa, dopo sporadici scontri, nell’anno in cui il gigante d’Asia festeggia il suo 60mo compleanno, a pochi mesi di distanza dal 20mo anniversario dal massacro di Tian’anmen, a poco più di un anno dalla rivolta in Tibet, scoppiata a ridosso delle Olimpiadi di Pechino, dopo una lunga serie di «incidenti di massa». E’ esplosa proprio mentre Hu passeggiava tra il Colosseo e il Pantheon, veniva ricevuto dalle massime cariche dello Stato italiano, che nessun accenno hanno fatto al massacro (156 morti e 1.080 feriti per Pechino, tra i 600 e gli 800 morti per gli uiguri che contano solo le vittime della propria etnia) in sua presenza, lasciando al presidente della Repubblica Napolitano l’incombenza di ricordare almeno che «il progresso economico e sociale della Cina pone nuove esigenze in materia di diritti umani». Dov’è la «società armoniosa»? Agli occhi del mondo la rabbia dei cinesi Han e degli uiguri (etnia turcofona di fede islamica) del Xinjiang parla di scontro etnico, di insofferenze arrivate al limite, quando manca solo la goccia che fa traboccare il vaso. Lo scontro etnico sarebbe tra i cinesi Han, circa il 95 per cento della popolazione della Cina e circa il 40 per cento della popolazione del Xinjiang, e gli uiguri, che in tutto il gigante d’Asia sarebbero tra i sette e i nove milioni e circa il 45 per cento degli abitanti del Xinjiang. La miccia sarebbe stata il linciaggio a Guangzhou (Canton) di alcuni uiguri da parte di colleghi Han. Episodio sottovalutato, evidentemente, dalle autorità del Xinjiang, che potrebbero essere le prime a pagare, per di più alla luce di una rivolta che non è stata repressa prima che esplodesse. Anche se Azgul, prossima alle nozze, alla cerimonia ha invitato gli amici Han e gli amici Han quando sono scoppiati gli scontri a Urumqi le hanno suggerito di non uscire di casa. Azgul e i suoi amici Han convivono pacificamente, come accade in altre regioni tra gli Han e gli altri 20 milioni di musulmani cinesi di nove etnie, oltre a quella uigura. Per una parte degli uiguri, però, Pechino ha colonizzato il Xinjiang, mentre dalla capitale si ribadisce spesso che la regione è «una parte inseparabile della nazione cinese unita e multietnica».
Nel Xinjiang ci sono cinesi Han che convivono pacificamente con i cinesi uiguri, ma, suggeriscono le immagini e le notizie che arrivano dall’estremo nordovest del gigante d’Asia, ci sono anche risentimenti che covano da tempo e che fanno vacillare il sogno di una «società armoniosa» inseguito dal presidente Hu Jintao. Gli Han sono arrivati nel Xinjiang su invito, caloroso, di Pechino. La massiccia immigrazione è stata agevolata, così come avvenuto in Tibet, per evitare che la regione «autonoma» potesse sfuggire di mano al lontano e unico centro del potere. E oggi nel Xinjiang, ricco di risorse (75mila tonnellate di greggio al giorno nel 2007, ma ci sono anche carbone e gas) e grande cinque volte l’Italia, il potere è nelle mani degli Han, che fanno carriera e affari.
Il malcontento Han nei confronti degli uiguri, che come tutte le minoranze etniche non devono sottostare alla politica del figlio unico, sarebbe dovuto anche al fatto che questi ultimi goderebbero di privilegi, sussidi dal governo centrale e agevolazioni in modo da poter praticare la propria religione. Peccato che, denuncia a Limes l’attivista per i diritti umani Harry Wu*, in Cina «la libertà di religione non esiste per nessuno», se non sotto stretto controllo. «I tibetani e gli uiguri non possono praticare la propria religione», sottolinea Wu, ricordando che «Pechino considera la regione come una fonte alternativa di potere da cui potrebbe derivare autorità». «Come diretta conseguenza – osserva – i comunisti temono la religione e coloro che osano difendere il proprio sistema di valori». Tanto che «si sono spinti fino a nominare i propri vescovi e, chissà, forse un giorno potrebbero decidere di nominare un Papa!».
Pechino, che organizza ogni anno pellegrinaggi alla Mecca in occasione dell’Hajj per i musulmani cinesi, ha anche i suoi imam “di fiducia”. Il 77enne imam Chen Guangyuan, presidente dell’Associazione islamica di Cina, ha parlato dei fatti del Xinjiang lasciando ben trapelare di essere una pedina del governo all’interno della comunità islamica. L’escalation di violenza, ha detto, non è in linea «con la dottrina di base dell’Islam», rappresenta un «crimine grave», che ha compromesso la «stabilità e l’ordine sociale».
Gli uiguri, ha denunciato spesso la portavoce nel mondo della causa uigura Rebiya Kadeer, sono vittima di discriminazioni di ogni sorta, di «arresti arbitrari, torture ed esecuzioni», di una mortificazione della cultura e della religione. E gli uiguri non dimenticano neanche la distruzione del vecchio bazar di Kashgar con il trasferimento coatto di migliaia di famiglie dalle vecchie costruzioni tradizionali in nuovi edifici alla periferia della città.
Per Pechino, secondo cui come al solito chi tenta di parlare di proteste pacifiche sfociate nel sangue «sta cercando di trasformare il nero in bianco», i fatti del Xinjiang sono pura e semplice «violenza premeditata», organizzata all’estero da Rebiya Kadeer. Ma quest’ultima, ovviamente, ha respinto le accuse, definendole «completamente false». Il copione è lo stesso recitato nel 2008, cambiano gli attori. Lo scorso anno la rivolta del Tibet, infatti, era stata un complotto con la regia del Dalai Lama, che oggi si dice «preoccupato e profondamente rattristato» per quanto avviene nel Xinjiang. La Kadeer, sottolinea Wu, da tempo si batte per un «movimento non violento per la sua gente e non trovo affatto convincente la retorica del regime della Repubblica Popolare Cinese nel dimostrare il contrario».
Da anni Pechino promuove nel Xinjiang progetti in nome dello sviluppo, che contribuiscono anche a consolidare sempre più il legame tra la regione, ancora molto povera, e il resto della Cina. «La vita materiale della popolazione cinese è migliorata molto negli ultimi due decenni – ammette Wu – Tuttavia, ad oggi, i diritti politici di cui godono anche i cinesi Han sono molto limitati». In questo scenario, secondo Wu, «lo sviluppo economico di zone come il Turkestan Orientale viene utilizzato per celare, agli occhi della comunità internazionale, ogni possibile violazione dei diritti umani da parte del regime contro la popolazione uigura».
Oggi, prosegue, «le minoranze etniche godono di ben pochi benefici diretti dello sviluppo economico». Tutto perché, «lo sviluppo armonioso implica il silenzio degli oppressi sotto il regime comunista». E alle accuse, la leadership della Repubblica Popolare risponde sottolineando che rispetta le minoranze etniche e, nel caso degli uiguri come dei tibetani, ne ha migliorato le condizioni di vita, sia in termini economici che di accesso ai servizi sanitari e all’istruzione.
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Gli uiguri hanno legami culturali con l’Asia centrale. Migliaia di uiguri vivono in Kazakistan, Kirghizistan e Uzbekistan e da tempo la Cina coltiva le relazioni con i suoi vicini, anche attraverso l’Organizzazione per la cooperazione di Shanghai. Negli anni Novanta nel Xinjiang sono stati frequenti gli attacchi sferrati da gruppi separatisti. Poi, dopo l’11 settembre, il Xinjiang è divenuto oggetto di una politica sempre più dura da parte di Pechino in nome della lotta al terrorismo. Le preoccupazioni per le attività degli uiguri separatisti sono cresciute alla vigilia delle Olimpiadi di Pechino, con attacchi e azioni violente che hanno portato la paura fino allo Yunnan, nel sudovest della Cina. Gli uiguri, che negli anni Ottanta e Novanta hanno attraversato i confini della Cina per arrivare in Afghanistan e Pakistan, sono finiti anche a Guantanamo e dopo il rilascio alcuni sono stati accolti in Albania, altri alle Bermuda e presto 13 arriveranno a Palau.
A Roma facevano da contraltare alla passerella di Hu, emblema della diplomazia del sorriso, le notizie che arrivavano dal Xinjiang. Sorrisi al Quirinale con il Presidente della Repubblica, a Villa Madama con Berlusconi e anche con i Presidenti di Camera e Senato, stonavano con le notizie che lunedì trapelavano del massacro in corso nell’estremo nordovest della Cina. E se «il progresso economico e commerciale della Cina pone nuove esigenze in materia di diritti umani», gli affari (nel 2008 l’interscambio commerciale ha raggiunto quota 38,2 miliardi di dollari), però, possono prescindere dalla questione dei diritti. «Come dimostrano gli accordi definiti dal presidente Hu e dal governo italiano – osserva Wu – quello degli affari è un argomento facile di cui discutere. Le difficoltà vere arrivano quando si devono affrontare i diritti umani, questione che è stata omessa da entrambe le parti». Così Wu critica la politica del «coinvolgimento economico della Cina comunista» che avrebbe dovuto influire sul «sistema politico comunista». E spiega che «più la Cina diventa un attore economico potente a livello globale, più le sue pratiche divengono draconiane in merito alle libertà della sua popolazione». Tanto che «i sofisticati mezzi di repressione attualmente utilizzati dal regime comunista non hanno rivali al mondo».
Mentre la stampa iniziava a parlare di «caccia al musulmano» nel Xinjiang, a Roma la caccia agli affari cinesi e agli investimenti italiani nel gigante d’Asia dava buoni frutti. Pur sempre convinto (e forse non a torto) che la Cina non pagherà mai un prezzo politico all’estero per le sue ombre, Hu questa volta ha deciso di abbandonare l’Italia in fretta e furia, nella notte dopo una giornata di contestazioni, prima dell’inizio del G8, a margine del quale erano previsti un faccia a faccia con Barack Obama, «profondamente preoccupato» per l’escalation di violenza nel Xinjiang, e un bilaterale con Angela Merkel, che di diritti di uiguri avrebbe voluto parlare. Mercoledì, alla notizia di apertura dei lavori del G8, quando Hu è arrivato in patria, annullando anche la visita in Portogallo, si è contrapposta quella della decisione delle autorità cinesi di comminare la pena di morte ai responsabili dell’escalation di violenza nella regione «autonoma». Sinora Pechino ha fatto sapere di aver arrestato circa 1.500 persone in relazione ai fatti del Xinjiang.
Hu, dall’Italia, aveva margini stretti di manovra, poteva essere accusato di assenteismo e non poteva essere informato a 360 gradi di quanto stava avvenendo in patria, in modo da poter anche rispondere eventualmente di fronte ai leader del G8. Lontano Hu, il ministro degli Esteri Franco Frattini che poche ore prima aveva ricevuto il collega Yang Jiechi, ha fatto un appello affinché «quelle condanne non vengano né comminate né eseguite».
«La Cina rispetta la forza, solo la forza– osserva Wu – E’ solo adottando una posizione forte contro le violazioni dei diritti umani che avvengono quotidianamente che la comunità internazionale sarà in grado di porre fine alle perenni sofferenze della popolazione cinese». Gli uiguri, denuncia Rebiya Kadeer, come i tibetani e tutti i cinesi «sono vittime della politica del governo».

L’implacabile macchina della repressione cinese anche questa volta ha subito tentato di mettere il bavaglio a Internet, che, hanno fatto sapere martedì i responsabili cinesi, «è stato bloccato in alcune zone di Urumqi» per «fermare rapidamente le proteste e impedire che la violenza arrivi in altre zone». Eppure, come in Iran, è stato in parte il web a non far calare il silenzio su quanto avvenuto nel Xinjiang, grazie ai social network e a YouTube. Con il telefonino in mano c’è anche chi a Urumqi ha mostrato la foto del marito che viene arrestato. Per la Cina, che pure ha concesso a una sessantina di giornalisti stranieri di entrare nel capoluogo del Xinjiang per un “giro di propaganda”, rovinato da una manifestazione di donne uigure, i fatti del Xinjiang restano un affare interno, da cui il mondo deve rimanere fuori, dopo aver capito che gli aggressori sono gli uiguri. Tra gli Han non manca chi ritiene che il governo non abbia usato il pugno di ferro contro gli uiguri, contro le loro «violenze selvagge», una minaccia per la patria. Le immagini di cadaveri per le strade, quando arrivano sugli schermi delle televisioni cinesi, servono a ricordare dove sta il “Male” e come va affrontato. Il nazionalismo, in Cina, è anche desiderio di stabilità da cui trasuda il timore di fare passi indietro e si traduce in consenso per le politiche di Pechino. Poi ci sono le voci soppresse o inascoltate e il silenzio. E ora l’abilità sta nel riuscire a non spaccare il Paese. A Pechino, da martedì, è sparito un noto economista uiguro. E’ la «società armoniosa», la Cina che si prepara a spegnere 60 candeline.


Speciale: Scontri nello Xinjiang: domande e risposte.

* Wu, classe 1937, da 30 anni vive negli Stati Uniti dopo aver trascorso 19 anni in diversi laogai della Cina. Arrestato nel 1956 per critiche al Partito comunista cinese, Wu, in 12 diversi campi, è stato costretto a estrarre carbone, costruire strade e lavorare la terra subendo pesanti torture. E’ il fondatore della Laogai Research Foundation, con sede a Washington, e autore di Laogai. L’orrore cinese (Spirali, 2008)