Vandana Shiva: alla riscoperta dell'oro verde


«L'Amazzonia non appartiene solo al Brasile, ma al mondo intero. E la necessità di proteggerla dovrebbe essere una questione che riguarda il mondo intero. I governi ma anche i consumatori finali. Per questo quello che ha scoperto Greenpeace è così importante e chiama in causa tutti. Me che sono indiana così come voi che siete italiani».

Vandana Shiva nasce nel 1952 a Dehra Dun, nel nord dell'India da una famiglia progressista. Ha studiato nelle università inglesi ed americane, laureandosi in fisica. Per chi – come me – si schiera dalla parte contraria al fenomeno della globalizzazione (una volta ci chiamavano “no global”, ma dice che questo termine non esista più) è un mito: è a capo del movimento per la protezione della biodiversità e ha rischiato anche il carcere, nel Punjab, per aver guidato migliaia di contadini in collera con le multinazionali. Nel 1991 ha fondato Navdanya, un movimento per proteggere la diversità e l' integrità delle risorse viventi, specialmente dei semi autoctoni in via di estinzione a causa della diffusione delle coltivazioni industriali. Come ognuno di noi, anche a Vandana Shiva è capitato quel famoso “episodio che cambia la vita”. Al ritorno in India dopo gli studi - infatti - rimase traumatizzata rivedendo l'Himalaya: aveva lasciato una montagna verde e ricca d'acqua con gente felice, poi era arrivato il cosiddetto "aiuto" della Banca Mondiale con il progetto della costruzione di una grande diga e quella parte dell'Himalaya era diventato un groviglio di strade e di slum, di miseria, di polvere e smog, con gente impoverita non solo materialmente. Decise così di abbandonare la fisica nucleare e di dedicarsi all'ecologia, fondando nel 1982 il «Centro per la Scienza, Tecnologia e Politica delle Risorse Naturali». I suoi primi risultati vanno a formare “Sopravvivere allo sviluppo”, con il quale inizierà una lunga serie di saggi – e di conferenze che la portano in giro per il mondo, e spesso anche nel nostro paese – tutti estremamente critici verso la «globalizzazione neoliberista». Questa che vi propongo è l'intervista rilasciata a Francesca Caferri per Repubblica, edizione odierna.
Signora Shiva, perché questa è una questione globale?
L'Amazzonia non è solo una foresta. Non è solo del Brasile. E', prima di tutto, il più grande deposito di biodiversità del mondo. Il più importante contributo alla stabilità climatica e idrogeologica che ci sia rimasto sulla terra. Per questo è una questione mondiale. E posso dire, per averlo visto con i miei occhi, che la distruzione che sta avvenendo lì e la lotta impari degli indigeni contro le imprese che vogliono legno e materie prime e a cui non importa nulla di loro, è una questione globale e come tale andrebbe trattata. Dai governi per primi.
Cosa dovrebbero fare?
Dovrebbero innanzitutto dimenticare la parola profitto quando si parla di questa zona del mondo. Gli unici investimenti in Amazzonia dovrebbero essere diretti a garantirne la sopravvivenza e la protezione. Questo da solo dovrebbe essere considerato un guadagno, in termini di stabilità. Quello che mi aspetto concretamente è la formazione di un'alleanza globale fra i paesi in nome della conservazione dell'Amazzonia.
Il G8 che si svolgerà fra qualche settimana in Italia ha la tutela dell'ambiente e il cambiamento climatico fra i punti principali della sua agenda. Crede che il discorso sull'Amazzonia potrebbe essere affrontato lì?
Francamente non mi aspetto molto dal G8. Mi aspetto molto di più dal G20, il vertice allargato a cui prendono parte i paesi cosiddetti emergenti e, in questo caso, il Brasile. E' quella la sede per spingere verso un cambiamento. Quello che è successo dal settembre dello scorso anno ad oggi avrebbe dovuto insegnarci qualcosa. Che il modello di sviluppo cieco, che distrugge tutto intorno a sé, che punta solo al profitto, non funziona. Non funziona più. Eppure questo è il modello di sviluppo che sta distruggendo l'Amazzonia. Per guardare al futuro dobbiamo pensare a un modello diverso, illuminato lo definirei. Dove l'idea di futuro e quella di sviluppo convivano.
In questo modello che ruolo hanno i consumatori finali? Come lei sa bene il rapporto di Greenpeace li chiama in causa direttamente, mettendo sul patibolo marchi che sono fra i più conosciuti al mondo...
I consumatori possono molto. La prima cosa da fare sarebbe stabilire una moratoria internazionale su qualunque bene che sia collegato in qualche modo alla distruzione dell'Amazzonia. Questo spetta ai governi, ma poi devono scendere in campo anche i consumatori. Pensiamo a quello che è accaduto con l'influenza suina in Messico: colti dal panico, i consumatori hanno imposto ai supermercati di tutto il mondo di non vendere più carne arrivata dal Messico. Le esportazioni sono crollate nel giro di qualche giorno. O pensiamo al movimento che si è sviluppato in molti paesi d'Europa contro gli organismi geneticamente modificati: le proteste hanno imposto alle catene di distribuzione di essere OGM free, almeno in parte. Ora, lo stesso si può fare per l'Amazzonia: i consumatori possono fare pressioni sui negozi perché non vendano nessun prodotto che non sia “Amazon free”. Rispettoso dell'Amazzonia, non derivato dalle sue materie prime. E poi dovrebbero chiedere di consumare solo carne locale: in questa maniera le importazioni dal Brasile crollerebbero.
Tutto questo però creerebbe un danno grave all'economia del Paese: e non possiamo dimenticare che parliamo di uno stato in cui buona parte della popolazione vive ancora in povertà...
La maggior parte delle coltivazioni e degli allevamenti in Amazzonia sono illegali. Da questa economia guadagna solo chi commercia in modo illegale, non il paese.
Parliamo delle popolazioni indigene: come lei sa, molti sostengono che la vicinanza con la “civiltà” sia per loro un bene. Qual'è la sua opinione?
Io non sono d'accordo. Se guardiamo al futuro e a quello che ci serve per andare avanti, capiremo che l'elemento fondamentale è una relazione bilanciata con la terra. Un sistema di conoscenza e di vita che non sia basato sullo sfruttamento ma sull'armonia. In questa maniera gli indigeni hanno molto da insegnarci, non sono certo dei primitivi. Primitivi mi sembrano piuttosto quelli che li vogliono cacciare.